Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

martedì 28 febbraio 2012





Recensione dedicata a Du Fu

di Roberto Maggiani



Con questa plaquette è stata avviata, dalle Edizioni L’Arca Felice – direzione editoriale e artistica di Ida Borrasi – una nuova collana di poeti tradotti da poeti, a cura di Mario Fresa. Nel comunicato stampa che la accompagna si legge:

La casa editrice L’Arca Felice inaugura Hermes, una nuova collana che ospita brevi raccolte di poeti stranieri tradotte da poeti italiani contemporanei. Il primo titolo è dedicato alla figura di Du Fu (712-770), straordinaria voce poetica della Dinastia Tang, i cui testi appaiono per la prima volta in versione italiana grazie all’impegno sensibile di Alessandro Ramberti, poeta, editore, orientalista. La selezione offerta nella plaquette ci consente di conoscere una scrittura fondata su di una misura perfetta che unisce l’energia di uno sguardo eticamente alto, forte e puro alla morbidezza di una lingua cristallina e sfumata, sempre lontana dai toni assertivi e percorsa, costantemente, da una calma e delicata luce interiore. L’impeccabile lavoro di studio e traduzione operato da Alessandro Ramberti presenta i testi nella loro trascrizione letterale e, contemporaneamente, nella più mobile e aperta forma di una interpretazione che ricostruisce lo spirito del pensiero poetico di Du Fu tenendo conto della necessità di ricalcare il più possibile le peculiarità espressive, metriche e sonore dell’impianto linguistico originario.

La plaquette contiene quattro poesie nella traduzione di Alessandro Ramberti, ognuna delle quali è accompagnata dal testo in lingua originale e da una traduzione letterale. Il confronto con la traduzione letterale rileva l’ottima traduzione di Ramberti, sono scelte di vocaboli e di costrutti che mettono in evidenza lo stile, percorso da una calma e delicata luce interiore,  di uno tra i più grandi poeti cinesi. Nel corso della propria vita, Du Fu, cambiava il tenore dei componimenti con l’adattarsi alle condizioni ambientali che lo circondavano, passando, come afferma lo studioso Stephen Owen, da opere di decisa semplicità, del suo periodo Qinzhou, a opere leggere, spesso finemente rispettose, del suo periodo Chengdu, a opere con densità e potere di visione del tardo periodo Kuizhou.
Poche poesie, quattro, che bastano, da sole, a dilatare un breve intervallo temporale personale di lettura sulla misura di un tempo di meditazione che mitiga, in qualche modo, per la pacatezza delle sue descrizioni/visioni paesaggistiche – che metaforicamente rimandano a più personali paesaggi interiori –, penose personali ansie per l’esistenza.

Riporto, per esteso, il testo poetico che contiene il verso che dà il titolo alla plaquette:


Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono.
In città è primavera e il verde è intenso
Commossi i fiori propagano lacrime
Soli gli uccelli fan fremere il cuore.
Fuochi di guerra duran da tre mesi
Lettere da casa valgon più che oro.
Mi gratto la canizie ormai si rada
Che è appena in grado di reggere la spilla*.

* Per fissare il copricapo dei funzionari



Le edizioni de L’Arca Felice sono caratterizzate non solo da un’ottima qualità dei testi proposti, ma anche, e in modo netto, rispetto ad altre pari pubblicazioni di qualità, da un’ottima qualità grafica e di scelta della carta con cui è confezionata la pubblicazione; le carte sono infatti scelte da un artista, Bruno Conte. Inoltre l’opera è resa ancora più preziosa per la sua proposta limitata in 110 esemplari numerati a mano. Fuori testo una litografia di Francesco Ramberti: Du Fu (China, 2011). Da notare il tocco di classe del filo di rafia, esso avvolge la pubblicazione come a raccogliere le pagine.






lunedì 27 febbraio 2012

Eugenio Nastasi

 Eugenio Nastasi

 Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.
 







   È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme e una sorta di extrarealtà, evocata da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una scrittura straordinaria?

