Mario Fresa
Questionario di poesia (32)
Ugo Piscopo
Qual è il segreto
progetto a cui tende la tua scrittura?
Essere un altro e, insieme, tra gli altri, con gli altri,
per parafrasare un verso di una mia poesia. Questo, il progetto. Costituito, è
ovvio, sul terreno retorico-stilistico. Parlare gli altri in me e parlare l’«altro»
che sono io.
Non so se questo progetto abbia segreti. Certo, un segreto
c’è nel mio dire e nel mio pensare ed esso riguarda le informazioni prime (del
mio dire e del mio fare): da dove mi derivano? Chi è quell’altro che parla in
me?
Come nasce, in te, una poesia?
Una vicenda complessa, spesso tormentata, codesta. Come
vorrei essere assistito da un addetto alla maieutica in tale campo. Da un
Socrate della poesia.
Ma, povero me, ogni volta me la devo vedere da solo. Dopo,
spesso, anzi quasi di norma, me la devo
vedere di nuovo e di nuovo (sempre in lotta) con me. A distanza, talora di
anni. Il che è più penoso.
Come nasce? Per lo
più, a seguito di ricadute dentro me stesso, d’impulso di una qualche “deceptio”,
di una qualche “aegritudo” e grazie a uno stato di “acedia”. Procedo per
suggestioni e appunti, per collazioni, per narrazioni. In ultimo, definisco il
tutto per accenti, sillabe, sticometrie. Quando termino (ovvero mi sembra di
aver terminato), puntualmente trovo che la cosa venuta alla luce è tanto
distante dall’idea che era a monte. E guardo con meraviglia e malinconia i
fiori e i rami che si sono buttati alla luce (o alla notte) tramite il tronco
della mia vita.
Un poeta parla di ciò
che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Il poeta, certo,
parla anche quando non parla. Anzi, quando non dice, dice di più. La parola del
poeta è perennemente in transito. Appartiene e non appartiene a lui, si
confronta e, insieme, si sottrae al confronto con gli altri.
La parola del poeta si nutre di assenza, di lontananza e di
attesa, impossibili nella realtà. Così, quella, che noi chiamiamo “la realtà”,
funziona solo da bordo per il viaggio “en avant” del poeta. Essa è non-poesia,
ingombro, zavorra. O, meglio, agli occhi della poesia, è usurpazione della
realtà, quella vera, che è fatta per la probabilità dell’improbabile, per la
liberazione della libertà.
La poesia è
salvazione?
La salvazione è materia di fede (“soteriologia”), non
riguarda i modi di uso dei sistemi retorico-stilistici. Può, però, darsi che la
poesia abbia salvato finora qualcuno o più di uno, in quanto, nei rapporti con
la stessa, può accadere di tutto, compreso un miracolo del genere. Ma questo non
deve indurre a considerazioni teleologiche né a ragionamenti offensivi della
logica formale, del tipo post hoc, ergo
propter hoc.
Personalmente, purtroppo, temo che la poesia induca a forti
tentazioni, di cui sono lastricate le vie dell’inferno. Tuttavia, non arrivo,
come Rimbaud, ad avvicinare le punte di “poesia” e “saisons en enfer”.
A quale gioco della
tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Nella mia infanzia,
trascorsa con i nonni materni al mio paese natale in Irpinia, prediligevo, su
tutti gli altri giochi, “Scorciamelone” e “acchiappa-libera’”, che erano giochi
di gruppo.
Il primo era una specie di psicodramma collettivo, che
coinvolgeva almeno sette-otto partecipanti. Consisteva in una oggettiva
rappresentazione di un’azione teatrale. Il protagonista, Scorciamelone (buccia
melone), era un crudelissimo tiranno, che risiedeva grosso modo, in Francia, terra di re, regine ed eventi epici. Suo
(astuto) antagonista era un personaggio, che si presentava sulla scena nei
panni di una gentile pulzella, giunta alla corte del tiranno a liberare una sua
sorella, fatta prigioniera da quello e tenuta indistintamente con altre
fanciulle in un polposo e variegato, e, comunque, attraentissimo harem. Alla
corte, la finta pulzella incantava il tiranno con le sue grazie e i suoi
racconti e, quando questo, per impulso di cortesia, le dichiarava la sua
disponibilità a concederle qualunque dono, chiedeva di avere una fanciulla
dell’harem. Se la fanciulla data dal tiranno era quella giusta, la falsa pulzella
l’accettava e se la portava via. Se non era quella giusta, ella la restituiva a
Scorciamelone, adducendo motivi vari e chiedeva di averne un’altra. Così, più
volte, finché non si arrivava alla scelta giusta. Allora, il gioco terminava.
