Francesco
De Girolamo
Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.
È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme
e una sorta di extrarealtà, evocata
da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una
scrittura straordinaria?
L’extrarealtà evocata da Novalis si
ricollega alle origini della poesia, io credo, agli “aedi” che, nella parola e
nel canto, medianicamente, attingevano a una lettura “ulteriore”, della storia
di un popolo, dell’uomo, al suo destino, alla volontà divina che da esso, e
con esso, profetizzavano. Nella nostra presente realtà, il poeta, immerso
inevitabilmente nel fattuale, non può non puntare ad un’umile ma indefettibile
mediazione con “l’Assoluto”; per tornare a Novalis, il poeta, attraverso il suo
rapporto peculiare con il linguaggio e il suo mistero, autonomo da ogni altra
legge di rigida correlazione con il presunto reale immanente, proprio come le
intuizioni delle formule delle proprietà matematiche, che configurano, in
astratto, le meraviglie di un mondo a sé, può puntare a rivelare, a
intravedere l’emisfero nascosto dell’anima del mondo.
Che cosa caratterizza la tua scrittura
poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti
arrivasse, ad illuminare?
Non ho una grande conoscenza della teoria
dei quanti di luce, ma, per quanto ne so, mi sembra un’efficace metafora per
raffigurare la dinamica che l’espressione poetica potrebbe operare sulla realtà
con la quale viene in contatto. La mia poesia è infatti costruita su una
costante ricerca di trasmissione di luce e calore, che spero arrivi “su dei corpi”,
nella migliore delle ipotesi, costruendo “lavoro”, con le sue particelle in
“propagazione”, e che le sue frequenze non debbano, invece, confluire in
un’entropia sempre più avvolgente. La poesia è nell’universo, forse, più che
sulla terra, ma deve ricadere, se non è sterile astrazione, sulle minuscole
parti del creato, della realtà sensibile, che sono gli uomini, i suoi atomi
cerebrali, quelli che, con semplificazione tanto più ingenua, quanto più vera,
si è sempre indicato come “il suo cuore”, di cui la scrittura poetica più
autentica, e spero, a volte, anche la mia, può forse riuscire a rischiarare gli
abissi.
Secondo te a cosa serve la poesia in questi
tempi moderni? Qual è il suo ruolo?
La poesia è, come del resto tutta la
letteratura, legata ai suoi tempi, risente delle idee, delle tendenze e anche
del disagio storico e civile che le è, spesso, contemporaneo. Solitamente è
ritenuta una forma di comunicazione emotiva, la cui codificazione dei
significati corrisponde a simboli e sono molteplici le sue interpretazioni. Sicuramente si tratta di una forma di
comunicazione evocativa, che, eminentemente, si esprime attraverso tutta una
serie di sovrastrutture concettuali ben differenti da quelle del linguaggio
comune.
La
nostra società odierna, che tanto vive di immagini sintetiche e di
coinvolgimenti effimeri, sembra rifuggire tutto ciò che sia astratto, denso,
profondo, reputandolo quasi improduttivamente difficile e scomodo. Questo
aggrava ancor più il problema, per la scrittura poetica, del suo già minimo,
marginale mercato.
Gli editori hanno inevitabilmente bisogno di
garantirsi un ritorno economico, come avviene per tutte “le merci”, compresa la
cultura, e la poesia oggi, per la sua natura tanto “elitaria”, suo malgrado, e
di nicchia, non si presta a divenire in alcun modo un prodotto di consumo.
Pertanto, “il lavoro” del poeta dovrebbe oggi trovare nuo-vi spazi
d’espressione, nuovi canali, ma deve soprattutto potersi sostenere e
corroborare del coraggio e della fiducia di chi lo esercita con assoluta
dedizione ed onestà intellettuale; e di chi, nel suo ambito, con lo stesso
spirito vocazionale, opera, a diversi livelli: critico, editoriale, di
mediazione culturale, nella scuola, nei media, nella diffusione attraverso
manifestazioni e letture pubbliche, ormai sempre più essenziali a garantire un
minimo storico, comunque da difendere, di visibilità e di ascolto.
FUORI DOMINIO
Nel mio silenzio
attendo la risposta
che nessuna domanda
ha mai invocato.
Io la udii quando
niente distoglieva
il mio senso più
tardo ed annebbiato,
quello che alla
parola è assoggettato,
dal dominio del
segno dell’idea.
È l’unica incertezza
che mi resta:
è lei che prende
me, per interposta
speranza che si
schiuda la mia sola
risorsa di capire,
già prima di sentire,
fino in fondo,
l’offesa che consola.
O forse una carezza
per ferire.
Francesco De Girolamo è nato a Taranto,
ma vive a Roma, dove, oltre che di poesia, si occupa di teatro, come autore e
regista.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Piccolo libro da guanciale (Dalia
Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; La lingua degli angeli (Edizioni del Leone, 1997); Nel nome dell’ombra (Ibiskos Editrice,
1998) con una nota critica di Gino Scartaghiande; La radice e l’ala (Edizioni del Leone, 2000) con prefazione di Elio
Pecora; Fruscio d’assenza - Haiku
della quinta stagione (Gazebo Libri, 2009); e Paradigma (LietoColle, 2010) con introduzione di Giorgio
Linguaglossa.
È presente nelle antologie: Poesia dell’esilio (Arlem Edizioni,
1998), Poesia degli anni ‘90 (Scettro
del Re, 2000), Haiku negli anni
(Empiria, 2005), e Calpestare l’oblio
(Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza
della memoria repubblicana, 2010).
Si
sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: «Poesia»,
«Folium», «Poiesis», «LaRecherche.it» e «Atelier».
E-mail: degirolamo2@yahoo.it
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