Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

sabato 11 febbraio 2012

Giovanna Fozzer


   In  Sette lettere a Enzo di Giovanna Fozzer la parola poetica nasce, scrive  l’Autrice, «da lunghi silenzi e segreti percorsi» dove risuonano «pensieri in dialogo con un amato perduto»; qui trova eco «un capire che forse solo la morte, l’assenza irrimediabile, consente». Una poesia, questa, lucidissima e tesa, capace di esprimere un’intensa, verticale indagine sui misteriosi percorsi dell’anima, interrogati e rivissuti quasi in  ansiosa ricerca di luce e di risposte.


              Giovanna Fozzer è scrittrice, saggista, critico e traduttrice nel campo della mistica speculativa. Sua la versione dal tedesco barocco de Il pellegrino cherubico di Angelus Silesius (1989/2004). All’esperienza del tradurre Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete (1994/1999/2003) si lega la sua narrazione Nello specchio di Margherita (2001), biografia immaginaria di Margherita Porete. Come poeta Fozzer è presente in varie antologie, tra cui Nostos a cura di F. Manescalchi (1997), Poesie di Dio a cura di E. Bianchi (1999), Così pregano i poeti a cura di G. Ladolfi (2001). Le sue più recenti raccolte sono Repertorio d’infinito e Poemetto dei bambini (2006 e 2008). Ha portato alle stampe un grande poeta calabrese, Enzo Agostino (Gioiosa Jonica 1937-2003), studiandone sia la poesia in lingua sia quella in calabrese gioiosano, e continua a promuoverne la conoscenza con vari altri studiosi.


 
Giovanna Fozzer: Sette lettere a Enzo
POGGIO PRATONE COME IL MONT VENTOUX
di Rossano Onano

   Pensieroso e sportivo, Francesco Petrarca scala il Mont Ventoux, osserva il paesaggio sottostante, Rhodanus ipse sub oculis nostris erat, e inaugura l'uomo moderno sostituendo alla pretesa visione oggettiva del mondo i dubbi e le inquietudini dell'analisi introspettiva: spectaculo liberiore permotus, in me ipsum interiores oculos reflexi. Dal più domestico Poggio Pratone, dal quale mi dicono si osserva la visione di Firenze, Giovanna Fozzer compie la medesima operazione (Sette lettere a Enzo, Edizioni l'Arca Felice, 2009). La comparazione mi viene per associazione mentale inconscia, della quale sempre mi fido. Non si tratta di sapere se l'associazione sia esatta o gratuita; l'inconscio, in quanto tale, è legittimato ad essere, indipendentemente dal suo fondamento razionale.  Quando compare, e si registra, è tuttavia doveroso provare a spiegarlo razionalmente.
   Il carteggio epistolare in poesia di Giovanna Fozzer è indirizzato ad Enzo Agostino, grande e schivo poeta calabrese (Gioiosa Jonica 1937-2003), portato alle stampe dalla stessa Giovanna. La produzione di Agostino comprende due titoli: Coccia nt'o' gramoni (Edizioni Polistampa, 2003) e, postumo, Inganni del tempo (Idem, 2004). Nel maggio 2008 il poeta di Gioiosa Jonica è stato celebrato da un convegno di studiosi organizzato ad Arcavacata di Rende dall'Università della Calabria, a quanto ho capito essendo la stessa Fozzer motrice principale dell'iniziativa. Gli atti del Convegno sono raccolti in volume a cura di un giovane studioso, Francesco Piluso (Per Enzo Agostino, Edizioni Polistampa, 2009).  
   Del forte legame intellettuale ed emotivo che legava Giovanna ad Enzo posso riferire per esperienza diretta. La Fozzer era presente a un convegno calabrese organizzato da Francesco Graziano per “Il Filorosso”, non ricordo l'anno ma Enzo Agostino era scomparso da poco. Giovanna raccontava d'essere impegnata nella raccolta del materiale inedito lasciato dall'amico. Ascoltava tutti i relatori con interesse e cortesia, tornando poi sull'unico argomento per lei vitale in quel periodo, come dire che tutti i convenuti erano degni d'attenzione, però insomma Enzo Agostino era un'altra cosa.
   Con Sette lettere a Enzo Giovanna propone tre differenti relazioni dialettiche: la prima, puramente fittizia dal momento che il destinatario del messaggio non è in grado di ascoltare, è la relazione Fozzer/Agostino; la seconda, connaturata all'atto stesso di scrivere toccando la corda dei sentimenti ovvero dell'ascolto di sé, è la relazione Fozzer/Fozzer; la terza, implicita nella destinazione del messaggio al pubblico, è la relazione Fozzer/consorzio umano.

