Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

lunedì 26 dicembre 2011

Un poema di Rossetti a cura di Mario Fresa






Gabriele Rossetti 


Il Tempo, 
ovvero Dio e l’Uomo
 

Edizione critica, introduzione,
commento e apparato delle varianti
a cura di Mario Fresa





Lanciano, 2012
pp. 348 




Collana «I Classici», 
diretta da Gianni Oliva






Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo, Salterio del 1843 di Gabriele Rossetti, illustra e rappresenta, con l’acuta e bruciante lingua della metafora, la situazione politica italiana dell’epoca, traducendo in immagini di ascendenza biblica l’atmosfera e le vicende di quell’infuocato periodo della nostra Storia. I versi melodiosi e vibranti del poeta di Vasto disegnano una trama drammatica e movimentata, in cui la malvagia, ma transitoria vittoria degli empi sui giusti perseguitati sembra sfaldare e addirittura rompere l’amorosa Alleanza stipulata tra Dio e l’uomo: di qui, il canto appassionato e dolente del poeta-profeta, che aspira, con tutte le sue forze, al finale ristabilimento di una ideale, universale concordia. La presente edizione critica del testo ricostruisce, sulla base del fortunoso ritrovamento del manoscritto autografo dell’opera, l’esatta fisionomia del poema, offrendo anche, in appendice, le varianti della sua prima redazione, risalente al 1833.







Gabriele Rossetti, nato a Vasto nel 1783, fu poeta, critico letterario e patriota italiano della corrente neoghibellina del Risorgimento. Per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820, fu costretto all'esilio. Si rifugiò prima a Malta, nel 1821, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita. Divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847. Pubblicò numerose raccolte di poesie:  Odi cittadine (1820), Iddio e l'uomo (1833, seconda redazione 1843), Il veggente in solitudine (1846) e L'arpa evangelica (1852); fu anche autore di alcune opere di critica letteraria, soprattutto sulla Divina Commedia, letta in chiave massonica ed antipapale: Commento analitico alla “Divina Commedia” (1826-27); Ragionamenti sulla Beatrice di Dante (1842). A questa linea storico-interpretativa appartiene anche il saggio Sullo spirito antipapale che produsse la riforma e sull’influenza segreta che esercitò sulla letteratura d’Europa e particolarmente su quella d’Italia; mentre, nel 1840, riuscì a pubblicare i cinque volumi de Il mistero dell’amor platonico del medio evo derivata da misteri antichi. Sposò Francesca Maria Lavinia Polidori, figlia di un altro esule italiano, Gaetano Polidori, segretario particolare dell’Alfieri, dalla quale ebbe quattro figli: Maria Francesca, Dante Gabriel, William Michael e Christina. Alle tribolate e continue difficoltà economiche dopo il 1845 s’aggiunsero gravi infermità come la progressiva cecità. Morì il 26 aprile del 1854: il suo corpo è seppellito nel cimitero londinese di Highgate.

 

venerdì 23 dicembre 2011

questionario di poesia (26)


Mario Fresa

     Questionario di poesia (26)

Ennio Abate







 
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



In una poesia del ’92-’93, quasi in tema, avevo dichiarato: «La mia scrittura scriptura / non è progettabile / interrompibile è pienamente / da voi dal freddo / da familiari e amici».[1] E perciò il pensiero che la mia scrittura (poetica) possa essere stata “a progetto”, segreto per giunta, mi ha fatto subito sorridere. Riflettendoci, però, devo dire che nelle raccolte pubblicate tardi e fortunosamente,[2] un progetto s’è delineato: narrare in  forme “lirico-epiche” la mia esperienza dentro l’immigratorio italiano; cioè dentro la vicenda storica dell’immigrazione, che mi ha spostato, assieme a tanti, dal Sud Italia contadino-artigianale al Nord metropolitano-industriale negli anni ’60-’70 del Novecento. In un primo momento prevedevo una ricomposizione di tre conglomerati di  episodi, luoghi e persone: una sorta di trilogia lineare, progressiva, ascendente, “simil-dantesca”. Ne pubblicai un’anticipazione nel 1989, intitolandola Salernitudine/Immigratorio/Samizdat. Successivamente, complesse ragioni, che sarebbe lungo spiegare, mi convinsero a spezzare quella linearità fin troppo ascensionale. Ho, quindi, trattato e pubblicato pezzo per pezzo ciascun blocco, riordinato la materia attorno a personaggi-maschere (Samizdat e/o prof Samizdat; Vulisse); e continuato, in parallelo, a scandagliarla, oltre che in poesia, anche in prosa e in forme grafico-pittoriche. Al momento (alla fine?) ho dato più risalto a Immigratorio[3], che non considero più sezione della primitiva “trilogia”, ma  simbolo riepilogativo della biografia e della storia “fondative” della mia scrittura.



