Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

martedì 31 gennaio 2012

Sull'ultimo numero de "La Nuova Tribuna Letteraria" (n. 105) è apparsa  la recensione di Stefano Valentini dedicata a Gli occhiali di Spinoza di Daniela Monreale (Ed. L'Arca Felice).

giovedì 26 gennaio 2012

questionario di poesia (31)






 Mario Fresa

Questionario di poesia (31)






Lina Salvi

















Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



Inizialmente non c’era nessun progetto. Le parole nascevano quasi per caso, anche se avvertivo in loro una certa urgenza, qualcosa che premeva dentro, quasi un dolore acuto, improvviso, una fitta. Poi l’intreccio di suoni, parole, condivisi in un gioco analogico hanno dato origine ai primi testi . In alcuni mie poesie ritengo di aver lavorato privilegiando la ricerca dell’assoluto, sentivo la necessità di qualcosa che si avvicinasse alla perfezione, in maniera del tutto astratta, senza addentrarmi nei suoi significati più profondi. Quindi l’ esigenza di dare corpo,  un significato a una certa tensione anche immaginifica, che mi proiettava per l’alto, verso una dimensione ancestrale. Ovviamente i testi hanno risentito di questa segreta disposizione, diciamo di  intima tensione. Mi sono resa conto che avevo  dei reperti da portare alla luce, reperti che volevano parlare al mondo: non sapevo come avrei fatto, chi i miei compagni di viaggio, con quali le parole.   Con il tempo la scrittura si è sciolta, ed ora credo esiga una molteplicità di elementi, credo che voglia rappresentare la realtà che viviamo, e la propria contemporaneità.   




Come nasce, in te, una poesia?


Principalmente da un’intuizione emotiva, da un’esperienza o profonda tensione anche del tutto inconsapevole. Qualche volta nasce dalla curiosità di voler indagare un luogo, una persona, un oggetto e farla rivivere sotto altra forma, donarle nuova vita. In ogni caso ricercarne la sua segreta bellezza e restituirle pur nella mancanza o imperfezione, quella dignità che le manca. Restituirle il suo senso di appartenenza, il suo posto nel mondo.  




Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?


Ritengo che si parta sempre dalla propria esperienza, unica ed indispensabile misura. Per costruire, ricostruire presenze vive, immaginate, inimmaginabili.   




La poesia è salvazione?


Certamente! Credo che lo sia e che possa contribuire alla salvezza spirituale dell’uomo.



A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?


Mi piacerebbe paragonarla a un gioco arioso e di azione, dove è indispensabile poter correre, saltare affrontare ostacoli.



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?


Che esistono altri luoghi possibili, che possiamo amare, frequentare,  mettere in  dialogo tra loro.
Che la poesia e l’arte in genere ti offrono la possibilità di vivere due vite, in un dualismo non sempre felice, ma certamente ricco. La scrittura poetica è libertà, scritta sulla propria carne.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?


Può essere molto alto o anche del tutto inesistente. Dipende dalla sua abilità , dal suo grado  di consapevolezza e attiene in qualche modo al progetto iniziale.




Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Vittorio Sereni. Amelia Rosselli. Simic.  




Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?


La pazienza e l’attesa. Poiché la poesia non è vanità, ma il suo esatto contrario.




Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Il mare e la sua sponda, è il titolo di un bellissimo racconto in prosa di Elisabeth Bishop.
Nella relazione continua , che si instaura  tra i  due elementi,  c’è tutto lo spazio dell’umana esistenza, con i suoi drammi, i suoi squallori;   la ricerca dell’ umano “agire”,  di cui  avvertiamo l’urgenza.  






In alto: Reviews of Hand on lips di Man Ray [1890-1976]

 

 

 

 

 

 





martedì 17 gennaio 2012

questionario di poesia (30) Monia Gaita






Mario Fresa
Questionario di poesia (30)

Monia Gaita








Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



Non credo che s’accampi un segreto progetto ad introdurre una finalità precisa in ciò che scrivo, almeno non nei canoni di un’intenzione razionalmente ordinata intrisa di chiarezza specifica e definitiva. C’è piuttosto un’identità o un’amicizia intrinseca con le parole che non solo interpretano e rappresentano reale ed irreale, ma spesso li sostituiscono, riuscendo a passare per i valichi intransitabili di certe impossibilità dell’esistenza e facendosi così originario mondo o primordiale nucleo costitutivo del tutto.




Come nasce, in te, una poesia?