   La relazione Fozzer/Agostino.  Il dialogo con una persona cara e defunta procede, da sempre, così: chi ricorda parla; chi è ricordato risponde con le frasi pronunciate in vita, che la memoria del  ricordante ripete. Giovanna accarezza le espressioni verbali dell'amico: tu dicevi così, si ricorda e gli ricorda, citando le frasi di Enzo relative al senso della vita e del tempo. Il male non è lo scorrere del tempo, dice Giovanna perché così Enzo diceva, il male è il tempo agglomerato nella clessidra, il tempo che non scorre. E tu invece, Enzo, conoscevi il senso diacronico del tempo, dalla bellezza classica alla perfetta gioventù di qualunque dio greco, fino al tempo dell'oggi che è già premonizione del tempo di domani che non ci sarà, il tempo della clessidra vuota. Nella splendida lettera 5 (COLCHICI) il senso della relazione fra i due consiste in un patto di comunione intellettuale ed etica: l'auto condanna volitiva ad una percezione ragionata, un “non lasciarsi completamente andare” come condizione per essere, veramente, “padroni” della percezione. Giovanna Fozzer, per come la conosco, è invece persona di percezione irruente. Enzo è il suo maestro di stoicismo: senti, ma non lasciarti trascinare. I maestri, però, sono introiettati sempre con frange caratteriali dell'allievo che li ricorda. E infatti Enzo, maestro stoico, nella relazione raccomanda misura a Giovanna con un calore che trascende il ragionamento, ovvero lasciandosi andare. Sono, fortunatamente, le contraddizioni della tenerezza.

   La relazione Fozzer/Fozzer. Al rapporto dialogico segue il rito della memoria dedicatoria. Questo ho appreso parlando con te, questo che ho appreso a te dedico: il colloquio con il defunto ha senso, per Giovanna e per tutti, quando si riconosce al defunto una presenza, affettiva e normativa, in ciò che la persona memore “è”, rispetto a ciò che “è stata”, appunto in virtù dell'insegnamento che dalla persona scomparsa ha introiettato. Giovanna interrompe il colloquio diretto per affidarsi al ricordo introspettivo, non ciò che Enzo ancora le dice, ma ciò che di Enzo è presente in lei nella sua attitudine di proporsi al mondo. L'ascolto di sé ha come scenario la collina da cui, fra veli di nebbia della primavera imminente, appena intravede Firenze in luogo della Provenza, e la Sieve o l'Arno in luogo del Rodano. Poggio Pratone come il Mont Ventoux.
   La sesta lettera a Enzo:

PRATONE

Strada ghiacciata per il Pratone
vento teso che asciuga
(siberiano, dicono).
Risalgo a cercarti – traccia e anima -
nel biancore della ghiaia
nei ginepri – le bacche infine mature -
nei quercioli rugosi delle foglie ostinate,
nella pena del cipresso seccato
dal bifido vertice fitto di coccole morte
solitarie contro il cobalto del Nord.
Al filo del crinale
tutto spogliato è il querciolo solo;
grigio intrico pungente, lungo i sentieri,
i biancospini in attesa.

Sono sinusoidi le eleganti linee d'acqua
nel fango ghiacciato tra erba e ghiaia?
E sotto, una bolla d'aria vaga inquieta,
come l'antica, severa, inarrestabile
livella del muratore.

E' un vento parlante
quello che passa sui visi, non forte
sfiorando gli orecchi. Parla di te?
Per te calpesto i lisciati pietroni
(romani, medievali?) del tratturo
che affiora alla curva sommità del monte:
d'improvviso non è più pietra, alla cima,
ma torna verde cupo d'erba
bagnata dalle piogge.

Veduti dal colmo quassù nel sole,
l'Est e il Sud (la Sieve? L'Arno?)
sono solo veli di nebbia
e fumi d'erba bruciate – primavera ventura.

E ancora posso, scendendo, dedicarti
qualche bacca rosso-brunita,
qualche ramo di rosa canina,
le sue spine nel vento.

E quando mi volgo, breve apparizione
sopra i pini, lo scuro volo massiccio
d'un grande volatile ali stondate.

