Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

giovedì 30 agosto 2012



 Andrea Bonanno per Vincenzo Gasparro




Avvince subito della silloge poetica dal titolo “A che servono le rose” di Vincenzo Gasparro, edita di recente da L’Arca Felice di Salerno con uno scritto introduttivo di Vincenzo Di Oronzo e dipinti di Sofia Rondelli, l’alto input di immagini poetiche che si libera da una struttura di base che favorisce riflessioni e proiezioni del sentimento su impellenti problematiche metafisiche.
Immagini intense legate a folgorazioni dell’attimo solcano incessanti la coscienza del poeta, rivelando un aspetto duale ed oppositivo di uno stesso oggetto in senso metaforico e simbolico, sullo sfondo dei segni di una malinconia impietosa che sembra impietrire la realtà, ma che si attenua fino ad essere sommersa dall’incalzare delle mille voci della bellezza e dell’incanto della natura, anche se l’io del poeta rivive in ogni istante la drammaticità del trascorrere eracliteo di essi, disponendosi a quell’eterna interrogazione sui dilemmi “tempo-eternità”, “mutabilità-assoluto”, sentendone lo sbigottimento, come enigmi dell’arcano e dell’invisibile.
La cristallizzazione dell’esistente accumula così nell’anima del poeta un’acuta tensione che lo sollecita a ricercare e a svelare della condizione umana qualche barlume della sua essenza spirituale e della sua verità metatemporale. Nel venire scongiurato il tempo registrato meccanicamente, la coscienza è chiamata a scandire il tempo e lo spazio di ciò che proviene dall’esterno e dal profondo dell’io in una interrelazione sincronica e commisurativa che possa rivelare qualche barbaglio di luce e di verità. La staticità petrosa del reale origina così, in una vissuta durata dell’evento esistenziale, un nuovo reale, le cui  fascinazioni fugaci della bellezza stridono contrapponendosi alle voci che riverberano i segni della morte. Sullo sfondo di una Messapia, assunta dall’immaginazione e coscienza del poeta con l’interrelarsi dei suoi eventi passati e presenti, delle sue piante e fiori, e delle figure ed affetti rimemorati, il poeta, con la sofferenza di ogni uomo di oggi, segnato dai turbamenti della schisi e dalla ricorrente paura della morte, ricerca una risposta ai cruciali enigmi dell’esistenza.
Di fronte alla consapevole ambivalenza dell’esistente, aleggiano nel libro le molteplici suggestioni sentimentali tese al ripristino di un’infanzia innocente, le allusioni e i sogni di un’altra vita, i vari prodigi di una natura estasiante, le cui voci sembrano comunicare il loro inappagato desiderio di poter sfuggire alla desolazione della morte, e, soprattutto, la speranza della prospettazione di una vita spirituale più vera nel presente.  La poesia del Gasparro, densa di confessate amarezze e di un intenso amore verso la vita, registra solitudini e dolori, in contrapposizione al tripudio dei colori del suo “quieto paese” (p. 13), gli spensierati e ignari volteggi del merlo sulla “torre orlata”, il nocchiero che abbandona la nave e l’inutilità di un monocorde orologio incapace di “scrutare lontano” e di rivelare un’esile goccia di verità.
Nel darsi ossimorico dell’esistenza, i ricordi dell’avvenenza di lei e “La chioma del faggio sfavillante”, nella luce del mattino, dilatano attimi di malinconia per la loro apparizione subito dissoltasi, mentre la riflessione prolunga i suoi momenti analitici sul destino o, a “pensare e ripensare il tempo logoro consumato”, che ha fatto svanire per sempre i momenti più belli di “quell’amore disperso tra/ i profumi delle arance e i fiori del gelso” (p. 14). Suggestiva e densa di un’irrefrenabile angoscia è la poesia di pagina 15, che denuncia l’imperante alienazione della società attuale, che vive ormai di realtà virtuali dominate dalla menzogna e dalla simulazione: “… In piazza Duomo De Dominicis / nella frenesia ha deposto le ossa ci attende / lo sterminio simbolico della mostruosa / Calamita Cosmica ma tutto scorre infelice / nell’apparenza del piacere sulle guglie / s’è arroccato il dolore del mondo”1. Un dolore che continua a palpitare insistentemente nell’anima fino a originare nel sonno dei terribili incubi, con il ritrovarsi “sul dorso della collina / fra scheletri nel querceto e un cielo / dolente / La poesia, mi dissi, è il racconto che ci portiamo dentro della morte” (p. 16). Toccante, per l’elevata sensibilità di un autentico poeta, è la poesia sulla morte, che “arriva dall’ombra” di pagina 19, in cui alla vitalità gioiosa delle rondini, che nel cielo “disegnano / geometrie di vento e aria”, si contrappone quell’urlo e quello sguardo “posato sullo specchio rotto”.
Versi intensi sono inoltre dedicati alla Poesia che ci “svela i segreti” e che “si fa figura delle contraddizioni”, ma che può “cantare il fascino / della notte e la calda calma del mare blu / aizzando la mente ai sogni e al caso” (p. 23) e che fa parlare perfino il silenzio notturno, che “scopre la verità” e fa incontrare l’io con se stesso e, soprattutto, fa  sentire gli sguardi degli innocenti morti a causa della nostra indifferenza disumana. Altre suggestive e soavi immagini poetiche si riscontrano in molte liriche che tendono al voler delucidare aspetti e disarmonie della condizione umana e, nel contempo, i sogni più intimi ed impellenti riguardanti la prospettazione di una più elevata spiritualità dell’identità umana.
E’ una poesia, quella del Gasparro, mostrante una soave grazia ed un’alta intensità poetica, che sfugge alle fatue suggestioni del canto contemplativo, ai sortilegi-trappola degli “eterni ritorni” in un passato mitico improponibile in quanto nega all’io di poter agire nel presente2, e agli usurati rapporti intercorrenti fra l’io e il reale, per via di quelle potenzialità  commisurative dell’ io precario (che è quello ormai di tutti),  che non vive più di sensazioni irrelate, ma che si rivela attivo nella molteplicità simultanea della vita interiore, per il suo intuitivo verificarsi ai dati esistenziali, senza schemi preordinati.
In tale senso, la poesia gasparriana, aderendo ad una poetica del “caos in travaglio” e della “durata reale”, diviene un inventario di interrelazioni e di acquisizioni miranti allo svelamento di spazi e sollecitazioni nuove connesse alla fondazione di una inedita formulazione di una più spirituale identità dell’uomo. Ciò che è essenziale della poesia del Gasparro è quel tono innovativo del guardare e dell’essere guardati3, cioè quel commisurare aspetti delle cosalità reali con i suoi sentimenti e le sue visioni proiettive, che ritornano dal “son double”, come delle commisurazioni che interrogano l’io del poeta. E’ quell’ “Indomabile sguardo che cerca / altri mondi in questo”, per dirla con Cesare Viviani, è quel valore attribuito ad inesausta commisurazione della sua anima e del suo sentimento che ricercano gli spiragli per un altrove di purezza e di candore.
Tutto è perfetto nel suo limite, afferma il poeta, in quanto la vita, seppure condizionata a livello biologico dal male e dalla morte, pur tuttavia lascia indeterminabile la volontà dell’uomo di poter aspirare alla prospettazione di nuove forme di vita spirituale e ad una nuova identità4, intenzionando il mondo delle essenze (le forme ideali o nuovi valori). Per questa ragione, il poeta non può dire altro che “tutto ci rimanda alla perfezione più grande” (p. 25), quando “l’anima precipita per ogni dove / e i quadranti temporali sono sghembi” (p. 26). Una silloge avvincente, dunque, che respira di una soave grazia e di un’intensità poetica notevole, nel cantare l’amore per la vita e il sogno di una palingenesi spirituale dell’anima dell’uomo, identificabile forse nel tentativo di sublimare l’io soggettivo di ognuno in un grande Sé di tanti io fraternizzati e solidali, miranti a espletare inediti e più alti valori umani e poetici.