   In via preliminare bisognerebbe operare un distinguo tra l’uditorio concesso ai poeti nella nostra distratta e fuorviata realtà contemporanea e la funzione mediatrice degli stessi tra realtà ed extrarealtà.   
   Compiendo il salto del fosso, trovo percorribile la funzione dei poeti come testa di ponte per agganciare, attraverso la scrittura poetica, un nesso condivisibile tra il qui-e-altrove della “caverna azzurra” della poesia e il pubblico dei lettori.
   Mettendomi dalla parte di chi legge ciò accade quando la realtà contenuta nella scrittura, non solo mi distoglie da notizie e da titoli a grandi lettere, ma riesce a oltrepassarli con uno scatto, per così dire, di fianco, senza il mio intervento, ma solo grazie al mio ascolto: spingendomi al di fuori di una vastità che si è manifestata quando una composizione mi ha fatto ascoltare qualcosa che magari a prima vista non aveva significato. Ma se il poiein è reale, adesso scopro che lì c’è posto per la poesia, e questo posto va dal mio orecchio più interno fino alla sua delimitazione, che non è nominale ma solo intuibile con la parola lontananza. Potrebbe trattarsi della cifra nascosta di Novalis?

    Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti arrivasse, ad illuminare?

   Riferire della propria poesia non è sempre facile: si potrebbe far ricorso ad un quid innato, ma non basterebbe se non fosse coltivato; fare appello alle letture amate, ai solfeggi che vengono da chissà dove, ai classici, agli input senza confine del secolo breve, alla mia full immersion nella natura naturans, ai poeti che capovolgono la mia weltanschauung, ma si tratta ancora di correlati, contorni, sapori avventizi. È ancora la vita vissuta a dettar legge, «qui i rapporti seducono, è la parola che nutre e appaga come la subitanea rivelazione di una verità; dire che questa verità è di ordine poetico, equivale semplicemente a dire che la parola poetica non può mai essere falsa perché totale; brilla di una libertà infinita e si appresta a irraggiare verso mille incerti possibili rapporti.» (Barthes). Se fosse un quanto di luce, ecco vorrei che la mia poesia utilizzasse lo stupore di nominare un evento o il groviglio di sentimenti immediati e senza passato, anche un sogno che proponesse l’ombra fitta dei riflessi di ogni provenienza a lei connesso. E dovrebbe giungere a illuminare fin dove è ancora l’amore a strapiombo dal cielo, lungo i frattali che perimetrano i continenti.

   Secondo te a cosa serve la poesia in questi tempi moderni? Qual è il suo ruolo?

   Chi ha orecchi per intendere intenda: la poesia in questi nostri tempi moderni, anche quella del re Davide e di S. Juan de la Cruz, serve per fermarsi e riflettere; per decrittare le sequenze di senso che arrivano dal villaggio globale; le parole della poesia non si impongono, non ordinano nulla, anche se non sempre sono un’immagine familiare; il loro ruolo dovrebbe essere la serietà, che conservano dalla prima frase fino all’ultima. «Il loro effetto più grande», scrive Kolleritsch, «è l’autorità senza autore».













PENSIERI A CROMATURA VARIABILE



…ma il vizio non ha per madre la scienza,
                                                     e la virtù non è figlia dell’ignoranza…
                      
                                                  Agrippa D’Aubignè, Poema tragico


Ultime grida da Maierato

Quando improvvisa una burrasca
ombreggia le colline,
quando l’ulivo si contrae e l’aria fermenta
saette come lamine d’acciaio,
quale spiraglio d’azzurro
può essere raggiunto?
Quale alfabeto di singole parole
può affiorare dai gesti?

Nelle corde della nave in disarmo,
nelle pieghe del mantello di argilla
s’intorbida il paesaggio.
La vista affonda il mondo esterno
in ruscelli verticali
e le sagome e i volti diventano un ostaggio:
pallidi, costretti in un perimetro di schegge,
bloccati dalla melma.

Così una chiocciola umana rimane
sul fondo del burrone
e la velocità del suono affonda l’attesa.
Così un rametto di resina all’aperto basta
a riardere tutta una fascina
e la pendola che batteva il cuore della casa
ferma le lancette in questo tempo,
mentre nell’altro l’ora continua a oscillare.
 