Come nasce, in te, una poesia?



Da una inquietudine emotivo-intellettuale di fronte al “mondo” (percepito, intravisto, immaginato, temuto, desiderato). Scrivendo, essa man mano si fa dialogo, polemica e (al meglio) critica. Un esempio: la poesia Scriptura che ho qui riportato. È dialogo: con me stesso, ma pure con un potenziale lettore, che ho immaginato mio “complice” eppure “ipocrita”, cioè più pacato e contemplativo di me. È polemica, perché i cenni alla realtà  “extrapoetica” (vita di città, preoccupazioni quotidiane, il trenino dei pendolari) irritano ogni quieto contemplatore. È critica (qui abbastanza sotterranea) dell’ideologia di chi adopera la scrittura secondo una ritualità solenne, agiata e per pochi, sovranamente indifferente all’ansia di chi vive (e magari scrive) in condizioni precarie. (Ora, però, dopo aver risposto alla domanda, vorrei in parte contestarla. La trovo teoricamente scivolosa: una poesia “nasce” e “in me”? oppure la costruisco? e fino a che punto la costruisco io? e da solo? non assimilo forse nella “mia” costruzione elementi altrui sia di superficie - occasionali, contingenti - sia profondi, strutturali - emozionali, linguistici, culturali, storici)?



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Anche questa domanda mi sorprende. Pare dia per scontato che sia facile distinguere «ciò che realmente vive» (il poeta o un uomo qualsiasi) da ciò che classifichiamo come immaginario, sogno, utopia. Non è così. Reale e immaginario-ideologico non sono in partenza  (e nemmeno da adulti!) cose distinte. Dobbiamo faticare - oh quanto! - a distinguerle; e forse ci riusciamo soltanto in particolari momenti  della nostra esistenza e della comune storia collettiva. Inoltre, la domanda sembra suggerire che in poesia sia importante soprattutto la soggettività ricettiva del singolo. Così va in secondo piano l’elemento costruttivo, altrettanto centrale ma  più arduo da raggiungere, perché può emergere solo ci impegniamo nel dialogo-conflitto (ora più dialogo ora più conflitto) con gli “altri” e col “mondo”. Basti pensare che tra il poeta e «ciò che realmente vive» o «ciò che vorrebbe ricevere» (e, perché no, dare..) non c’è alcun filo diretto, ma c’è la lingua, che è storia e società (langue e non soltanto parole). Essa è condizionamento potentissimo,  che interferisce e può ostacolare i tentativi di sentire o rappresentare o inventare; ma, allo stesso tempo, è l’indispensabile strumento, che riadattiamo di continuo alle circostanze esterne o alle esigenze interne per riferire (o oggettivare per noi o per altri) ciò che “veramente” viviamo, etc.



La poesia è salvazione?



No.  Troppi poeti restano “falsi preti” e contrabbandano subdolamente la poesia come fosse una religione o un surrogato laicizzato e accettabile della  religione. Che non c’è più. Per me l’ha detto in modo spietato e severo lo storico della chiesa e poeta Michele Ranchetti in uno dei suoi ultimi ammirevoli libri: Non c’è più religione.[4] Ma, già prima, d’istinto e a ragione, avevo condiviso la polemica di Fortini contro la «sporca religione dei poeti». Diffido della poesia come valore assoluto o positivo in sé. Essa  ha, indubbiamente, nel suo passato  secoli di rapporti più o meno “incestuosi” con il mito e la religione, ma con la modernità è stata capace di esplorare in profondità e coraggiosamente la “realtà” e il “mutamento” (la storia) fuori dall’universo consentito. Ed è falso che, imboccando questa direzione, si sia appiattita sulle scienze. Oggi che il moderno  è in una nuova indecifrabile trasformazione (solo di crisi o catastrofe?), è fin troppo facile regredire nostalgicamente al passato più arcaico e buttarsi  sui modelli (al massimo scimmiottabili) della poesia-mito o della poesia-religione o della poesia-bellezza. Per me la poesia è soltanto ricerca inquieta, seria e nulla di più. Perciò m’interessa.



