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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

lunedì 27 febbraio 2012

Francesco De Girolamo

 Francesco De Girolamo

 Intervista a cura di Roberto Maggiani tratta da Quanti di poesia edizioni L'Arca Felice.
 
 

   È possibile pensare ai poeti come a mediatori tra la realtà che si evidenzia nelle forme e una sorta di extrarealtà, evocata da Novalis quando afferma che nelle forme v’è la cifra nascosta di una scrittura straordinaria?

   L’extrarealtà evocata da Novalis si ricollega alle origini della poesia, io credo, agli “aedi” che, nella parola e nel canto, medianicamente, attingevano a una lettura “ulteriore”, della storia di un popolo, dell’uomo, al suo destino, alla volontà divina che da esso, e con esso, profetizzavano. Nella nostra presente realtà, il poeta, immerso inevitabilmente nel fattuale, non può non puntare ad un’umile ma indefettibile mediazione con “l’Assoluto”; per tornare a Novalis, il poeta, attraverso il suo rapporto peculiare con il linguaggio e il suo mistero, autonomo da ogni altra legge di rigida correlazione con il presunto reale immanente, proprio come le intuizioni delle formule delle proprietà matematiche, che configurano, in astratto, le meraviglie di un mondo a sé, può puntare a rivelare, a intravedere l’emisfero nascosto dell’anima del mondo.

   Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, se la tua poesia fosse un quanto di luce, da quali atomi del reale salirebbe? Fin dove arriva, o vorresti arrivasse, ad illuminare?

   Non ho una grande conoscenza della teoria dei quanti di luce, ma, per quanto ne so, mi sembra un’efficace metafora per raffigurare la dinamica che l’espressione poetica potrebbe operare sulla realtà con la quale viene in contatto. La mia poesia è infatti costruita su una costante ricerca di trasmissione di luce e calore, che spero arrivi “su dei corpi”, nella migliore delle ipotesi, costruendo “lavoro”, con le sue particelle in “propagazione”, e che le sue frequenze non debbano, invece, confluire in un’entropia sempre più avvolgente. La poesia è nell’universo, forse, più che sulla terra, ma deve ricadere, se non è sterile astrazione, sulle minuscole parti del creato, della realtà sensibile, che sono gli uomini, i suoi atomi cerebrali, quelli che, con semplificazione tanto più ingenua, quanto più vera, si è sempre indicato come “il suo cuore”, di cui la scrittura poetica più autentica, e spero, a volte, anche la mia, può forse riuscire a rischiarare gli abissi.

   Secondo te a cosa serve la poesia in questi tempi moderni? Qual è il suo ruolo?

   La poesia è, come del resto tutta la letteratura, legata ai suoi tempi, risente delle idee, delle tendenze e anche del disagio storico e civile che le è, spesso, contemporaneo. Solitamente è ritenuta una forma di comunicazione emotiva, la cui codificazione dei significati corrisponde a simboli e sono molteplici le sue interpretazioni.  Sicuramente si tratta di una forma di comunicazione evocativa, che, eminentemente, si esprime attraverso tutta una serie di sovrastrutture concettuali ben differenti da quelle del linguaggio comune.
   La nostra società odierna, che tanto vive di immagini sintetiche e di coinvolgimenti effimeri, sembra rifuggire tutto ciò che sia astratto, denso, profondo, reputandolo quasi improduttivamente difficile e scomodo. Questo aggrava ancor più il problema, per la scrittura poetica, del suo già minimo, marginale mercato.
   Gli editori hanno inevitabilmente bisogno di garantirsi un ritorno economico, come avviene per tutte “le merci”, compresa la cultura, e la poesia oggi, per la sua natura tanto “elitaria”, suo malgrado, e di nicchia, non si presta a divenire in alcun modo un prodotto di consumo. Pertanto, “il lavoro” del poeta dovrebbe oggi trovare nuo-vi spazi d’espressione, nuovi canali, ma deve soprattutto potersi sostenere e corroborare del coraggio e della fiducia di chi lo esercita con assoluta dedizione ed onestà intellettuale; e di chi, nel suo ambito, con lo stesso spirito vocazionale, opera, a diversi livelli: critico, editoriale, di mediazione culturale, nella scuola, nei media, nella diffusione attraverso manifestazioni e letture pubbliche, ormai sempre più essenziali a garantire un minimo storico, comunque da difendere, di visibilità e di ascolto.

FUORI DOMINIO

Nel mio silenzio attendo la risposta
che nessuna domanda ha mai invocato.
Io la udii quando niente distoglieva
il mio senso più tardo ed annebbiato,
quello che alla parola è assoggettato,
dal dominio del segno dell’idea.

È l’unica incertezza che mi resta:
è lei che prende me, per interposta
speranza che si schiuda la mia sola
risorsa di capire, già prima di sentire,
fino in fondo, l’offesa che consola.
O forse una carezza per ferire.





   Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive a Roma, dove, oltre che di poesia, si occupa di teatro, come autore e regista.
   Ha pubblicato le raccolte poetiche: Piccolo libro da guanciale (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; La lingua degli angeli (Edizioni del Leone, 1997); Nel nome dell’ombra (Ibiskos Editrice, 1998) con una nota critica di Gino Scartaghiande; La radice e l’ala (Edizioni del Leone, 2000) con prefazione di Elio Pecora; Fruscio d’assenza - Haiku della quinta stagione (Gazebo Libri, 2009); e Paradigma (LietoColle, 2010) con introduzione di Giorgio Linguaglossa.
   È presente nelle antologie: Poesia dell’esilio (Arlem Edizioni, 1998), Poesia degli anni ‘90 (Scettro del Re, 2000), Haiku negli anni (Empiria, 2005), e Calpestare l’oblio (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana, 2010).
    Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: «Poesia», «Folium», «Poiesis», «LaRecherche.it» e «Atelier».
   E-mail: degirolamo2@yahoo.it




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