L’altro gioco, “acchiappa-libera’”, impegnava due squadre
contrapposte, rigorosamente di maschietti, di quattro-cinque-sei ciascuna, che
si confrontavano in prove di velocità, prontezza di scatti, abilità nel
sottrarsi all’acchiappanza o al semplice contatto fisico di ognuno della
squadra avversaria. Se si era acchiappati o toccati, si finiva prigionieri
degli avversari, in attesa di liberazione da parte dei proprio compagni.
A queste due griglie dense di simboli, di fabulazioni, di
finzioni, di performance, di intrecci partecipativi, di spazi aperti a
digressioni e rinvii, potrebbe far pensare in controluce la maniera di porsi in
essere della mia poesia. Quel suo contattare veloce e reticente la drammaticità
e la narratologia, quel suo sapere che si tratta di gioco, impegnativo al
massimo sul terreno delle ludicità senza alternative – perché altrimenti si è
“out”, al di qua o al di là delle “regole di ingaggio”. Quel suo collocarsi
all’interno della storia e del linguaggio di tutti, per liberare qualcuno,
qualcosa, magari una parola in attesa, al modo della finta pulzella di
“Scorciamelone” o del compagno di squadra di “acchiappa-libera’”.
Che cosa ti ha
insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Errando, discitur. Scrivendo, ho appreso tanto.
Innanzitutto, che la scrittura, nelle sue varie manifestazioni ed espressioni,
appartiene all’universo sconfinato della letteratura. Che è una cosa in
continua espansione e continua mutazione. Proprio, come l’Universo a cui
appartengono tutte le nostre galassie.
In particolare, poi, la scrittura poetica, l’ho verificata e
riscontrata come un genere letterario specificatamente costituito sulla mimesi
dello stato nascente della parola, con l’obiettivo di suggerire il miracolo
dell’intreccio di rigore e libertà e, insieme, il ridisegno e la reinvenzione
della tradizione, la quale si svolge sul filo della scommessa di un dire che è
sempre nuovo.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento
di un poeta?
Il poeta è un medium. E il medium è messaggio/massaggio, ha
detto McLuhan. Questa funzione può essere svolta al meglio, quanto più il
congegno “poeta” è neutro, ovvero disposto su quello che Roland Barthes ha
chiamato il “degré zéro”. Dicevano bene i surrealisti, quando adeguavano il
sogno a laboratorio d’invenzione artistica. Chi dorme, infatti, ha interrotto
totalmente il rapporto con “la realtà”, la sua realtà quotidiana e diurna. Il
poeta è uno che tiene spente le luci (elettriche, del giorno) in camera sua,
per attendere a un compito ad alto rischio dell’intercettazione di “fantasime”
e della lettura di segni, di figure da decodificare.
Vorresti citare un
poeta da ricordare e da rivalutare?
Certo, che sì. Che mi piacerebbe citare autori di altissima
poesia, che sono nominati universalmente, ma sono tenuti rigorosamente fuori
del Parnaso. Penso, per fare qualche nome, a Platone, ad Agostino di Tagaste, a
Pascal, a Nietzsche, a Savinio. Purtroppo, ognuno di essi è stato ingessato e
mummificato da ricezioni “allotrie”. Platone, per esempio, è finito nelle mani
di filosofi e dintorni, Agostino è stato tenuto nei laboratori di
mummificazione dei teologi ed ermeneuti affini. L’uno e l’altro, invece, come
anche Pascal, Nietzsche, Savinio, sono un mare
di una liquida, ossigenata, genuina, insorgente, insopprimibile poesia,
dettata da quello che Platone nella Repubblica
chiama il “mithos”.
Qual è il dono che
augureresti a un poeta, oggi?
