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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

giovedì 2 febbraio 2012

questionario di poesia (32)




Mario Fresa
Questionario di poesia (32)



Ugo Piscopo




Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Essere un altro e, insieme, tra gli altri, con gli altri, per parafrasare un verso di una mia poesia. Questo, il progetto. Costituito, è ovvio, sul terreno retorico-stilistico. Parlare gli altri in me e parlare l’«altro» che sono io.
Non so se questo progetto abbia segreti. Certo, un segreto c’è nel mio dire e nel mio pensare ed esso riguarda le informazioni prime (del mio dire e del mio fare): da dove mi derivano? Chi è quell’altro che parla in me?


 Come nasce, in te, una poesia?

Una vicenda complessa, spesso tormentata, codesta. Come vorrei essere assistito da un addetto alla maieutica in tale campo. Da un Socrate della poesia.
Ma, povero me, ogni volta me la devo vedere da solo. Dopo, spesso, anzi quasi di norma,  me la devo vedere di nuovo e di nuovo (sempre in lotta) con me. A distanza, talora di anni. Il che è più penoso.
Come nasce?  Per lo più, a seguito di ricadute dentro me stesso, d’impulso di una qualche “deceptio”, di una qualche “aegritudo” e grazie a uno stato di “acedia”. Procedo per suggestioni e appunti, per collazioni, per narrazioni. In ultimo, definisco il tutto per accenti, sillabe, sticometrie. Quando termino (ovvero mi sembra di aver terminato), puntualmente trovo che la cosa venuta alla luce è tanto distante dall’idea che era a monte. E guardo con meraviglia e malinconia i fiori e i rami che si sono buttati alla luce (o alla notte) tramite il tronco della mia vita.


Un poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

 Il poeta, certo, parla anche quando non parla. Anzi, quando non dice, dice di più. La parola del poeta è perennemente in transito. Appartiene e non appartiene a lui, si confronta e, insieme, si sottrae al confronto con gli altri.
La parola del poeta si nutre di assenza, di lontananza e di attesa, impossibili nella realtà. Così, quella, che noi chiamiamo “la realtà”, funziona solo da bordo per il viaggio “en avant” del poeta. Essa è non-poesia, ingombro, zavorra. O, meglio, agli occhi della poesia, è usurpazione della realtà, quella vera, che è fatta per la probabilità dell’improbabile, per la liberazione della libertà.


La poesia è salvazione?

La salvazione è materia di fede (“soteriologia”), non riguarda i modi di uso dei sistemi retorico-stilistici. Può, però, darsi che la poesia abbia salvato finora qualcuno o più di uno, in quanto, nei rapporti con la stessa, può accadere di tutto, compreso un miracolo del genere. Ma questo non deve indurre a considerazioni teleologiche né a ragionamenti offensivi della logica formale, del tipo post hoc, ergo propter hoc.
Personalmente, purtroppo, temo che la poesia induca a forti tentazioni, di cui sono lastricate le vie dell’inferno. Tuttavia, non arrivo, come Rimbaud, ad avvicinare le punte di “poesia” e “saisons en enfer”.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