Non nasce in ogni momento. L’infirmĭtas creativa può incagliare, intorpidire e intorbidare per lunghi periodi i pulsanti automatici dell’ispirazione. In tale stato non mi cimento con i versi perché so bene che farei male. Aspetto quindi con pazienza il momento giusto che dopo le pause apparentemente inutili e che servono invece ad immagazzinare immagini, percezioni, interrogativi, arriva all’improvviso con una strana smania o incalzante impulso a dire, uscendo infervoratamente dalle sabbie mobili del silenzio.




Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Il poeta parla della vita, dei suoi ori e delle sue ruggini, e quindi certamente di ciò che l’esperienza, dalla natura mobilissima, propone e intercetta di volta in volta. Ma è anche vero, come tu dici,  che il poeta parla di ciò che vorrebbe ricevere e che sempre gli sfugge, dei rovesci di grandine delle illusioni mutilate, dei sogni riversi sui fornelli dell’irrealizzabilità e che magari ancora rivendicano un diritto di riuscita. La materia della poesia è anche l’immaterialità, la carezzevole favola che risolve gli enigmi, la grazia che rianima e respinge la resa, la bellezza che resiste all’attrito e all’usura del caduco. Penso, quindi, che agli argomenti della poesia pertengano l’astratto ed il concreto, l’ignoto e il noto, il visibile e l’invisibile, e non come giustapposizione, reggenza o fusione di attività separate, bensì come interazione continua e produttiva a permeare disegni e desideri di senso variabile. Il rapporto con ciò che mi sfugge è il rapporto con l’origine, sempre aperto e a marcia regolare: una perenne ricerca o vertigine dell’istante.




La poesia è salvazione?



Assolutamente sì; per me è la religione prima a cui domando salvezza da tutte le brutture che mi avvolgono.




A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



C’è un gioco che facevo nella mia infanzia con una mia carissima amica d’allora, Amalia. Andavamo sulla rupe del castello di Montefredane, a quel tempo in stato di abbandono, un ammasso informe di pietre, blocchi, ortiche e ciuffi d’erba. A est  correva un lungo muro perimetrale scrostato salendo sul quale si poteva contemplare un panorama mozzafiato: buona parte della nostra Irpinia con i monti del Partenio e i diversi paesini arroccati sulle colline. Tuttavia era rischioso perché oltre precipitava uno strapiombo da paura. Amalia era spavalda e non temeva nulla, io sì, e benché la invitassi a tornare indietro, alla fine mi lasciavo convincere e raggiungevo il ciglio per qualche secondo. Certo, la vista ne valeva davvero la pena, ma il pericolo era tanto! Mi allontanavo poi col turbamento interno di chi sa di aver violato le regole (se l’avesse saputo mia madre!) ma con l’acquisizione di una sfera altra, di una dimensione così lontana da me e che per poco avevo potuto sublimemente toccare facendola mia completamente. La poesia per me è quel rischio di allora, è quel miracolo che si ripete, è un dialogo con l’Infinito quando scavo in ogni parola una voragine impeccabile in cui potrei cadere irreparabilmente.




Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



Mi ha insegnato che la poesia non è un gioco, mi ha dettato l’umiltà e la voglia di capire che dietro ogni autore si cela un’ortodossìa  ricca, proiettiva, profetica e meravigliosa, mi ha fatto conoscere ed apprezzare la poesia russa, inglese, tedesca, francese, ispanoamericana...Mi ha suggerito riflessioni, prospettive e categoriche smentite sviluppando il mio Logos in direzione di una libertà piena non contaminata da pregiudizi. La frequentazione, invece, di autori recenti mi ha spesso posta di fronte alla cattiva poesia, allo squallore delle rigide leggi del mercato editoriale che vede assurdamente pubblicate  e pompate ad arte, anche banalità e colossali stupidaggini.




Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Il poeta indossa tante maschere, ne rimescola le forme a piacimento, le rinnova e le rinnerva come vuole, ma non capostaziona in lui neppure una finzione che non riproduca e diffonda una profonda verità. Il poeta quando racconta e si racconta non ha da risanare alcun deficit di genuinità, schiettezza e adesione al suo sentire più autentico: in tutto questo non può intersecarsi o ravvisarsi alcuna contraffazione, adulterazione, parentesi posticcia o fasulla. Dietro ogni travestimento o camuffamento studiato c’è l’osso nudo senza lanterne cieche, il ganglio candido e vibrante di chi ha amato, gioito, sofferto, perso e vinto sempre direttamente sulla propria pelle.




Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Sicuramente Vittorio Sereni, il grande poeta di Luino, poco conosciuto, anzi, direi sconosciuto purtroppo da tanti giovani oggi.




Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



Augurerei a un poeta di rimanere fedele a se stesso e al progetto che ne mobilita le forze, senza lasciarsi monetizzare e corrompere dai gusti delle mode o dai conformistici inganni dell’omologazione.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Citerei un poeta francese a me particolarmente caro, René Char: «Hai aperto la mano e me ne hai mostrato le linee. Ma vi sorgeva la notte. Ho deposto l’infima lucciola sul solco della vita. Anni di prostrazione si sono illuminati di colpo a  quel fanale vivo e assetato di noi». Spiegare perché questi versi mi appartengano non è semplice, presidiano forse il mio bisogno cedevole di luce, di riscossione oracolare, di musicale ritmicità, di cartelli indicatori che mi illustrino il cammino, che candeggino il buio di certi giorni vuoti.












In alto, un dipinto di Giovanni Spiniello: Donna-orchestra.







giovedì 12 gennaio 2012

questionario di poesia (29)







Mario Fresa

Questionario di poesia (29)



Ivano Mugnaini








Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Ciò che mi affascina della scrittura è, in fondo, ciò che la rende terribile e fascinosa, come una donna complicata e bellissima, come il cammino sopra un baratro che sovrasta panorami meravigliosi. La scrittura, credo, è il tentativo di gettare un ponte su quel baratro senza sapere se dal lato opposto esiste una sponda, o, meglio, sapendo che ci sono infinite sponde, ognuna con un terreno specifico, pietroso o friabile, fertile o arido. Scrivere è costruire quel ponte,  passo dopo passo, scommettendo sulla possibilità di mettersi in contatto con altri continenti, realtà diverse eppure affini. Ed è sempre mirabile il momento in cui ciò che credi individuale, aspramente unico ed esclusivamente tuo, passa, si muove, attraversa il vuoto, diventa patrimonio condiviso, un istante scritto, letto, vissuto all’unisono.


Come nasce, in te, una poesia?

Dall’osservazione del reale. Da un particolare concreto, oggettivo. Considerando come oggettivi perfino i pensieri, le sensazioni che passano attraverso il corpo, gli occhi, le mani, i piedi. Poi, da quegli spunti percepiti, a volte cercati, a volte quasi colti controvoglia, nasce un tentativo di riflessione, una volontà di dare forma a ciò che del mondo mi colpisce, anche nel senso letterale del termine, come un pugno, oppure mi sfiora, come una carezza, un ricordo. Dalla distanza tra ciò vedo e ciò che vorrei vedere, attraverso questo contrasto e questo incontro, nascono le parole ed i versi. Senza sperare in mirabili metamorfosi della realtà, ma anche senza rinunciare al diritto di auspicare verità alternative, mondi altri, differenti, seppure ancora e sempre terreni, umani.


Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Questa risposta si ricollega alla precedente: il poeta ha il diritto-dovere del sogno. Ma credo che la poesia abbia poco senso se perde il contatto con la realtà, per quanto aspra e impoetica essa possa essere. “La poesia non risponde, domanda”, affermava P.G. Antokol’skij nel suo Giornale di viaggio di uno scrittore. Ma in quella domanda c’è il suo senso, e, forse, la sua funzione: tenere vivo il dubbio, la capacità di cercare prospettive nuove, ponendo l’uomo di fronte alla necessità di ragionare su se stesso, sul suo scopo, sul senso del suo esistere.


La poesia è salvazione?

Se intendiamo salvazione come una panacea, come una ricetta miracolosa, direi di no. Rispondendo alla adorata nipotina che gli chiedeva ciò che avrebbe dovuto fare da grande nella vita, Byron le consigliava questo: “tutto, tranne che il poeta”. È significativo. E si capisce il perché del consiglio: il poeta percepisce assieme al proprio dolore personale  il dolore del mondo. Lo assomma, lo moltiplica. Ma è anche vero che Byron ha scritto e vissuto poesia una vita intera, l’ha resa parte integrante del proprio mondo interiore. La poesia forse è una scelta e forse un destino: e nell’attimo della sua sconfitta c’è anche la sua vittoria. Nell’istante della perdizione, in varie accezioni, c’è la sua salvezza, la salvazione.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Forse, ricollegandomi ancora a quanto ho scritto poco sopra, direi che è paragonabile al nascondino: ci si cela alla vista degli altri, in angoli bui, scomodi, impolverati. Ma, nella mente e nel cuore, e nel senso stesso del gioco, c’è la speranza, anzi la necessità  di essere scovati, scoperti, costretti ad uscire allo scoperto. Per lamentarsi con se stesso, rallegrandosi, in fondo, perché è nella logica del gioco e dell’esistere questo alternarsi di buio e luce, silenzio e dialogo.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