Eugenio Nastasi, attivo sia in campo poetico sia in pittura, ha preso parte a mostre e collettive in tutta Italia. Come poeta, dal 1987, ha pubblicato otto raccolte, le cui ultime due sono: Un sogno guidato (Lepisma, Roma, 2008, premio poesia edita EriceAnteka, 2009); Canti senza percorsi (LaRecherche.it, 2010, in formato eBook liberamente scaricabile su www.ebook-larecherche.it). È risultato finalista a molti concorsi letterari ed è stato tra i vincitori, sia con liriche inedite sia con opere edite, ai seguenti premi: Alfonso Gatto (Salerno, 1990); Insieme nell’Arte (Palermo, 1995); Marianna Florenzi (Perugia, 2000); Agemina (Firenze, 2007); Rhegium Julii (Reggio Calabria, 2009); Renato Giorgi (Sasso Marconi, 2009); Città di Calopezzati (2010).

   È stato finalista alle edizioni 1996 (Roma) e 1997 (Napoli) del Premio Internazionale Eugenio Montale. Suoi interventi critici o poesie sono apparsi in varie riviste.
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Giacomo Leronni

Giacomo Leronni


 Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.

 







   È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme e una sorta di extrarealtà, evocata da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una scrittura straordinaria?

   Non solo è possibile, ma a mio giudizio è esattamente quello che il poeta deve fare. Molti sono convinti che il poeta debba dar conto della realtà e alla realtà. Invece il compito del poeta è quello di calare nella realtà il gusto, il desiderio di ciò che travalica la realtà, di ciò che è prima, durante e dopo la realtà, di ciò che, esistendo da sempre, la supera in ogni momento. Nella dialettica fra forme e scrittura, poi, va posta la massima attenzione all’uso del linguaggio, che è la chiave di volta del sistema e informa di sé la materia poetica.
   In altri termini: se vogliamo richiamare o evocare nella realtà ciò che è più della realtà, allora dobbiamo ricorrere a un linguaggio differente rispetto a quello che ci aspetteremmo (anche noi poeti).
   Un linguaggio che non può non essere in qualche modo eversivo, estremamente spiazzante e, anche, positivamente inquietante rispetto a quello che usiamo tutti i giorni e che non fa altro che disporci alla ripetizione, più o meno coatta, delle stesse azioni e delle stesse interpretazioni. Se sapremo ricorrere a questo linguaggio, la nostra scrittura non potrà che rivelarsi “straordinaria”: non potrà che uniformarsi, cioè, alla sua vera essenza, al motivo unico e perenne per il quale appare nel mondo delle forme.

   Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti arrivasse, ad illuminare?

   Credo che la mia scrittura poetica sia appunto caratterizzata da uno scarto evidente rispetto alla realtà così come siamo soliti codificarla. Io approccio la realtà che mi circonda secondo un’ottica visionaria, che rappresento grazie a un codice linguistico appositamente forgiato in anni di interrogativi orientati alla faticosa ricerca di uno stile. Mi sento lontano sia da una parte della poesia moderna, in cui il poeta racconta grosso modo il quotidiano della sua esperienza, sia dalla sua malattia o degenerazione in un tipo di scrittura esageratamente reificata, in cui le cose sembrano avere una vita in sé del tutto svincolata dalla mente che le percepisce. L’oggetto vive, in un certo modo, oltre noi: su questo possiamo convenire. Ma ciò non significa che, di fronte ad esso, la nostra ragione deve eclissarsi limitandosi ad accettarne la pura ed assoluta presenza e oggettività, perché questa accettazione, sotto mentite spoglie, è un trampolino verso l’annichilimento dell’uomo, verso il nulla. Ora, anche nella mia poesia è molto presente il vuoto, il nulla. Ma il fatto è che bisogna arrivare a parlarne rendendolo quasi carnale, dandogli sangue e anche desideri, piuttosto che infilarlo surrettiziamente in ciò che scriviamo attraverso una fredda raccolta ed elencazione di dati o oggetti.
   Ecco: vorrei che la mia poesia potesse dare un altro nome al vuoto in cui siamo immersi, senza eliminare il confronto per paura della sua evidenza, ma anche senza dare per scontato che si tratti di una realtà oggettiva priva di bagliori impagabili e di insospettabili speranze. E vorrei anche arrivare a dire qualcosa sul buio e sulla sua paradossale, estrema lucentezza.

    Secondo te a cosa serve la poesia in questi tempi moderni? Qual è il suo ruolo?