 A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



A quello dei quattro cantoni, dove io  non riuscivo a raggiungere  il “posto libero”, preceduto sempre dai più lesti e sgamati. Può sembrare un paragone paradossale, ma allora capii che potevo sottrarmi alla “tribù” coatta dei miei coetanei, fare a meno di quel gioco e fare altro. Certi giochi poi, anche se seguitissimi, sono stupidi e spesso truccati.  Fuor di metafora, oggi il poeta, se capisce che il “cantone” per lui non è previsto (che significa: non c’è per molti[5]), può sottrarsi alla rincorsa “democratica” del successo; e, invece di beccarsi calci in culo da rozzi e arroganti padroncini della Cultura,  trovare il modo, quando capita l’occasione, di assestargliene lui qualcuno. O,  comunque, fare semplicemente altro.



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



Che la poesia “reale” è, come tutti gli altri campi del sapere, luogo di conflitti e di drammi, stupidi e seri, privati e pubblico-politici. Che  bisogna disprezzare l’ideologia della Poesia,  una convinzione-illusione mezzo corporativa, nebbiosa, soave e ipocrita, che obbliga a fare, sempre astrattamente, l’apologia o la contestazione della Poesia. Tanto la scrittura poetica concreta è ricerca rischiosa e aperta, tanto l’ideologia della Poesia è fissazione quasi mortuaria su un dogma.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Vale quanto detto prima a proposito del linguaggio. Non è neutro, non è la garanzia di un progresso o di un incivilimento. Serve a svelare, ma  anche ad occultare, a dire la verità, ma anche a mentire. Quando accedi al linguaggio (in generale o a quello poetico), non trovi nessuna  pace o terra promessa. Non ti ritrovi tra persone più civili, ragionevoli, pensanti, ma in un luogo, dov’è in atto un particolare conflitto: simbolico sì, ma non meno drammatico e spesso più subdolo di quelli  pratico-materiali. La possibilità del singolo (poeta)  di smascherare o di dire verità (di non fingere) è condizionata  dall’esterno: dal linguaggio, dalle norme, dai rapporti di forza  che vigono anche nell’istituzione-linguaggio (poetico), dove singoli e gruppi manovrano, chi da posizioni di forza  chi da posizioni più deboli, in nome di valori quasi sempre fittizi e perlopiù poco condivisi.

Anche la poesia è, dunque, zona di conflitto, perché è un rapporto sociale (come Marx diceva per il  capitale…); e la verità, che in essa  si può produrre,  non è mai garantita. Volesse  un poeta essere assolutamente sincero, non è detto che ci riesca. E, anche quando ci riuscisse,   se oggi il 99% del suo “prossimo” vive nella finzione-menzogna (la «società dello spettacolo», una sorta di “paese dei lotofagi”), chi  la intenderebbe? Non voglio con questo dire che  verità e menzogna siano indistinguibili, ma  che è sempre più difficile distinguerle. Non è detto poi che la finzione sia di sicuro menzogna né che la verità dichiarata sia davvero verità (efficace). Bisogna  sapere che c’è “conflitto comunicativo” e individuare le strategie adatte, smuovere pigrizie,  proteggere le «nostre verità» (Fortini).



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Ce ne sarebbero tanti. Ma a che serve dare  un contentino a uno o due? Facessi un nome, ammesso che  dica qualcosa ai lettori d’oggi, nessun singolo o gruppo, credo, ha oggi il potere di rivalutarlo  al di fuori di un ambito amicale semiprivato. Non ci sono più «patrie lettere» né «avanguardie» o «movimenti» autorevoli. Siamo  epigoni  e nell’«epoca della post-poesia», come sostiene Giorgio Linguaglossa? Non lo so. Fatto sta che la cultura italiana, in cui ci siamo formati nel secondo Novecento, non ha protetto un bel nulla (tantomeno le fortiniane «nostre verità»).  Di conseguenza ogni eventuale rivalutazione di «buone rovine» (o di singoli poeti) non mi pare possibile con ripescaggi casuali o seguendo preferenze individuali.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



D’imparare a dialogare, polemizzare, criticare  con gli altri, poeti o mezzi-poeti o non poeti, per non ridursi a gregario di qualche poeta “affermato” e … imparare ad essere seriamente moltinpoesia...



