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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

lunedì 20 febbraio 2012

Franca Alaimo


 



Franca Alaimo
 

Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.




   È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evi-denzia nelle forme e una sorta di extrarealtà, evocata da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una scrittura straordinaria?

   È certamente così: la realtà non si esaurisce tutta in ciò che possiamo percepire con i nostri sensi, che, intanto, sono assai difettosi e registrano solo una piccola parte di essa.
   Inoltre, le forme in cui la realtà si rende manifesta sono senz’altro delle porte dischiuse su una dimensione extrasensoriale, percepibile solo per intuizione, cioè per una discesa nel profondo, nelle intime fibre di una materia che finisce ad un certo punto di essere tale e sconfina in una insostanzialità, che è però substantia dello Spirito d’Amore che soffia ovunque e dà forma, spingendo fuori il creato dall’increato, la forma dall’informe. E che perciò disvela e rivela.
   I poeti possono considerarsi mediatori tra realtà ed extrarealtà proprio perché sanno trarre fuori dal bozzolo del reale quel filo di seta d’oro con il quale tessere significati e verità straordinari gettando ponti fra le cose più distanti attraverso simboli, metafore ed elaborazioni sonore, e perfino cucire abilmente tra loro le parole che finalmente abbandonano il loro quotidiano abito liso e le loro relazioni più abituali per essere e dire molto di più di se stesse.

   Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti arrivasse, ad illuminare?

   Se la mia poesia fosse un quanto, salirebbe senz’altro dagli atomi dell’acqua, che è l’elemento che amo di più, perché assume docilmente le forme che la contengono, è mobile come la vita, lava e purifica, disseta fisicamente e, secondo la simbolicità religiosa, spiritualmente. L’acqua si solidifica ed evapora, è leggera e pesante, scorre in terra e in cielo spostandosi con le nubi. Da essa nasce la vita, in essa navighiamo già prima di nascere.
   Mi sembra, dunque, l’elemento più adatto a rappresentare questo mio cuore mobilissimo ed oscillante di carne e spirito, la mia poesia che si muove incessantemente tra terra e cielo, innamorata com’è dell’una e dell’altro.
   Dove e chi o che cosa illumina la mia poesia? Certamente illumina la mia vita e vorrei che pure si spingesse a fare un po’ di luce nel buio delle anime impaurite.


   Secondo te a cosa serve la poesia in questi tempi moderni? Qual è il suo ruolo?

   La poesia serve a fare dell’uomo un uomo, nel senso che non gli fa dimenticare che una vita può dirsi vera e completa solo quando non assolve soltanto i bisogni del corpo e i desideri della carne e della volitività, ma anche quelli dello spirito. L’inutile poesia, a mio parere, è, dunque, molto utile alla crescita armoniosa della personalità dell’individuo. Essa non risponde affatto alle domande capitali, né potrebbe; ma, nel porle, ricorda di che sostanza siamo fatti, di che cosa davvero dobbiamo occuparci e quale indirizzo dobbiamo dare all’esistenza. Vivere in superficie è, infatti, come ignorare le meraviglie nascoste nel mare immenso e profondo delle cose esistenti. E con questa affermazione, mi pare di avere tracciato un percorso circolare, ritornando allo spirito della prima domanda.





 
Franca Alaimo è nata nel 1947 e vive, attualmente, a Monreale. Ha esordito come poeta nel 1989, ma ha scritto le prime poesie all’età di otto anni. Si dedica anche alla critica da parecchi anni. Tra sillogi poetiche e saggi critici, ha pubblicato venti libri, molti dei quali hanno ottenuto premi e segnalazioni prestigiose. Ha collaborato nella redazione di varie riviste, come «l’Involucro» e «Spiritualità & Letteratura». Attualmente fa parte della redazione della rivista on-line LaRecherche.it (www.larecherche.it). Ha tradotto alcuni autori di lingua inglese, come Peter Russell, ed altri di lingua spagnola.

   Intrattiene da almeno venti anni una fitta corrispondenza con scrittori ed intellettuali italiani e stranieri, strumento che ritiene molto utile per un dialogo e confronto più profondo. È presente in numerose riviste, antologie e Storie della Letteratura italiana.

 






NEL FIUME FUGGEVOLE DEI SEGNI

















Il mio angelo

Ma una notte mi sveglio,
Sento – mi sorprendo – un suono
Celestiale, indosso la vestaglia
E a piedi nudi, in silenzio, cerco
Ogni nascondiglio, e la musica
Sale: Oh, che meraviglia,
Che dolcezza e varietà di toni!
Possibile? Nel bagno? Là,
Dentro i tubi c’è tutto quell’ardore
Che pompa come un cuore
E che abbraccia l’aria. Sarà caduto
Nella cisterna l’Angelo mio assetato
E ride, piange, canta e non sbaglia una nota:
Vedi tu dove si caccia pur di vivere
Con me la vita d’ogni giorno!

Un cuore pagano

Avvampa il sole di Damasco nei miei occhi
Ma batte nel petto un cuore pagano:
Tra me e dio il riso vezzoso della vita
Un linguaggio di cose e di corpi che
Mi narra il lievito dell’amore e della morte.
L’eternità è una speranza insostenibile
Tra i ritmi franti delle creature, e come
Andarono fuori dallo sguardo una ferita
Che mai si ricuce. Mi aiuterà questo
Distrarsi di semenze nuove, toglierà
Dal cuore la pietra dell’angoscia il caos
Quotidiano vitale come il sangue?
Se davvero mi ami, attendimi nel sentiero,
Quando i passeri si saranno addormentati,
Quando con sillabe di silenzio verrò
A dirti che ho finito tutti i sogni e
Che ho bisogno di un nuovo desiderio.






Io e mio figlio

Versate le acque, rimanesti per troppo tempo
In arida attesa, illividito, e dal mio corpo
Nascesti come una viola raccolta da un grido disperato,
Ma palpitavi con forza come un passerotto caldo
Appena caduto dal suo nido. Perdonami se la traversata fu
Tanto dolorosa, se ti insegnai subito il dolore,
Se invece di una parola d’amore innalzai un muggito
Alto come quello di una giumenta dolorante. Ci siamo
Incontrati sul limite, ostinati entrambi, fra la gioia
Della vita e la paura di morire. Ci siamo salutati come
Due che sempre avrebbero lottato per amarsi,
Spesso privi di fiato, senza parole, ruvidi e amari
Come certe radici. Ma gli amori così sono più tenaci
Delle pietre, hanno un cuore saldo e il tempo
Poco a poco li rende lucenti. E dunque, mio bimbo,
Mio figlio adorato, sia benedetto il riso radioso
Che t’ingemma il viso, angelo colmo di parole
Buone, e sia benedetta l’ora che amorosamente
Ci cuce i cuori con un filo cremisi ed un ago d’oro.

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