Marco Furia, Pentagrammi,
con una nota critica di Mario Fresa e sette grafiche-collages di Bruno Conte (di cui una fuori testo), Edizioni L’Arca
Felice, collana «Coincidenze», Salerno 2009, pp. 48.
La poesia di Marco Furia presenta caratteri di estrema
ed esplosiva mobilità interna, la cui debordante energia si mostra capace di
trasformare lo strumento della parola in un evento fortemente creativo, divenendo,
esso stesso, una forma autonoma di vita (poiché «immaginare un linguaggio
significa immaginare una forma di vita», Wittgenstein, Ricerche
filosofiche, 19). Si apre, così, un mondo
nuovo e inaudito, parallelo e altro rispetto
a quello “ordinario” che solitamente viviamo: un canto alto e scardinante, che sempre
sa plasmare e moltiplicare un’esistenza ulteriore, scompaginando e sovvertendo gli usati
meccanismi della quotidiana comunicazione.
Marco Furia (Genova 1952), poeta e saggista, già
collaboratore di Adriano Spatola, ha pubblicato questi libri di poesia: Effemeride (Tam Tam, 1984); Mappaluna (Tam Tam, 1985), Arrivano i nostri (in «Fermenti letterari
1988», Oceania Edizioni, 1988); Efelidi
(Anterem, 1989); Bouquet (Anterem,
1992), Minime topografie (Anterem,
1997); Forma di vita (Anterem, 1998);
Menzioni (Anterem, 2002), Impressi stili (Anterem, 2005). Svolge
intensa attività critica. Ha partecipato a numerose manifestazioni con lettura
di propri versi, per alcuni dei quali sono state composte partiture da Francesco
Bellomi e Roberto Gianotti. È redattore
di «Anterem».
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RASSEGNA STAMPA
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GRADIVA International Journal
NUMBER
39/40
SPRING/FALL 2011
SPRING/FALL 2011
"RASSEGNA DI POESIA"
Recensione di PLINIO PERILLI
PP. 257/258
MARCO FURIA, Pentagrammi, Salerno, Edizioni L'Arca Felice, 2009, pp.
48.
Mario Fresa, che qui a Marco Furia dedica una
specchiata e abbracciante prefazione, parla di istante infinito della parola:
"il testo disegna un ansioso dialogo con una dimensione altra e sfuggente,
che in ogni passo fa riverberare ulteriori infinibili dialoghi: e pare di
trovarsi in una camera di specchi sovrapposti l'uno sull'altro"...Ma a
parte gli effetti ottici e le cognitive o rifrangenti vie di fuga, questi Pentagrammi
hanno anzitutto il pregio di "duettare" con sette grafiche-collages
di Bruno Conte, artista sempre malioso di lucentezza (concedendo a quest'ultimo
termine l'accezione più metafisica possibile!). Ne esce un volumetto assai
raffinato, dove Marco Furia - genovese del '52, già collaboratore di Adriano
Spatola e che esordì nell'84 con Effemeride, proprio nelle edizioni di Tam
Tam - propone a Conte come un echeggiamento parallelo, un trasvolo fragrante e
per fortuna (cosa rara per la poesia, sempre più spesso plumbea o nebulosa
deriva) come pantografato, inciso e rivissuto con la punta d'argento della
felicità: "Trasparenze discordi / lustra bruma / fosche, terse fattezze /
umida luce / pur pentagramma, taciti/ baleni / fluidi, acquei riflessi /
melodiosa gemma, gioiello / tremito (colore/ mai udibile canto?)"...