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Questo di Brecht: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo[6]). Quando lo lessi per la prima volta, m’impressionò subito, tanto che lo citai per la prima volta nel 1999 in un confronto su Dante con Pietro Cataldi (qui).  Allora mi servì a ribadire la distanza tra il pur ammirevole Ordine dantesco (religioso) e il disordine in cui ci dibattiamo noi. Mi serve ancora oggi per ricordare che gran parte dell’umanità vive nell’orrore delle «lotte sul fondo» (quelle dei migranti o di paesi dilaniati da guerre fatte in nome della “democrazia”), mentre noi forse ci dibattiamo, per il momento, ancora in «lotte sulle cime».  E anche  quelle in poesia sono del secondo tipo. Il realismo di Brecht  ci avverte che lo scarto resta terribile, contro  tutte le buone, sciocche intenzioni umanitarie (e poetiche).






 Note.




[1] E proseguiva così: «Neppure riesce - vorrebbe lei!/ - a inseguire il contesto,/orari, treni, bisogni corporali,/il poetare clus/ e più oltre, non menare. //Trattasi di scrittura sghemba,/ a polluzione improvvisa,/ a molla;/ fingendo d'intenderci:/ avvitabile ed espandibile,/ un abuso,/ reprimibile da cattive notizie,/strapazzabile per amicizia,/ all'etica suscettibile,/ ai movimenti/ audacemente timida,/ liscia porosamente,/ ferrea e fragile,/ lanciata, sì/ sulla neve/ all'inseguimento
del trenino pendolarino./ Ciao».

[2] Samizdat Colognom (1982), Salernitudine/Immigratorio/Samizdat (1989), Reliquario di gioventù e Salernitudine (2003), Prof Samizdat (2006), Donne seni petrosi (2010). Immigratorio  è il titolo dell’ultima raccolta in uscita per settembre 2011.

[3] Michele Ranchetti, Non c’è più religione, Garzanti, Milano 2003.

[4] E non casualmente ho messo su dal 2006 a Milano un “Laboratorio MOLTINPOESIA”.

[5] Dal frammento La bottega del fornaio






In alto, un disegno di Abea Nineo: Contesa (2011)



© Edizioni L’Arca Felice. Tutti i diritti riservati.




lunedì 19 dicembre 2011

questionario di poesia (25) Jacopo Ricciardi








Mario Fresa
     Questionario di poesia (25)





Jacopo Ricciardi












Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

Il suono, l’utilizzo della voce da parte del lettore. Credo si possa fare una poesia che permetta i diversi gradi del parlare e da questi risalire alla reale mappa di una coscienza. Poesia e neuroscienze. Andare oltre la dissoluzione della poesia conosciuta come dice Rimbaud nella Saison en Enfer. Credo che il Novecento – per la poesia in un senso per la prima volta globale – e la sua indagine di un individualismo autobiografico non siano da considerare la vera conquista ma la lenta elaborazione di una progressiva liberazione dall’Io da parte del poeta. Tra lo spirito lirico e quello epico credo che il secondo sia quello che descrive meglio la nostra epoca.


Come nasce, in te, una poesia?

Mai nello stesso modo, e sempre ogni poesia evoluta dalla precedente. Non mi piace far osservare alle poesie le stesse regole. Ho rifiutato da subito l’idea di acquisire uno stile. Mi piace che una condizione evolva, in questo modo si rispetta l’andamento umano della vita, l’andamento organico. Mai una condizione fissa, tutto è in movimento e trasmissione di identità. La nostra vita non trasmette forse nel suo evolversi la sua identità, pur misteriosa e inafferrabile che sia? Quindi fare di ogni poesia non un segnale davanti a cui fermarsi, ma un processo o un cammino nel quale entrare. Così ogni poesia; così tra ogni poesia. Tutto è movimento e sintesi. Il lettore risponde e queste domande: “Dove mi trovo?” “Che cosa accade?” Si gira, poi riprende il cammino. Niente è mai del tutto fermo; tutto si risponde. La mente si propaga e non ha sosta e oggi torna dal suo viaggio. Oggi la poesia risponde a questa necessità chiarendola.


Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

La poesia sceglie il luogo dove il poeta deve scrivere, ma il poeta deve riuscire a riconoscerlo. Gli improvvisi pieni d’orchestra di Campana fanno risuonare colori e atmosfere di porzioni di mondo. Egli scrive contornato di musica, stordente luce, attirante notte. Caproni scrive nella fiamma che abita la sua mente - lui stesso lo ammette all’inizio di una raccolta. Rilke nella bianca fitta nebbia dell’essere. Riconoscere i luoghi dove i poeti scrivono vuol dire risalire alle loro realtà, e farlo permette di constatare quanto varia e vasta sia la realtà. Altrimenti si resta alle cose. E tutto invece è intensa intelligenza. Ma il poeta non solo deve trovare la sua realtà, ma anche il suo oggi, altrimenti la voce non attraversa i tempi.


La poesia è salvazione?

Ci si può aspettare da una poetica che fondi la creatura del mondo. Sant’Agostino in Città di Dio riporta tra gli altri come fatti gli eventi raccontati da Virgilio nell’Eneide. Se la lettura resta prigioniera del libro uccide l’Umanità. A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia? Al lego. È un gioco autistico di montaggio e smontaggio di una immaginazione. Forse lì nella pausa infinitesimale di quel gioco un leggero suono, come un sibilo, si è intromesso, che voleva riuscire a parlare. Per anni sono stato costretto a modulare in parole quel sibilo latente nella mia mente senza riuscirvi, poi all’improvviso per me è riuscito a parlare in poesia. Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica? Mi sono stupito quando ho letto che Mario Luzi sosteneva di non avere i propri libri in casa perché non rileggeva praticamente mai le sue poesie. Al contrario ho desiderato scrivere poesie che io stesso come il lettore non mi fossi mai stancato di rileggere. Ho pensato che se fossero state inesauribili per me lo sarebbero state anche per il lettore. Questo per me vuol dire attivare la zona che divide le poesie, un’area viva, non scritta, che vuole essere scritta, ma che non è possibile finire di scrivere. Vorrei che in quello spazio potesse esistere il principio di un dialogo, che coinvolga gli stessi poeti non differentemente dalle persone. Non so se in una vita è possibile essere due poeti.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

In Microliti Paul Celan critica la metafora come se fosse il vero nemico della poesia, arrivando a citare anche Omero. C’è però un’immagine memorabile nell’Odissea che dice “risonante mare” quando Achille disperato cammina sul litorale. Il mare è risonante; la nostra percezione è quella di un semi-dio. Nella poesia Grata di parole Celan dice “Palpebra, sfarfallante animale”. Non è metafora perché in Celan la palpebra È uno sfarfallante animale. Ritengo le due immagini simili nella costruzione, ma quella di Omero eleva le mie facoltà, quella di Celan le chiude in un gorgo. Chi ha ragione? Dalle mie poesie ho voluto togliere ogni biografismo, fino al punto che non ci fosse niente del mio Io. Se Morandi ha fatto dei quadri dove il suo sguardo È quello dell’osservatore, perché una poesia che È del lettore non sarebbe possibile? Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare? Il mio amore va a tutti i poeti che ho letto. Tutti i poeti vanno rivalutati, continuamente.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Che possa scrivere poesie convincenti per il lettore.


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

 Più di quindici anni fa ero in Sardegna in visita al nuraghe Arrubiu e Pietro Cascella che era in viaggio con noi e che conoscevo in quei giorni mi chiese di citargli un verso che amavo particolarmente. Io gli recitai un frammento di verso di Mallarmé che era per me allora così importante da smuovere l’intero cosmo al solo pronunciarlo. Con quella convinzione glielo dissi… Ora non ricordo più quale fosse; ricordo però il suo peso su me. Quel verso probabilmente si è andato trasmutando in altri versi che mi hanno colpito successivamente. “adorni legni ‘n mar forte correnti” di Cavalcanti; quel “forte correnti” si è poi perfezionato in “umane genti” di Leopardi e lì è rimasto, in me, solido, inamovibile. Poi il variare di una stessa poesia di Rimbaud: “l’eternité/c’est la mer melée/au soleil” (Poésies), che diviene in seguito “c’est la mer allée/avec le soleil” (Une saison en Enfer): due perfezioni in dialogo perpetuo, instancabile nella mia mente. Da lì all’espressione omerica che descrive la nave di Ulisse che naviga “sulla schiena del mare” facendo ogni volta incantare il lettore davanti a quelle profondità marine interamente percepite e vive. Non so dire se sia sempre lo stesso verso o tante distinte infinità inesauribili.