Non saprei quale dono augurare a un poeta, oggi. Me ne
vengono in mente due, fra loro
inconciliabili.
Se penso all’onda montante e travolgente, che minaccia di
sommergere il mondo d’oggi e anche quello di domani in un abisso di
irrazionalità, di brutalità, di rozzezza, auspicherei che il poeta disponga di
un’infinita riserva di autonomia dall’evenemenzialità, per riuscire a vivere
nascosto, secondo l’aureo suggerimento di Epicuro.
Se penso futuristicamente e utopicamente alle palingenesi
promesse al mondo dal numero e dalla massa, gli augurerei il dono di essere
ascoltato e riconosciuto simultaneamente da un miliardo di persone. Il
suggerimento mi viene da Majakovskij.
Puoi spiegare,
citando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Un giorno, attraversando Piazza Dante a Napoli, mentre
andavo al lavoro, mi trovai a recitare a me stesso una composizione di Wordsworth, che inizia col verso “Happy the
man, whose wish and care [a few paternal acres bound]”. L’avevo imparata a
memoria in quinta ginnasiale e in seguito non me l’ero più recitata. Tornava
integra, col sapore di un tempo, una visione campestre d.o.c., romanticamente
sospirosa. Un collega, esperto di lingua e letteratura inglese, dopo avermi
osservato, si avvicinò e mi chiese in quali pensieri fossi immerso e perché mai
sorridessi tutto solo. Gli riferii la cosa e lui mi spiegò che, per forza, in
mezzo a quell’inferno di rumori e di traffici di Piazza Dante, dovessi
rifugiarmi tra figure e squarci di paesaggi di serenità.
Era così? Non so. Quando mi ricordo di questa strana
esperienza, penso che forse la “madeleine” di Proust mi potrebbe aiutare a
capire meglio.
Ma fino a un certo punto. Perché attingere alle fonti delle
informazioni prime è solo un bel sogno. Bisogna, infatti, sapersi fermare alle
soglie della figuralità che si fenomenologizza. Oltre, si può solo tirare a
indovinare.
Guardando à rebours
queste ricorrenze e questi affioramenti spontanei della poesia conosciuta e amata
da me, devo dire che tanti sono i ritorni, gli svolazzi, i richiami. Un verso,
però, in particolare, mi assiste e intriga ed è dell’inizio di un carme
oraziano: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi quem tibi // finem di
dederint, o Leuconoe, nec temptaris // Babylonios numeros […]”.
In questo inizio, ritrovo e ascolto, come se fosse ogni
volta la prima, misure di perfette soluzioni di eleganza e controllo mentale
del dire e del pensare, calate in un affettuoso parlare a sé e agli altri. In
questo caso, a una fanciulla luminosa dalla “bianca mente”, inquieta e trepida
del destino del mondo e delle vicende proprie e altrui, curiosa di astrologia e di spiegazioni dei
misteri della vita alla luce delle scienze e dei saperi (esotici) dell’Oriente.
Una fanciulla che affonda lo sguardo oltre le frontiere del proprio tempo e del
proprio spazio. Una icona della tensione culturologica, ma plasticamente
vivente, deliziosamente provocatoria. A cui, intanto, si può confidare, in tono
leggero, un messaggio di saggezza e di umiltà sulla necessità di essere e
vivere definitivamente, unicamente hic et nunc, nella solare consapevolezza
della precarietà, della casualità, della fragilità dell’esistenza.
La felicità di intreccio di levigatezza e profondità, il
senso del limite (innanzitutto retorico-stilistico), il parlare agli altri per
persuadere gli altri / l’altro dentro di noi, la limpidezza dello sguardo, la
vastità del respiro, la necessità dell’uso delle singole sillabe, tutto in
questa forma mi avvince.
In alto: L.H.O.O.Q
di Marcel Duchamp [1887-1968]
a Eugenio Lucrezi viene da dire, a proposito di questo colloquio Fresa - Piscopo:
RispondiEliminaNo comment al dettato, no al testo,
commento invece voce e proferente:
dotto spaziente & affabile imprudente.
Latinorum lentissimo, soave,
tronchetto intronatissimo offerente
pomi e dominazioni misti/canti,
fruttati doni, gliòmmeri intri/canti