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Marco Furia nella lettura di Rosa Pierno:
Per qual motivo ci sembra di sapere con precisione ciò di cui Marco Furia sta parlando nel suo “Pentagrammi” (Edizioni L’Arca Felice, tavole di Bruno Conte, nota introduttiva di Mario Fresa, Salerno, 2009)? “Qual
ribelle silenzio / pur sonori / leggeri tratti, effimera / sì lieve /
musica (subitanea / armonia muta / mai acustico cenno?”. Ancorché
l’abbia indicato, non è infatti oggetto che esiste se non come unicorno
esiste. Che sia la sonora armonia inudibile proveniente dalle celesti
sfere non può che essere pretesto per un poeta aduso a sfidare i limiti
del linguaggio e mostrarci che è possibile anche descrivere ciò che non
si è mai visto o udito. Allora, l’oggetto, che si va formando durante la
lettura nella nostra immaginazione, è appunto quello che il poeta
sfidando le convenzioni assonnate e i meccanismi consolidati ci offre
all’ascolto. Intendiamoci subito, gli artifici della retorica (chiasmi,
sinestesia, ossimori) non possono nulla se non sono innervati da
magnifica visionarietà: “sparse trame / né leggere, né grevi / d’incolori / ma cromatici tratti”.
In uno scandaglio delle interiorità siderali, l’occhio tenta di acuire
la vista, di vedere meglio ciò che è impossibile vedere.
Come può l’universo risuonare? Lo si può evincere solo guardando?
L’analisi della sostanza, nel senso presocratico dell’investigazione, ci
offre una realtà di tutta evidenza: fulmini e cieli tersi, dense nubi e
lucenti veli. E’ già una materia indivisibile (nel senso che se la si
privasse di aggettivazione la si disosserebbe) dalla percezione e,
dunque, dalle sue caratteristiche percepite sensorialmente e
mentalmente, non essendo mai sopita nella coscienza del poeta la vera
materia di tanto studio: il linguaggio: “Insolita, consueta / dolce frase / aspra, fattezze labili / caduche / pur tenaci, discorde”.
Materia non si dà senza lingua attraverso la quale viene definita. Non è
un partito preso delle parole, è sapere che possiamo esperire la
materia solo attraverso i nostri limiti fisiologici e mentali.
Sono le ritmiche, martellanti accelerazioni di aggettivi: “sì solerte pigrizia / alacri, ignave / temerarie ma pavide / loquele / mimiche, lineamenti / gesti muti”,
che strutturano la sintassi personalissima di Marco Furia, è essa che
costituisce la vera rete di rimandi che abbaglia e lega, che distanzia e
riavvicina entità apparentemente inaccostabili. E che in fondo,
consente di “vedere” attraverso la mente il “suono” delle sfere.
L’accelerazione dell’aggettivazione è anche ossessivo ritornare, ritmico
anch’esso come il suono che si dovrebbe individuare. Potere degli
aggettivi, della loro metamorfica capacità di adattarsi a materie
diverse, di negare e di affermare una contraddittoria qualità per la
medesima sostanza: “tersi, cupi / atmosferici tratti / (forse buia /
nitida, lustra tenebra? / baleno / eterno sprazzo?), labili / tenaci /
dissolti, umidi ritmi”. In questo tour de force, straordinario ed
eroico, la poesia di Marco Furia mostra il suo più splendente risvolto.
Al di là della questione di ciò che è reale e ciò che è mentale, qui il
ruolo centrale viene assunto dalla meravigliosa plasmabilità della
materia quando si trovi nelle mani dell’artefice poeta e venga
sottoposta a una metamorfosi delle apparenze. L’elasticità delle
sostanze è in realtà elasticità del linguaggio. La lingua del poeta è
l’unica che sopporti tale arditezze, e in queste pagine si raggiunge la
soglia miracolosa in cui pare assolutamente naturale al lettore tale
contorsionismo. Chi oserebbe tanto nel nostro stringato e asfittico
linguaggio quotidiano?
In fondo, persino il pentagramma su cui si trascriverebbe tale musica
è un oggetto esistente e redatto secondo altro codice, ove, fra
l’altro, gli strumenti della visione e della percezione umana fanno
tutt’uno con la materia osservata: conosciamo, infatti, di Furia la sua
profonda curiosità per i traguardi scientifici e la sua volontà di
lavorare proprio sulle soglie di confine tra i due versanti, poiché
anche la scienza utilizza il linguaggio e lo fa con modalità differenti
da quelle poetiche, pur dovendo affrontare i medesimi problemi.