Fratello tuo, Falco?

   Nella simbologia culturale, dalla smorfia alla psicoanalisi, gli uccelli sono significanti di ambigua fascinazione, creature di terra (ove pongono il nido) e di cielo, appetito e volo, natura e trascendenza. Non per nulla, dalla qualità e direzione del volo gli auguri indovinano il destino dell'uomo. Il falco, leggero e rapace, è segno culturale di aggressività trascendente, angelo e demonio, artiglio di Dio sulle cose del mondo. Giovanna dal Poggio osserva la nebbia terreste, quando sopra i pini compare brevemente il volo dell'uccello rapace. Essendo in preghiera, perché tale è l'ascolto della propria autenticità (in me ipsum interiores oculos reflexi), per necessario meccanismo del cuore esegue fulminea l'identificazione proiettiva: il falco sopra i pini è il fratello del Falco, è il Falco medesimo. Falco, mi ha spiegato a voce Giovanna, è il nome da lei conferito ad Enzo Agostino. Rispetto al quale, continua a spiegare, nel gioco delle reciproche comparazioni Giovanna era un uccello bianco dal volo elegante, credo abbia detto Gabbiano ma non ne sono sicuro, in ogni caso Gabbiano va benissimo. Andava bene anche Colomba, se è per questo: il Falco e la Colomba. Nelle identificazioni proiettive, la Fozzer definisce la caratterialità di Agostino (il Falco), nello stesso tempo definendo se stessa per complementarità degli opposti (il Gabbiano). Si tratta di un processo psicologico consueto: difficilmente riconosciamo noi stessi in quanto “uguali” a un altro, più spesso ci riconosciamo in quanto “diversi”.
   Giovanna Fozzer, del gabbiano, ha effettivamente l'attitudine, per chi la conosce, di osservare le cose a volo e dall'alto, volteggiando su di esse con superiore eleganza: nei gesti e nella parola, quando scrive. Come il gabbiano, è però un animale libero: non l'ho mai sentita pronunciare una parola di convenzionale mediazione riguardo a faccende che non le garbano; verso le quali, casomai, usa di consueto l'arma di un'ironia a volte compiaciuta, a volte epigrammatica. Tutto sommato, Giovanna è un gabbiano che ha cuore di falco. Nel definire se stessa per qualità complementari al Falco, credo abbia ammirato in lui l'attitudine che manca al gabbiano: l'occhio sanguigno sul mondo, la picchiata d'assalto, il combattimento. Quando forse Agostino, a giudicare dal colloquio che intrattiene con lei nelle lettere (il mito classico della bellezza; la misura; il distacco osservante) era al contrario un falco con cuore di gabbiano.
   Ma discorro un po' così, per amore di pignoleria: il lavoro introspettivo, per essere rappresentato, ha bisogno di semplificazioni espressive (il falco; il gabbiano) la cui aderenza al vero è accessibile soltanto al facitore d'opera.

   La relazione Fozzer/consorzio umano. Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono (sappiate) che quanto piace al mondo è breve sogno. Petrarca, dalla cima del Ventoux, manda ai posteri un messaggio per la verità vertiginoso: da falco, appunto, che però ammonisce a non picchiare verso il basso alla ricerca di prede terrestri. Giovanna Fozzer, dalla cima del Pratone, più modestamente rendo note le lettere a Enzo al pubblico ristretto dei compagni di viaggio in poesia. Il volume, numerato in 199 esemplari e corredato da due dipinti fuori testo di Sergio Rinaldelli, è senza indicazione di prezzo, ovvero destinato ad essere distribuito ai soli addetti ai lavori.
   La settima e ultima lettera a Enzo:

ORECCHIO ASSOLUTO

Tu che tutto coglievi
ogni suono, ogni idea
con fulminea grazia
facendolo tuo
(poiché già era tuo)

nei tuoi versi, nei pensieri, nelle lettere

Tu
che il Poggio Pratone non salisti mai
ma trovasti cantato in certi piccoli versi

Oggi che dopo tanto vi ritorno
questo culmine, visione d'orizzonte totale
dedico a te
al tuo alto dei cieli (che mai negasti)

Nel silenzio autunnale opposto
a zirli trilli gorgheggi di primavera
sotto un volo di rondini tardive e senza canto

Tu
ritorni ancor più
nella mente che abiti sempre.

