Anna Belozorovitch
È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme
e una sorta di extrarealtà, evocata
da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una
scrittura straordinaria?
Più che possibile, è altamente desiderabile.
Direi quasi che è la massima aspirazione, quella di essere “mediatori” di
questo tipo. O anche traduttori. Perché se i due universi hanno bisogno di uno
speciale collegamento per essere comunicanti, hanno anche bisogno di un
linguaggio. Il linguaggio del poeta non è universale perché non è
universalmente condiviso da tutti, né perennemente mantenuto da lui stesso. Ma
se in un attimo la comunicazione avviene, se in una determinata combinazione di
condizioni si apre il contatto e le parole prendono vita così come nascono
nella mente di chi scrive, è motivo di gioia e di commozione, perché
immediatamente l’universo si rivela incredibilmente più vasto.
Che cosa caratterizza la tua scrittura
poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti
arrivasse, ad illuminare?
In teoria, la scrittura di una persona non
potrebbe illuminare più di quanto lei stessa vede. Ma non è così. La parola ha
qualcosa di autonomo, e guida chi la “guida”; tante volte decide lei cosa e
come illuminare, ma, soprattutto, fa vedere a chi scrive qualcosa che prima
non appariva illuminato. Di più: illumina per altri ciò che chi scrive non
riesce a riconoscere, nemmeno dopo. Quindi, ritengo non sia possibile giudicare
la propria scrittura, e di certo non è possibile sapere fino a dove illumini
veramente. Anche nel mondo materiale quello che abbiamo la capacità di cogliere con
l’occhio non corrisponde lontanamente a quello che è effettivamente
“illuminato”, o raggiunto dalla luce.
Il poeta è uno che gioca con gli specchi,
tentando di catturare, casualmente, il giusto incontro di raggi. È una sorta
di stadio precedente alla scienza.
Secondo te a cosa serve la poesia in questi
tempi moderni? Qual è il suo ruolo?
Per me, la poesia risponde ad una sorta di
bisogno impellente che non trova completa soddisfazione altrimenti: quello di
sincerità, o di verità. La poesia lascia il linguaggio libero di assomigliare
quanto più possibile al proprio significato. La ricerca, per me, è questa. Dire
quello che si vuole è qualcosa di tecnicamente difficilissimo nella vita reale.
Per quanto riguarda coloro che non scrivono ma leggono poesia, penso che il
desiderio non sia molto diverso: la ricerca del significato. Il significato
puro è una sorta di chimera irraggiungibile, ma quando lo si sfiora, o si
intravvede da lontano, il sentimento è quello della commozione (che non a caso
ho menzionato nella prima risposta). E la commozione avviene quando c’è
riconoscimento, un riconoscimento individuale, consapevole di essere
condiviso. La poesia è molto più grande di chi prova a scriverla o chi tenta
di leggerla, e non dipende dal fatto che qualcuno ne abbia bisogno: qualcuno
ci si affaccerà sempre, anche involontariamente, e proverà le stesse
sensazioni.
Anna
Belozorovitch
è nata a Mosca nel 1983 e ha vissuto tra il Portogallo e l’Italia, dove risiede
stabilmente dal 2004. Scrive da sempre, prima in russo, poi in lingua portoghese,
e successivamente in quella italiana, ora diventata la sua lingua principale.
In poesia, ha pubblicato le raccolte Anima
Bambina (Besa, 2005), L’Uomo alla
Finestra (Besa, 2007), Cinque Passi
(Greta Edizioni, 2008), Gioventù
(Centro Studi Tindari Patti, 2010).
E-mail: anna.belozorovitch@tiscali.it
Troppo
in fretta, ed è freddo.
E
il cielo bianco tiene fermi
come
fantocci al fil di ferro.
Tremanti
e rigidi, si pensa;
Il
tempo piange ma non passa.
Il
freddo è tempo di pensare.
Ma
il cielo bianco prende anche
Porta
lo sguardo in mare aperto,
Ferma
il pensiero e apre il petto.
E,
freddo vortice, agita dentro,
Ruba,
glaciale, luce gialla,
Quella
che del calore resta.
Attiva
l’occhio e il momento,
Trasforma
sogni vuoti in peltro,
Cambia
la gente, novembre argento.
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