 
  © Edizioni L’Arca Felice 2011


In alto, una grafica laser di Jacopo Ricciardi.


                








mercoledì 14 dicembre 2011

A Marco Saya il Premio Laurentum





 Lunedì 12 dicembre 2011 presso il Tempio di Adriano a Roma

Corrado Calabrò ha conferito la 
Menzione speciale della Giuria
del XXV Premio Laurentum per la Poesia 
a Marco Saya per il libro Murales (Ed. L'Arca Felice)
e a Ida Borrasi per le Edizioni L'Arca Felice



Gianni Letta
Sono presenti Ettore Bernabei, Pippo Baudo,
Luciano Ciocchetti, Pierferdinando Casini
Corrado Calabrò

Marco Saya 12/12/2011 XXV Premio Laurentum

Giuria Premio Laurentum 2011:

La giuria, presieduta da Gianni Letta, è composta da Angelo Bucarelli, Corrado Calabrò, Mariella Cerutti Marocco, Gianluca Comin, Maurizio Cucchi, Stas Gawronsky, Simona Izzo, Raffaele La Capria, Mauro Mazza, Francesca Merloni, Mauro Miccio, Maria Rita Parsi, Davide Rondoni, Roberto Sergio e Maria Luisa Spaziani.


Patrocini
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Senato della Repubblica
Camera dei Deputati
Ministero degli Affari Esteri
Ministero per i Beni e le Attività culturali
Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca
Regione Lazio
Roma Capitale
Provincia di Roma
XII Municipio Roma Capitale
Camera di Commercio di Roma
Federlazio
Conferenza dei rettori delle università italiane
Accademia della Crusca
Università Tor Vergata - Facoltà di Lettere
Libera Università Santissima Assunta (Lumsa) - Facoltà di Lettere
Associazione Roma Caput Mundi
Istituto Luce
Zetema



Comitato d'onore
Gianni Letta
Franco Frattini
Giancarlo Galan
Maria Stella Gelmini
Renata Polverini
Gianni Alemanno
Nicola Zingaretti
Gianluigi De Palo
Dino Gasperini
Patrizia Prestipino
Pasquale Calzetta
Luigi Abete
Gabriella Alemanno
Giancarlo Cremonesi
Maurizio Flammini
Francesco Marcolini


Marco Saya, Murales.
Interventi visivi di Marco Vecchio.
Libro di arte-poesia a tiratura limitata (199 esemplari numerati a mano).
Edizioni L’Arca Felice, Salerno MMX, pp. 40, più una litografia fuori testo.

                           
                  © Edizioni L’Arca Felice. Tutti i diritti riservati.

martedì 6 dicembre 2011

questionario di poesia (24)




Mario Fresa
Questionario di poesia (24)


Sandro Montalto









Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Il mio intento, più che segreto progetto (anzi spero non sia tanto segreto, preferirei fosse abbastanza palese), è quello di “accerchiare” il reale, ossia la nostra esistenza sotto l’aspetto sociale, filosofico, psichico, civile, biologico etc., usando le risorse della lingua. Il che significa che, secondo me, la poesia è tale se in qualche modo è chiaramente diversa alla prosa, nel ritmo e nelle funzioni (è ad esempio intensiva e non estensiva), e sfrutta tutte le risorse dateci dai linguaggi della tradizione letteraria ma anche dal lessico scientifico e quotidiano, siccome noi non viviamo a compartimenti stagni e dunque non possiamo ragionare ora in modo poetico, ora in modo quotidiano. Insomma, detta un po’ così,  un poeta deve essere tale, globalmente e profondamente, quando scrive una poesia e quando frigge un uovo, e allo stesso modo quando scrive una poesia, fosse anche un’ode o un sonetto, deve riversare nella poesia, trasfigurato fin che si vuole, il suo stare al mondo in un certo clima psichico e sociale, e con il profumo di uova fritte nell’aria. Inoltre, la poesia non deve mai dimenticare la necessità di una sua musica e di un suo ritmo (il che è diverso dall’astratta “musicalità” di cui spesso si parla in critica), cioè di un aspetto fonico che le è connaturato anche quando si pensi di scrivere solo per la carta. Insomma la poesia (ma non la singola poesia, che può essere, e legittimamente, bellissima o ridicolmente banale, bensì l’opera, l’opus) deve essere una operazione, ampia e caparbia, di lettura del mondo, la quale però rifiuti sia la mimesi (che è vigliacca) sia il settorialismo (che è opportunistico). Ossia, la parola deve rendere conto continuamente della complessità, mutevolezza e anche contraddittorietà del reale, resistendo alle tentazioni di avallarlo o di sfruttarlo.