Se musicale si contrappone a tacito (“sonore / repliche (melodiosi / musicali / taciti contrappunti?)”)
fino a coincidere, in un totale rovesciamento, è perché forse i limiti
del linguaggio il poeta li travolge, li trasforma e li rovescia, ne
allontana la raggiungibilità. Lavorando sul linguaggio ottiene di
farcene dimenticare le limitazioni o di fatto le sposta realmente. La
sensazione finale sarà che, al chiudere le pagine di questo incantevole
libro, noi sapremo con certezza d’avere udito tale celestiale musica.
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Testi
Da Pentagrammi 1
Qual ribelle silenzio
pur sonori
leggeri tratti, effimera
sì lieve
musica (subitanea
armonia muta
mai acustico cenno?
Forse stile
forestiero, difforme?)
nulla voce
zitta, assorta sembianza
repentina
inerzia, solitarie
integre frasi
tacite, discontinue
linee opache
pentagrammi, riverberi
baleni
lustri, pallidi impulsi
(ignoto idioma
non sondabile indugio?)
incerte tregue
ritmi d’eco, barbagli
attimi fiochi
fulgidi, poi dissolte
gemme, gioie
caducità melodiche
improvvisi
statici dinamismi,
lampi bui.
*
Da Pentagrammi 2
Acquei attimi ritmici
baleni
lustri, fluidi sussulti
repentine
effimere cadenze
scie (di buio
rilucente riverbero?)
leggiadre
pur zitte filastrocche
(qual canzone
tacita?), sprazzi, lampi
cenni schivi
tratteggi, illesa, integra
sonora
mai acustica eco
scaglia, trama
brillio umido, secco
poi ostile
sì gravida minaccia
aerei, tetri
non flemmatici nembi
lesto, cupo
protervo d’ombra abbraccio
nullo lume
dissolta impronta fulgida
foriere
di turbinosi flutti
già folate
aromi di tempesta,
ovunque effusi.
*
Da Pentagrammi 3
Illese, tenui luci
delicate
forse musica, cenni
silenziosi
lustri, aerei barbagli
sciolte gioie
tremiti, tersi veli
zitti, schive
disperse, fluide perle
gemme mute
cromatico dissolversi
sonoro
tacito, persistente
non baleni
né turbini, leggiadra
brezza lieve
vaghi, incerti riverberi
sì aroma
effimero rimando
d’assopita
rosea ed azzurra volta
scaglie (frasi?)
atmosferici arpeggi
inconscia tregua
soave umida alba
(qual misura
sì nullo pentagramma?)
mattutino
desto sonno, risveglio,
canto quieto.
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Pubblicato il 19/10/2010 12.00.00
La poesia, per Marco Furia, è prima di tutto un
luogo di sonorità: i lemmi più comuni, disseminati lungo i versi del
poemetto dal titolo così palesemente offerto come chiave di lettura,
sono infatti tutti inerenti al campo semantico della musica. Ritmo,
melodia, musica e, appunto, pentagramma, danno luogo a delle iterazioni
che non diventano formule topiche solo grazie alla varietà
dell’aggettivazione, così che i versi sembrano costruiti, come certi
brani musicali, intorno a minime variazioni sul tema, seguendo le
sfumature dettate dal sentimento stesso della poesia, che costituisce
l’unico soggetto d’ispirazione, e su tali variazioni si innesta, a
volte, qualche dubbio inquietante, che genera altri movimenti ed
esplorazioni e, come in un brano di musica dodecafonica, l’autore
utilizza i suoni, puntando più che ad una logica tonale, ad un
agglomerato sonoro imprevedibile che susciti, piuttosto, un’impressione
di totalità cromatica.