 Nella mia infanzia, trascorsa con i nonni materni al mio paese natale in Irpinia, prediligevo, su tutti gli altri giochi, “Scorciamelone” e “acchiappa-libera’”, che erano giochi di gruppo.
Il primo era una specie di psicodramma collettivo, che coinvolgeva almeno sette-otto partecipanti. Consisteva in una oggettiva rappresentazione di un’azione teatrale. Il protagonista, Scorciamelone (buccia melone), era un crudelissimo tiranno, che risiedeva grosso modo, in Francia, terra di re, regine ed eventi epici. Suo (astuto) antagonista era un personaggio, che si presentava sulla scena nei panni di una gentile pulzella, giunta alla corte del tiranno a liberare una sua sorella, fatta prigioniera da quello e tenuta indistintamente con altre fanciulle in un polposo e variegato, e, comunque, attraentissimo harem. Alla corte, la finta pulzella incantava il tiranno con le sue grazie e i suoi racconti e, quando questo, per impulso di cortesia, le dichiarava la sua disponibilità a concederle qualunque dono, chiedeva di avere una fanciulla dell’harem. Se la fanciulla data dal tiranno era quella giusta, la falsa pulzella l’accettava e se la portava via. Se non era quella giusta, ella la restituiva a Scorciamelone, adducendo motivi vari e chiedeva di averne un’altra. Così, più volte, finché non si arrivava alla scelta giusta. Allora, il gioco terminava.
L’altro gioco, “acchiappa-libera’”, impegnava due squadre contrapposte, rigorosamente di maschietti, di quattro-cinque-sei ciascuna, che si confrontavano in prove di velocità, prontezza di scatti, abilità nel sottrarsi all’acchiappanza o al semplice contatto fisico di ognuno della squadra avversaria. Se si era acchiappati o toccati, si finiva prigionieri degli avversari, in attesa di liberazione da parte dei proprio compagni.
A queste due griglie dense di simboli, di fabulazioni, di finzioni, di performance, di intrecci partecipativi, di spazi aperti a digressioni e rinvii, potrebbe far pensare in controluce la maniera di porsi in essere della mia poesia. Quel suo contattare veloce e reticente la drammaticità e la narratologia, quel suo sapere che si tratta di gioco, impegnativo al massimo sul terreno delle ludicità senza alternative – perché altrimenti si è “out”, al di qua o al di là delle “regole di ingaggio”. Quel suo collocarsi all’interno della storia e del linguaggio di tutti, per liberare qualcuno, qualcosa, magari una parola in attesa, al modo della finta pulzella di “Scorciamelone” o del compagno di squadra di “acchiappa-libera’”.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Errando, discitur. Scrivendo, ho appreso tanto. Innanzitutto, che la scrittura, nelle sue varie manifestazioni ed espressioni, appartiene all’universo sconfinato della letteratura. Che è una cosa in continua espansione e continua mutazione. Proprio, come l’Universo a cui appartengono tutte le nostre galassie.
In particolare, poi, la scrittura poetica, l’ho verificata e riscontrata come un genere letterario specificatamente costituito sulla mimesi dello stato nascente della parola, con l’obiettivo di suggerire il miracolo dell’intreccio di rigore e libertà e, insieme, il ridisegno e la reinvenzione della tradizione, la quale si svolge sul filo della scommessa di un dire che è sempre nuovo.


 Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Il poeta è un medium. E il medium è messaggio/massaggio, ha detto McLuhan. Questa funzione può essere svolta al meglio, quanto più il congegno “poeta” è neutro, ovvero disposto su quello che Roland Barthes ha chiamato il “degré zéro”. Dicevano bene i surrealisti, quando adeguavano il sogno a laboratorio d’invenzione artistica. Chi dorme, infatti, ha interrotto totalmente il rapporto con “la realtà”, la sua realtà quotidiana e diurna. Il poeta è uno che tiene spente le luci (elettriche, del giorno) in camera sua, per attendere a un compito ad alto rischio dell’intercettazione di “fantasime” e della lettura di segni, di figure da decodificare.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Certo, che sì. Che mi piacerebbe citare autori di altissima poesia, che sono nominati universalmente, ma sono tenuti rigorosamente fuori del Parnaso. Penso, per fare qualche nome, a Platone, ad Agostino di Tagaste, a Pascal, a Nietzsche, a Savinio. Purtroppo, ognuno di essi è stato ingessato e mummificato da ricezioni “allotrie”. Platone, per esempio, è finito nelle mani di filosofi e dintorni, Agostino è stato tenuto nei laboratori di mummificazione dei teologi ed ermeneuti affini. L’uno e l’altro, invece, come anche Pascal, Nietzsche, Savinio, sono un mare  di una liquida, ossigenata, genuina, insorgente, insopprimibile poesia, dettata da quello che Platone nella Repubblica chiama il “mithos”.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Non saprei quale dono augurare a un poeta, oggi. Me ne vengono in mente  due, fra loro inconciliabili.
Se penso all’onda montante e travolgente, che minaccia di sommergere il mondo d’oggi e anche quello di domani in un abisso di irrazionalità, di brutalità, di rozzezza, auspicherei che il poeta disponga di un’infinita riserva di autonomia dall’evenemenzialità, per riuscire a vivere nascosto, secondo l’aureo suggerimento di Epicuro.
Se penso futuristicamente e utopicamente alle palingenesi promesse al mondo dal numero e dalla massa, gli augurerei il dono di essere ascoltato e riconosciuto simultaneamente da un miliardo di persone. Il suggerimento mi viene da Majakovskij.