L’importanza, la potenza creativa e distruttrice della parola, e la conseguente necessità di rispettare ciò che maggiormente distingue il genere umano. Violentare le parole dovrebbe essere considerato reato. Non solo quando si scrive, ma anche quando si parla, perfino quando si pensa, il rispetto per la parola dovrebbe essere immenso, meticolosamente appassionato, usando i vocaboli come strumenti delicati, sensibili, in grado di provocare ferite o di guarirle. Credo che, così come è necessario superare un esame per poter guidare un veicolo, bisognerebbe dover dimostrare di conoscere la pericolosità e la meravigliosa capacità di attraversare mondi propria del linguaggio prima di avere il permesso di parlare e di scrivere. È una provocazione, certo; ma è anche modo per sottolineare ancora che le parole sono vitali, nel senso letterale del termine.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Come ho accennato in precedenza, il poeta si nasconde, per scelta e per necessità. Però la sua fragilità non può essere una scusa per evitare il contatto con il mondo. Deve trasformare il vetro in acciaio, o trasformarlo, renderlo malleabile e forgiarlo per esprimere ciò che realmente pensa e ciò che davvero sente. È il suo compito: arduo ma necessario.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Me ne vengono in mente molti. E citarli tutti non è possibile. Il consiglio che mi sentirei di dare ai lettori è quello di cercarli con cura e tenacia questi continenti ancora inesplorati, queste terre fertili che attendono di essere scoperte e coltivate con la passione della lettura. Oggi  accade sempre più spesso, anche grazie ad Internet, anche grazie a case editrici che, nonostante le difficoltà, leggono e pubblicano autori nuovi di valore o riscoprono autori che meritano maggiore visibilità. Nonostante le logiche dominanti, oggi i lettori hanno il potere di scegliere, ricordando e rivalutando chi, caso per caso, ha il potere di destare il loro interesse e di generare emozioni autentiche, non posticce o preconfezionate.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Rimanere se stesso, senza farsi snaturare da logiche lontane dal suo mondo, dalle sue sensazioni autentiche. Continuare a scrivere ciò che davvero vede e pensa, e trovare in chi legge, a qualsiasi livello, la capacità di sentirlo e ascoltarlo come voce individuale, autonoma e genuina, riconoscibile nel mare magnum degli autori contemporanei.


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

“Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Scelgo questo verso, anzi questi versi di Pessoa, perché mi sembrano coerenti con il contenuto delle mie precedenti risposte. E, a dire il vero, anche perché l’impresa di scegliere un solo verso tra tutta l’infinita bellezza espressa da tutti gli autori di tutti è tempi è così ardua che è paragonabile a quella di selezionare un granello di sabbia più lucente su una spiaggia assolata. E, infine, perché i versi prescelti pur parlando di dolore parlano anche del potere dell’immaginazione. Perfino il dolore descritto passa attraverso la mente di chi lo concepisce e lo crea. Così come il piacere, così come la stessa poesia, che, attraverso il corpo, diventa pensiero, la più concreta e vitale delle finzioni.




 


In alto, particolare tratto da una stele tebana del V sec. a.C.











giovedì 5 gennaio 2012

questionario di poesia (28) Giovanna Fozzer



 Mario Fresa

Questionario di poesia (28)



Giovanna Fozzer










Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Nessun segreto progetto, nessun tendere a. Vi sono periodi della vita in cui qualcosa (una piccola nube sull’azzurro, alberi o occhi di un gatto o di un bambino, un ricordo d’amore o di dolore, ecc.)  muove dentro un impulso, una necessità di scrivere, di mettere in parole scritte – in sintesi – l’emozione, la commozione, la disperazione, la gioia, la riflessione. Scrittura come distillato, vera essenza, canto forse. Ho orrore, per dir così, della volutezza.


La poesia è salvazione?