Come nasce, in te, una poesia?

Innanzitutto mi è impossibile scrivere sull’onda dell’emozione. Da ragazzino scherzavo dicendo che al modello Foscolo sulle barricate preferivo il modello Montale in pantofole. Solitamente mi colpisce qualcosa (la particolare angolazione di un problema, una contraddizione, spesso il suono di una parola o di una frase, o ancora un’assonanza) che diventa il nucleo dal quale germina il testo. Siccome però credo che la forma sia indispensabile (il che non significa metrica, bensì la giusta misura: spesso si sente che una poesia doveva avere diciamo 5 versi, il poeta ne ha voluti fare 10 e c’è tanta fuffa), ho bisogno che ciò che mi ha colpito si radichi, poi sedimenti, poi soprattutto interagisca con stimoli diversi e vari che sono un po’ una messa alla prova (l’assonanza interna a un verso amoroso come sopravvive o come si modifica dopo un litigio, o un guasto alla macchina, o due giorni di emicrania?). E che infine esca, necessariamente in un’unica stesura tutta di un fiato senza sovracostruzioni, spostamenti o correzioni. Preferisco poi, e a distanza di anni (il libro Il segno del labirinto che ho appena pubblicato, ossia nel 2011, vede una selezione di poesie scritte tra il 1994 e il 2008), mettere alla prova il materiale accumulato ed eliminare la maggior parte dei testi, resistendo alla voglia di adeguarli alle necessità del momento (il che sarebbe, per me, come falsificare le cartelle di un paziente in cura da anni per dire che la cura funziona).


Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Ci sono ovviamente molti modi di essere poeta (stavo per scrivere “fare il poeta”, ma questa brutta cosa la lascio alla maggior parte dei facitori di versi e fini dicitori oggi in auge). Io, ed in parte ho già risposto sopra, credo che scrivere poesia distaccati dalla realtà, ossia dai molteplici stimoli della realtà, sia sbagliato, un tradimento. Insomma potrei scrivere un romanzo su cose che mai mi sono capitate e mai vorrei mi capitassero, o delle quali insomma nulla mi importa, ma una poesia no.  Da parte mia ho la sensazione, fin da bambino, che a sfuggire sia la complessità autentica del reale, e che la nostra condanna sia l’impossibilità per la parola di descrivere perfettamente la cosa. E’ quello che i dotti chiamano “alterità”; io preferisco, usando un termine matematico credo più preciso, parlare di “asindoto”. Il termine è utilizzato per denotare una curva alla quale si avvicina indefinitamente una funzione data, ossia “tende a”, ci si avvicina e la toccherebbe se non fosse destinata a restare da essa separata per valori infinitesimi sempre minori ma comunque irrimediabili (è il concetto matematico di “limite”). La parola possiamo, calcolando bene il nostro uso di essa, farla avvicinare il più possibile alla cosa, senza tuttavia che possa aderire ad essa. Non a caso il mio primo libro di poesia, ironicamente intitolato Scribacchino, si apriva con la poesia Prologo asintotico. Ma ciò non significa che i nostri sforzi non debbano essere tesi a questo obiettivo: alla base di una poesia linguisticamente sciatta stanno gli stessi meccanismi di vigliaccheria e totale assenza di partecipazione e di progresso che stanno nella supina accettazione del gergo oscuro o semplificatorio di chi detiene i poteri. Solo una sorta di “guerriglia semiologica” (ne parlava Eco negli anni Sessanta) potrà salvarci: non è tanto importante cambiare il contenuto dei messaggi alla fonte ma cercare di animare la loro analisi là dove essi arrivano; o, come si diceva una volta, non serve occupare la televisione, bisogna occupare una sedia davanti a ogni televisore. Una guerriglia che deve essere praticata nella società letteraria come in quella civile, e potrà farci uscire dalla mediocrità che ci sta trasformando da popoli a mandrie pronte per il macello.
Detto questo, però, è assolutamente indispensabile che la poesia non sia mai strumento, dimostrazione, didascalia, bensì sia un momento di contatto con il proprio io più profondo. Da questo incontro, poi, potrà anche nascere la teoria, che però deve essere frutto di un incontro emozionale quanto intellettuale.