Puoi spiegare, citando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Un giorno, attraversando Piazza Dante a Napoli, mentre andavo al lavoro, mi trovai a recitare a me stesso una composizione di  Wordsworth, che inizia col verso “Happy the man, whose wish and care [a few paternal acres bound]”. L’avevo imparata a memoria in quinta ginnasiale e in seguito non me l’ero più recitata. Tornava integra, col sapore di un tempo, una visione campestre d.o.c., romanticamente sospirosa. Un collega, esperto di lingua e letteratura inglese, dopo avermi osservato, si avvicinò e mi chiese in quali pensieri fossi immerso e perché mai sorridessi tutto solo. Gli riferii la cosa e lui mi spiegò che, per forza, in mezzo a quell’inferno di rumori e di traffici di Piazza Dante, dovessi rifugiarmi tra figure e squarci di paesaggi di serenità.
Era così? Non so. Quando mi ricordo di questa strana esperienza, penso che forse la “madeleine” di Proust mi potrebbe aiutare a capire meglio.
Ma fino a un certo punto. Perché attingere alle fonti delle informazioni prime è solo un bel sogno. Bisogna, infatti, sapersi fermare alle soglie della figuralità che si fenomenologizza. Oltre, si può solo tirare a indovinare.
Guardando à rebours queste ricorrenze e questi affioramenti spontanei della poesia conosciuta e amata da me, devo dire che tanti sono i ritorni, gli svolazzi, i richiami. Un verso, però, in particolare, mi assiste e intriga ed è dell’inizio di un carme oraziano: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi quem tibi // finem di dederint, o Leuconoe, nec temptaris // Babylonios numeros […]”.
In questo inizio, ritrovo e ascolto, come se fosse ogni volta la prima, misure di perfette soluzioni di eleganza e controllo mentale del dire e del pensare, calate in un affettuoso parlare a sé e agli altri. In questo caso, a una fanciulla luminosa dalla “bianca mente”, inquieta e trepida del destino del mondo e delle vicende proprie e altrui,  curiosa di astrologia e di spiegazioni dei misteri della vita alla luce delle scienze e dei saperi (esotici) dell’Oriente. Una fanciulla che affonda lo sguardo oltre le frontiere del proprio tempo e del proprio spazio. Una icona della tensione culturologica, ma plasticamente vivente, deliziosamente provocatoria. A cui, intanto, si può confidare, in tono leggero, un messaggio di saggezza e di umiltà sulla necessità di essere e vivere  definitivamente, unicamente hic et nunc, nella solare consapevolezza della precarietà, della casualità, della fragilità dell’esistenza.
La felicità di intreccio di levigatezza e profondità, il senso del limite (innanzitutto retorico-stilistico), il parlare agli altri per persuadere gli altri / l’altro dentro di noi, la limpidezza dello sguardo, la vastità del respiro, la necessità dell’uso delle singole sillabe, tutto in questa forma mi avvince.




 
In alto: L.H.O.O.Q di Marcel Duchamp [1887-1968]










1 commento:

  1. a Eugenio Lucrezi viene da dire, a proposito di questo colloquio Fresa - Piscopo:

    No comment al dettato, no al testo,
    commento invece voce e proferente:
    dotto spaziente & affabile imprudente.

    Latinorum lentissimo, soave,
    tronchetto intronatissimo offerente
    pomi e dominazioni misti/canti,
    fruttati doni, gliòmmeri intri/canti

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