La poesia [quella vera, troppa ce n’è simile a caricatura, carica di volutezza, lagnosa, egoista, senz’anima profonda, incentrata sull’ego, su quell’io che non interessa a nessun vero lettore] è certo sacra, come Leopardi o Saba, Pascoli o Guidacci o ogni altro profondo vero umano: da Omero e Saffo a Shakespeare e Dickinson ecc.  Salvazione  è un termine che sento non abbastanza forte, nitido, lucente. Non so, quindi, se la poesia sia questo.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

La mia infanzia è assai lontana… Gioco come entrare nell’intenso odore della stalla odella casa contadina, contemplare gli animali fumanti, ottenere il privilegio di fare le cose come le fanno [facevano] i contadini (giustamente diffidenti verso i bambini di città): rastrellare il fieno, strappare le erbacce alle patate ecc. O anche, gioco cittadino, recitare rime dialettali capaci di commuovere il piccolo uditorio familiare e me, fino alle lacrime. [Ma mentre scorro le domande comincio a sentire il disagio del frequente comparirvi della parola poesia: diffido, come di chi nomina  Dio (magari anche in ‘poesia’…) con una certa familiarità e disinvoltura – per me sempre troppa].


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Frequentazione della scrittura poetica: quale? A me erano sempre bastati Dante e Leopardi, profondi nel mio cuore e nella mia mente, vivi, veri, assoluti. Quando sentii la necessità di scrivere piccole cose mie, a lungo le chiamai ‘sintesi’, non osavo chiamarle poesie finché non mi convinsero a farlo alcuni amici miei lettori.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Finzione e mascheramento di un poeta? Non lo so, non me ne intendo, mai mi sarebbero venuti in mente quei termini, di fronte a testi poetici veri (i soli che mi interessino) testi amati, comprensibili, letti e riletti con rispetto e progressiva intellezione.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Margherita Guidacci.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Dono per il poeta? Vincere alla lotteria una grossa somma per essere più libero di scrivere e pensare. Oppure: il dono di essere solo se stesso, in profonda umiltà e verità,  e di scrivere appunto solo secondo amore e verità (o amore del vero, che è come dire amore del bello).


Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?

Dolce e chiara è la notte e senza vento.








 

In alto, La lezione di musica di Jan Vermeer [1632-1675]





lunedì 2 gennaio 2012

questionario di poesia (27)








 Mario Fresa

Questionario di poesia (27)



Enzo Rega










Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

È talmente segreto che sfugge anche a me. Per ritagliare uno spazio più circoscritto, il disegno che poi si è realizzato con Indice dei luoghi. Poesie da viaggio (e d’amore) – che mi ha da poco pubblicato la casa editrice Mephite –, e che viene esplicitato nel titolo, si è chiarito solo strada facendo. A un certo punto, la somma delle cose fatte diventa un totale, un insieme che, in un improvviso insight, come direbbero gli psicologi, si chiarisce a chi scrive, dando un significato complessivo al tutto e a ciascun elemento che nel tutto s’inserisce: hegelianamente, direi.



Come nasce, in te, una poesia?


Permettimi di citare un altro filosofo: perché qui direi schellinghianamente. Per un miscuglio di consapevolezza e inconsapevolezza. Non credo però in dimensioni orfiche, misteriche. Mi spiego con un esempio. Le mie poesie di London Gallery non esistevano, nemmeno come ‘progetto’, quando mi è stato chiesto qualcosa per l’antologia de Le amorose risonanze (L’Arca Felice) che avesse magari un filo conduttore. Non avevo allora neanche inediti. Così ho considerato che cosa mi piacesse fare, o, se vogliamo, cosa sentissi il bisogno di dire. Non c’è forse qualcuno che alla domanda “come le viene l’ispirazione?” ha risposto: “pensandoci su?”. È chiaro, poi, che in questo pensarci su ho agganciato qualcosa che navigava dentro di me e che cercava espressione. C’è una necessità spirituale, dunque, e un’occasione, anche banale, anche concreta, materiale che arpiona lo spirituale. L’ideale è il concreto diceva più o meno Francesco De Sanctis.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?