                                                                                                     Andrea BONANNO

Note –

1.      Gino De Dominicis, nato ad Ancona nel 1947 e morto a Roma nel 1998, fra le tante opere è autore di uno smisurato scheletro umano di ben 24 metri, largo 9 e alto quasi 4, disteso sul suolo, caratterizzato da un lungo naso e da un’asta dorata puntata sul dito indice della mano destra, punto in cui confluisce l’energia del corpo da indirizzare ed accordare a quella siderale,  dal titolo “Calamita Cosmica”(Gesso, polistirolo, resina sintetica, anima in ferro e collante vinilico). L’opera, composta nel 1989, espressa nel linguaggio artistico della presentazione metonimica e  mostrante la terribilità della dissoluzione del corpo operata dalla morte, neutralizzando le dimensioni spazio-temporali, mira all’affermazione dell’immortalità del corpo. L’artista con quest’opera presenta l’ipotetica possibilità di far interagire l’energia psichica del corpo con i segni dell’eterno, ma ribatte Nicolas Bourriaud che “la spiritualità di De Dominicis non si dà mai veramente come una trascendenza, anche se ne prende a prestito le forme” (in Flash Art, n. 156, giugno-luglio 1990, p. 115). E, continua con il dire che “De Dominicis ci offre lo spettacolo tragico della nostra impossibilità di afferrare i segni dell’immortalità” (p. 117). Di certo l’opera riesce ad accendere una esile fiammella di spiritualità: quella consistente nel “tentativo eroico”, a detta di I. Tomassoni, ma non mistico secondo noi, a detta di altri critici, di voler uscire dai letali effetti e dalle negatività (i mali e la corruttibilità del corpo) della vita e da un feroce apparato tecnologico alienante per la salvaguardia dell’unitarietà della coscienza e del medesimo destino dell’uomo.
2.      In tal senso, afferma il poeta, che “…dobbiamo perdere la memoria / e il desiderio del ritorno all’isola di pietra” (p. 23).
3.      Si noti che nella poesia di pagina 24, viene espresso il tema degli sguardi degli altri che interrogano la nostra anima: “Ci fissano gli sguardi e interrogano / la nostra crudeltà”.
4.      Lo stesso poeta scrive, a pagina 11, che “L’io è frantumato e rivendica una teologia nuova. Il poeta, oggi, più che mai, deve ripartire dalla storia, a cominciare dalla propria biografia per approdare a un senso altro”.




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