   Per quanto sia possibile parlarne in questi termini, la poesia serve a spiazzarci richiamando sotto i nostri sensi una realtà insospettabile.
   Serve a diffidare di tutte le certezze acquisite in favore di un’ulteriore, estrema e infinita ricerca, che ci dirà altro rispetto a tutto ciò che già sappiamo o pensiamo di sapere. Il suo ruolo è, dunque, estremamente benefico, anche se non può che procedere in modo rude, scomodo, aspro, spesso severo: si tratta di liberare l’uomo da ogni certezza, per abituarlo a cercare la verità da sé, immergendosi nel buio, senza aspettarsi aiuti o sconti; e ciò va fatto, a mio giudizio, senza adagiarsi in un linguaggio convenzionale, perché il linguaggio è la ricerca, è il territorio stesso, indivisibile dall’essenza dell’uomo, in cui si deve scavare. Questa è la mia idea, che certo non vuole porsi come assoluta. Personalmente, ad esempio, non credo molto nella poesia che si pone in qualche modo come consolazione al male di vivere. Ciononostante, molte forme di poesia sono perfettamente legittime se accostate alla vicenda personale di ciascuno, da cui nascono e a cui sempre ritornano. Per questo ritengo che la poesia serva a molte cose e a molte persone: a molte più cose e persone di quelle a cui siamo soliti pensare.


NEL MIO NOME, PER NESSUNO

Materia oscura

Il sussulto degli olmi e degli storni
conclude per te la primavera:
parole che si ritraggono
per scampare al senso

crocicchi di pane fiammeggiante.

Nessuno ti ha chiesto
di ancorarti al tempo
di modellare la voce
che è pietra, ancora pietra
sasso liquido sciolto dagli occhi

nessuno prega
per il tuo puntiglio
per essere detto, ripetuto
fino alla noia
in sembianze nette
riconoscibili: cola invece
nel vento una sorprendente luce
di bacche, di resine

e oltre, nel sereno
una smaniosa coda di nuvole
che non sa dove poggiarsi.

 
   Giacomo Leronni è nato il 22 luglio 1963 a Gioia del Colle (BA), dove vive. Laureato in lingue e letterature straniere presso l’Università di Bari, è insegnante di lingua francese nella scuola secondaria. Ha vinto, per la poesia inedita, l’edizione 1998 del Premio Nazionale di Poesia LericiPea. Con la raccolta breve Corrispondenza con le camelie ha vinto nel maggio 1999 la VI edizione del Premio Nazionale di Poesia Ossi di Seppia ad Arma di Taggia. Con il poemetto Dopo Monte Oliveto si è aggiudicato l’edizione 2009 del Premio letterario Castelfiorentino. Il suo primo libro è Polvere del bene (Manni, 2008), semifinalista al Premio LericiPea 2009 e vincitore del Premio Alessandro Contini Bonacossi 2009 per l’opera prima. Suoi testi sono pubblicati su varie riviste.
   Il suo poemetto I colori del fuoco è stato rappresentato dalla Società di Cultura e Teatro “DiversaMente”, con la regia di Vito Osvaldo (Gioia del Colle, Teatro Comunale G. Rossini, 28 dicembre 2009).

Francesco De Girolamo

 Francesco De Girolamo

 Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.
 
 

   È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme e una sorta di extrarealtà, evocata da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una scrittura straordinaria?

   L’extrarealtà evocata da Novalis si ricollega alle origini della poesia, io credo, agli “aedi” che, nella parola e nel canto, medianicamente, attingevano a una lettura “ulteriore”, della storia di un popolo, dell’uomo, al suo destino, alla volontà divina che da esso, e con esso, profetizzavano. Nella nostra presente realtà, il poeta, immerso inevitabilmente nel fattuale, non può non puntare ad un’umile ma indefettibile mediazione con “l’Assoluto”; per tornare a Novalis, il poeta, attraverso il suo rapporto peculiare con il linguaggio e il suo mistero, autonomo da ogni altra legge di rigida correlazione con il presunto reale immanente, proprio come le intuizioni delle formule delle proprietà matematiche, che configurano, in astratto, le meraviglie di un mondo a sé, può puntare a rivelare, a intravedere l’emisfero nascosto dell’anima del mondo.

   Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti arrivasse, ad illuminare?