Si aggiunge alla gioia acustica anche quella visiva: una vivida luce accompagna suoni e ritmi dispiegando anche in questo caso una serie di varianti legate all’intensità ed alla durata. Occhio ed orecchio diventano, dunque, i naturali alleati del poetare, proponendosi anche quali punti forti della poetica di Marco Furia, secondo il quale la poesia si offre al pubblico di lettori come una rielaborazione del mondo visibile attraverso un impasto linguistico che del primo trattenga la luce e ne ridica la forza dinamica attraverso la vibrazione melodiose del secondo.. Se, infatti, anche le tenebre e la notte sono evocate, esse diventano territori di ispirazione e perciò anche di conoscenza e di novità creative, Il poemetto di Marco Furia mi fa venire alla mente la poesia barocca di un Marini, ed in particolare l’elogio della rosa presente nell’Adone, sia per l’abbondanza delle immagini e della metafore, sia per la particolare fluidità della pronunzia poetica; ma c’è da dire che, mentre là si ricercava soltanto la meraviglia ( lemma, comunque, più volte presente nei versi di Marco Furia ) ed il poeta sembrava non avere altro scopo che riprodurre come in uno specchio la sontuosa bellezza della natura e del mondo, in questo testo, invece, come si legge nella prefazione di Mario Fresa, questi strumenti hanno la funzione di disegnare “un dialogo con una dimensione altra e sfuggente”, come se essi fossero specchi da cui le cose si riverberino all’infinito, come in certe prose di Borges. Ogni tanto, infatti, l’autore sembra perdere la rotta all’interno del suo stesso labirinto di specchi e di suoni ed allora si pone delle domande dalle quali sgorgano altri versi ed altre domande, come a dire che la poesia, posta di fronte alle più profonde problematiche esistenziali, non può dare una risposta definitiva, e tuttavia può offrirsi come strumento di consolazione e di stupore. Le grafiche di Bruno Conte con i loro sobri e misteriosi ritmi geometrico-chiaroscurali, talvolta sorpresi da inaspettate spezzature, sembrano accompagnare senza alcuna forzatura il dinamismo di luce ed ombra, superficie e profondità, di questo testo a cui il lettore deve abbandonarsi, dimenticando, se vuole davvero goderlo, ogni solito schema di ascolto e di giudizio.
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su "Pentagrammi" di Marco Furia
di Monia Gaita
Pubblicato su FARAPOESIA
Pentagrammi
di Marco Furia colpisce per la salva d’artiglieria di parole depurate
che si susseguono a ritmo incalzante come urgenzate da un invisibile
cólto di tensioni e pulsioni, rimpinguato dal rapporto riparatore e
sapidamente creativo con la policromìa di toni ed espansioni
energizzanti del linguaggio: (v.pag.13) «...nulla voce/ zitta, assorta
sembianza/ repentina/ inerzia, solitarie/ integre frasi/ tacite,
discontinue/ linee opache/ pentagrammi, riverberi/ baleni/ lustri,
pallidi impulsi/ (ignoto idioma/ non sondabile indugio?)/ incerte
tregue/ ritmi d’eco, barbagli/ attimi fiochi/ fulgidi...» e
ancora a pag.15: «..fulgida freccia, effimero/ fugace/ elettrico
riverbero/ baleno/ oltraggio, squarcio, ingiuria/ poi già tregua/
lucenti veli, garbo/ repentino/ ricurva grazia, sprazzi/ armonia chiara/
policroma lucerna/ iride, assolo/ incanto, meraviglia/ tenue gioia.» Questi
versi, dando voce al rapporto dell’autore con l’’incondizionato e
l’infinito, irrompono sul foglio esulando dai territori dell’ordine e
del facile fraseggio comunicativo. Si fregiano di una non scontatezza
formulata nei saltelli di un dettato nervoso, convulso, forbito e
fluidamente attaccato alle cose e al fermentìo ciclico del divenire con i
suoi fiotti d’oro e dissimmetrico catrame. La giustapposizione
asindetica pigiata da un alone di indeterminatezza, ci traghetta
nell’elementarità abbracciante di un dire di alta concentrazione
inventiva che declina lo sgomento sinuoso nel decorativo pianoro del
contrasto ossimorico: silenti melodie, inodore fragranza, tacito boato, zitto tuono, solerte pigrizia, lampi bui, statici dinamismi. A pag.34 : «..meraviglia
durevole/ non suono/ ma sinfonia, d’immagine/ pur muta/ grazia, fecondo
gesto/ cenno, segno/ acqueo stile, leggère/ tenui trame/ aeree (mai
perimetri)/ diffuse/ sparse lucerne, fluide/ intense, lievi» il poeta addita e reclama presenze a conforto
del buio, del vuoto e degli ostacoli, mentre i lessemi dalla loro
accezione letterale, traslocano in un pinnacolo di forte sollecitazione
allegorica. È un libro che fa buona pesca di vita, che ammonisce la
nostra intelligenza emotiva lasciandoci entrare d’istinto in quella
strana, piacevole alchimìa capace di accendere il bello e la curiosità
del viaggio.