La poesia è salvazione?

No, è diagnosi.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

La parola gioca a nascondino con noi, e noi a mosca cieca con lei.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

La concisione, o meglio la densità della parola. La poesia è l’esatto contrario della chiacchiera, procedimento pur interessante, fine a se stesso e autoreferenziale, che ho studiato in lavori anche creativi, soprattutto per il teatro.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Alla luce di quanto detto sopra, credo che non debbano esserci né finzione né mascheramento. Probabilmente ti riferisci ai famosi versi di Pessoa «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente», dalla poesia Autopsicografia. Io trovo però che, a parte il titolo bellissimo di questo testo, si tratti di un paradosso di quelli belli da memorizzare ma che non spiegano nulla. Inoltre non sopporto quelli che per ogni cosa devono scrivere la sua bella poesiola, perché devono sentirsi poeti; mi fanno l’effetto di quelli che tutti i giorni si alzano e devono scrivere su Facebook che stanno prendendo il caffè: chi se ne frega?
Circa le maschere c’è una poesia di Montale che vorrei ricordare: «Chissà se un giorno butteremo le maschere / che portiamo sul volto senza saperlo. / Per questo è tanto difficile identificare / gli uomini che incontriamo. / Forse fra i tanti, fra i milioni c'è / quello in cui viso e maschera coincidono / e lui solo potrebbe dirci la parola / che attendiamo da sempre. Ma è probabile / ch'egli stesso non sappia il suo privilegio». Le maschere di cui parlava Pirandello erano una diagnosi, a loro modo, ma una società in cerca di facilonerie le ha trasformate in un attrezzo fondamentale nel bagaglio dello scrittore, e poi dell’uomo comune (che a volte è capace di dirti: “ma, sai, io porto molte maschere”… fatti curare!). Il poeta non deve fingere, bensì trasfigurare. Normalmente si conviene circa il fatto che se ti rompi una gamba e fai una poesia su tu che ti rompi una gamba sei un poeta della domenica, mentre dovresti trasfigurare questo evento, assolutizzarlo, probabilmente partire dalle emozioni che questo avvenimento ti ha dato e, senza citare l’avvenimento stesso, creare la tua poesia. Sono abbastanza d’accordo. Tuttavia ricordo certi testi di Bukowski, per fare un nome quasi a caso, che parlano solo e proprio degli avvenimenti così come sono accaduti, eppure sanno comunque restituire il loro valore assoluto. Ricordo un amico che, scosso dall’episodio delle Torri Gemelle, ha riversato la propria emozione in una poesia che parlava della sua abitudine di andare a pescare in un laghetto vicino a casa; ebbene la lettura di quella poesia mi ha scosso in maniera particolare, anche se non capivo perché, e solo dopo che mi ha spiegato le circostanze della sua composizione ho capito.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare? 

Se me lo chiederai tra cinquant’anni ti risponderò “Sandro Montalto”. Forse. No, in realtà ce ne sono diversi, ma fare dei nomi qui sarebbe difficile… non a caso mi sono occupato molto di critica, scrivendo centinaia di pagine,  allo scopo di indagare e interpolare poeti poco noti e secondo me meritevoli di attenzione.

Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Di saper essere onesto con se stesso, e di avere un ragionevole numero di lettori onesti con lui e… con se stessi. Non lettori che ti leggono così poi tu leggi loro e vi scambiate delle recensioni. Altrimenti è un’orgia (con orgasmi peraltro minimi).


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Ovviamente vorrei citarne mille. Mi butto sui Sonetti di Shakespeare: «e morte è tal pensiero, senza scampo, / che piange perché possiede ciò che teme di perdere»; lo trovo di una dolcezza infinita, e impietoso nell’illustrare come tutti noi ci si faccia quotidianamente del male.






 
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In alto: Nude Popcorn di Philippe Halsman [1906-1979]










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