Tutt’e due. L’una o l’altra. O l’una e l’altra. Dipende dai poeti, dal loro tipo di poesia. Ma senza dubbio l’arte si tende, si stira sempre tra queste due polarità. Il poeta ha bisogno di dirsi il mondo nel quale vive, dal micro al macrocosmo, e la poesia è senz’altro una forma di conoscenza. Dall’altro ha bisogno di un altrove, e la poesia è lo spazio di questo altrove, l’immaginario oltre la siepe. Ma questo bisogno dello scrittore intercetta quello analogo, speculare, del lettore, che da un lato vuole qualcuno che lo aiuti a capire questo mondo, ma desidera anche che gli si prospetti un mondo altro. Quello che sfugge, che fugge, trova una collocazione ideale, immaginaria, in un fermo-immagine, sulla pagina, sulla tela Il filosofo John Dewey, a differenza dell’empirismo, dal quale pure partiva, considerava reali e significative nella vita anche le esperienze puramente mentali. Ma anche lo psicologo Bruner parla di una “mente poetica” come luogo dell’immaginario, di apertura verso l’altro.



La poesia è salvazione?

Non so se “la poesia salva la vita”, come qualcuno pure dice. A volte forse la danna. Ma forse può preparare la salvazione. Bruner, che ho citato prima, intende quell’apertura verso l’altro anche nel senso degli altri. Riuscire a concepire ciò che è diverso, significa anche riuscire ad assumere il punto di vista altrui. Quindi la mente poetica è anche il terreno della solidarietà: non solo di una salvezza individuale, che non mi interesserebbe, ma collettiva.




A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Da bambino mi raccontavo delle storie, prima di dormire, o anche durante la giornata, storie che ho portato avanti per anni, puntata per puntata. Era appunto l’immaginare un altrove. La poesia riprende e continua questo gioco di raccontarsi il mondo, vero o verosimile, con lo sguardo meravigliato dell’infanzia. È il passaggio dall’oralità originaria, di cui parlava anche Leopardi, alla scrittura che deve saper mantenersi, sempre leopardianamente, nell’apertura di quell’oralità.




Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

La concentrazione essenziale.





Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Nietzsche, nella Nascita della tragedia, il suo primo libro filosofico, che, come sostiene Giorgio Colli, è anche la summa di tutto il suo pensiero, dice che Apollo non può vivere senza Dioniso, ma che anche Dioniso non può vivere senza Apollo. Come si sa, Dioniso rappresenta il Wesen, la dinamica essenza della realtà; Apollo ne è l’espressione in ‘bella parvenza’ (il fermo-immagine, appunto) che però tradisce il significato originario nel momento in cui lo dice. Diremmo in termini moderni: il significante tradisce il significato. Le maschere sono l’aspetto che necessariamente deve assumere la realtà per essere detta, altrimenti rimarrebbe non detta (ma anche per essere, altrimenti non sarebbe). Non di meno, tali maschere, per dirla con linguaggio freudiano, sono il sintomo di tale realtà. Come nei sogni. Allora, rimane l’onestà. Cioè, la consapevolezza della necessaria e inevitabile mistificazione che si compie nominando le cose, e quindi la volontà e capacità di continuare a scavare nel linguaggio, e in noi, e nella realtà, perché Apollo tradisca il meno possibile Dioniso.



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Il calabrese Lorenzo Calogero, morto presumibilmente suicida nei primissimi anni Sessanta. La sua “poesia ininterrotta” era l’inseguimento di questo Wesen attraverso tutte le maschere possibili.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Di capire se la poesia, come genere letterario, la Dichtung direbbero i tedeschi è loro davvero necessaria, come espressione. O se possa bastare invece quella che sempre i tedeschi chiamano Poesie (Heidegger sottolinea questa distinzione), cioè il poetico che, aggiungo, può essere in tutte le cose, non solo in una serie di frasi con a capo. In senso figurato per i tedeschi ha anche il significato di magia, e questa può essere ovunque.
Cioè, in soldoni, capire se si è poeta oppure no.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Silvia, rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea /  Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / E tu, lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi? – Veramente, ho aperto qualche libro e gettato uno sguardo qua e là: come si trova? cercando, appunto. Ma in questo caso, per questi celeberrimi versi di Leopardi, ho trovato ciò che sapevo. Dal liceo mi inseguono,, soprattutto quello degli occhi “ridenti e fuggitivi”, che è così femminile, ma anche così universale. L’endiadi ossimorica, se così posso dire (in fondo sono due parole che esprimono un  concetto nella sua ambivalenza), fa il paio con l’altro “lieta e pensosa”, che è la cifra della vita, nella sua istantaneità che ci angoscia ma che pure, se ci riesce, ci riempie, ci allieta. Nel frattempo…












In alto: Il funambolo di Franz Borghese [1941-2005]








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