Marco Furia, Pentagrammi. Con uno scritto di Mario Fresa e con interventi visivi di Bruno Conte. Libro
di arte-poesia stampato in 199 esemplari numerati a mano, più 199
litografie fuori testo. Edizioni L’Arca Felice, collana «Coincidenze»,
Salerno, 2009, pp. 40.
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"L'immaginazione" n° 263
PENTAGRAMMI
di Marco Furia
Pentagrammi di Marco Furia
è una raccolta poetica raffinata e ricercata, edita da Edizioni l’Arca
Felice con sette preziose grafiche collages di Bruno Conte.
Il titolo già esprime
uno dei campi semantici ricorrenti legati alla musica e alla sonorità in
contrapposizione per ossimoro al
silenzio “concreti silenti pentagrammi
melodiosa incorporea materia?” . Il suono si articola in un crescendo
ritmico quasi una metafora del divenire e pare un processo di scissione atomica
ove da nuovi elementi di creazione verbale se ne originano degli altri
producendo quasi una apparente dicotomia tra suono e senso. La parola poetica che giustamente Marco
definisce “una forma di vita” diviene essa stessa interprete del manifestarsi
dell’esistenza, si determina come forza motrice che svela la trasformazione in
atto dell’ex-sistere. Gli elementi
del dire sono allora l’aria e l’acqua, elementi incorporei o perlomeno non
consistenti come materia concreta e solida , elementi maggiormente definibili
attraverso la leggerezza e la continua
metamorfosi del suono “opache
trasparenze/gocce schive/gemme,liquide perle/aerei globi/gelida pioggia,enfi/
foschi, affini,non inerti coaguli/turchese”. Il turchese è metonimico ove
l’astratto del colore sta per il concreto del cielo, un cielo rappresentato
anche esso in trasformazione poiché evolve il temporale e diviene plumbeo,il
colore si trasforma in suono e appare rombo e tuono. La sinestesia infatti è una forma retorica fortemente presente “tacite,discontinue/ linee
opache/pentagrammi,riverberi/baleni/lustri,pallidi impulsi/(ignoto idioma/non
sondabile indugio?). Anche il punto di domanda , elemento che ritorna nei
versi di continuo, appare un forte elemento simbolico dell’indeterminazione
dell’accadere e dunque l’imprevedibile si cela nel senso dello scorrere della
materia. Tutto di conseguenza è panta rei,
il senso è quello stesso della conoscenza vivificata e per questo il suono rincorre la modulazione
degli elementi che sono e che divengono, talvolta sicché si fa incipiente e poi
incalza, suona e risuona in un salire vertiginoso tanto da esprimersi con
frequenti climax ascendenti “scintilla,
squarcio, traccia” “ferita,crepa, graffio”.
E’ attuale pertanto e
fortemente rappresentativo della poesia di Marco Furia il pensiero
espresso da Edoardo Cacciatore, genio
indiscusso e poco riconosciuto in Italia, il quale sosteneva che: “ogni cosa non sta mai ferma un istante,
sempre sta per essere un’altra cosa”. Ecco
Marco Furia coglie splendidamente questo essere sempre un’altra cosa della
materia, fonte inesausta del dire e svelamento incessante del divenire. Stefania Negro
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