   Non ho una grande conoscenza della teoria dei quanti di luce, ma, per quanto ne so, mi sembra un’efficace metafora per raffigurare la dinamica che l’espressione poetica potrebbe operare sulla realtà con la quale viene in contatto. La mia poesia è infatti costruita su una costante ricerca di trasmissione di luce e calore, che spero arrivi “su dei corpi”, nella migliore delle ipotesi, costruendo “lavoro”, con le sue particelle in “propagazione”, e che le sue frequenze non debbano, invece, confluire in un’entropia sempre più avvolgente. La poesia è nell’universo, forse, più che sulla terra, ma deve ricadere, se non è sterile astrazione, sulle minuscole parti del creato, della realtà sensibile, che sono gli uomini, i suoi atomi cerebrali, quelli che, con semplificazione tanto più ingenua, quanto più vera, si è sempre indicato come “il suo cuore”, di cui la scrittura poetica più autentica, e spero, a volte, anche la mia, può forse riuscire a rischiarare gli abissi.

   Secondo te a cosa serve la poesia in questi tempi moderni? Qual è il suo ruolo?

   La poesia è, come del resto tutta la letteratura, legata ai suoi tempi, risente delle idee, delle tendenze e anche del disagio storico e civile che le è, spesso, contemporaneo. Solitamente è ritenuta una forma di comunicazione emotiva, la cui codificazione dei significati corrisponde a simboli e sono molteplici le sue interpretazioni.  Sicuramente si tratta di una forma di comunicazione evocativa, che, eminentemente, si esprime attraverso tutta una serie di sovrastrutture concettuali ben differenti da quelle del linguaggio comune.
   La nostra società odierna, che tanto vive di immagini sintetiche e di coinvolgimenti effimeri, sembra rifuggire tutto ciò che sia astratto, denso, profondo, reputandolo quasi improduttivamente difficile e scomodo. Questo aggrava ancor più il problema, per la scrittura poetica, del suo già minimo, marginale mercato.
   Gli editori hanno inevitabilmente bisogno di garantirsi un ritorno economico, come avviene per tutte “le merci”, compresa la cultura, e la poesia oggi, per la sua natura tanto “elitaria”, suo malgrado, e di nicchia, non si presta a divenire in alcun modo un prodotto di consumo. Pertanto, “il lavoro” del poeta dovrebbe oggi trovare nuo-vi spazi d’espressione, nuovi canali, ma deve soprattutto potersi sostenere e corroborare del coraggio e della fiducia di chi lo esercita con assoluta dedizione ed onestà intellettuale; e di chi, nel suo ambito, con lo stesso spirito vocazionale, opera, a diversi livelli: critico, editoriale, di mediazione culturale, nella scuola, nei media, nella diffusione attraverso manifestazioni e letture pubbliche, ormai sempre più essenziali a garantire un minimo storico, comunque da difendere, di visibilità e di ascolto.

FUORI DOMINIO

Nel mio silenzio attendo la risposta
che nessuna domanda ha mai invocato.
Io la udii quando niente distoglieva
il mio senso più tardo ed annebbiato,
quello che alla parola è assoggettato,
dal dominio del segno dell’idea.

È l’unica incertezza che mi resta:
è lei che prende me, per interposta
speranza che si schiuda la mia sola
risorsa di capire, già prima di sentire,
fino in fondo, l’offesa che consola.
O forse una carezza per ferire.





   Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive a Roma, dove, oltre che di poesia, si occupa di teatro, come autore e regista.
   Ha pubblicato le raccolte poetiche: Piccolo libro da guanciale (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; La lingua degli angeli (Edizioni del Leone, 1997); Nel nome dell’ombra (Ibiskos Editrice, 1998) con una nota critica di Gino Scartaghiande; La radice e l’ala (Edizioni del Leone, 2000) con prefazione di Elio Pecora; Fruscio d’assenza - Haiku della quinta stagione (Gazebo Libri, 2009); e Paradigma (LietoColle, 2010) con introduzione di Giorgio Linguaglossa.
   È presente nelle antologie: Poesia dell’esilio (Arlem Edizioni, 1998), Poesia degli anni ‘90 (Scettro del Re, 2000), Haiku negli anni (Empiria, 2005), e Calpestare l’oblio (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana, 2010).
    Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: «Poesia», «Folium», «Poiesis», «LaRecherche.it» e «Atelier».
   E-mail: degirolamo2@yahoo.it




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