   Il Falco è nell'alto dei cieli, mai negati seppure, sembra di capire, mai pronunciati invano. L'introspezione è spazio di libertà, l'uomo definisce se stesso e si affranca dal giudizio altrui. L'io che si riconosce è in grado di formulare in modo autonomo e convinto la propria visione del mondo. Soprattutto osservando l'orizzonte totale dal culmine del Poggio. L'introiezione affettiva conclusa (vola, Falco: tu sei nella  mia mente) orienta lo sguardo di Giovanna, spectaculo liberiore permota, non più dal cuore alla terra, ma dal cuore al cielo. Ove, nell'autunnale silenzio, non corrono falchi o gabbiani, ma solo il volo tardivo e senza canto delle rondini. Beati gli umili, perché di essi è il regno dei cieli.
   Di essi è anche la poesia, se è per questo.
Rossano Onano

GIOVANNA FOZZER: Sette lettere a Enzo, Edizioni L'Arca Felice, 2009 


giovedì 11 giugno 2009


Giovanna Fozzer

 
Recensione a cura di Marco Furia

I libri delle Edizioni L'Arca Felice sono schegge rosse e preziose, leggere e mai prevedibili. Il catalogo comincia ad essere sostanzioso (ne ho già parlato qui). Fra gli ultimi autori pubblicati ci sono Marco Furia e, appunto, Giovanna Fozzer. Il primo, autore genovese da sempre impegnato in una ricerca che ha nella sillaba e nell'endecasillabo il suo centro, mi invia questa recensione che pubblico con entusiasmo.
Stefano Guglielmin





Intensi contatti

Accompagnata da due raffinate immagini di Sergio Rinaldelli, in cui elementi astratti e figurativi coesistono secondo i ritmi di vivide luminosità né soffuse né accese, la breve raccolta Sette lettere a Enzo (Edizioni L'Arca Felice, Salerno, 2009), di Giovanna Fozzer, si presenta quale poetica presa d'atto d'intime condizioni d'esistenza.
Dalla figura (qui non retorica) della domanda senza risposta, ossia da enigmatici grumi di sentimenti, parole, immagini, scaturiscono versi piani, lineari, eppure esposti sull'abisso dell'indicibile.
L'àmbito definito classico è sufficiente ad un'autrice molto attenta nei confronti d'una metrica che mai sfugge ad acute esigenze ordinatrici indissolubilmente unite a lucida affettività: versi come "immagini, nell'intenso contatto" e "Tu che tutto coglievi / ogni suono, ogni idea / con fulminea grazia / facendolo tuo / (poiché era già tuo)", ben rappresentano una poetica per nulla scossa dalla presenza d'entità ineffabili ritenute non ostili, bensì naturali, comuni a tutti gli uomini.
Da territori muti, in cui nemmeno possono essere costruite immagini poiché l'espressione ancora non sgorga, Giovanna estrae l'energia necessaria a far nascere, quasi per (fecondo) contrasto, una lingua precisa, equilibrata, partecipe.
I toni, così, rivolti tanto ad episodi quotidiani, quanto ad inediti lineamenti ("benevolo infinito"), risultano sempre ricchi d'una pregnante leggiadria in cui lievi sfumature s'intrecciano a sequenze descrittive interrotte da improvvisi bagliori, da repentine pronunce d'ampio respiro, dall'insistere su quesiti semplici e, appunto, privi di risposta.
Il tutto senza freddezza, con quella passione che alla sapienza sa accompagnarsi parola dopo parola, mai perdendo di vista (ora non più tacite) complessità ritenute irrinunciabili elementi d'una poesia che della vita non aspira ad essere specchio, ma vero e proprio tratto costitutivo.
Una poesia che s'illumina di luci policrome, calde, in grado d'indurre chi legge a percorrere itinerari lungo i quali poter riconoscere significative parti dell'esistenza interiore, altrimenti a rischio d'oblio: una poesia, insomma, che affascina e assieme aiuta.




ORECCHIO ASSOLUTO

Tu che tutto coglievi
ogni suono, ogni idea
con fulminea grazia
facendolo tuo
(poiché era già tuo)

nei tuoi versi, nei pensieri, nelle lettere

Tu
che il Poggio Pratone non salisti mai
ma trovasti cantato in certi piccoli versi

Oggi che dopo tanto vi ritorno
questo culmine, visione d'orizzonte totale
dedico a te
al tuo alto dei cieli (che mai negasti)


Nel silenzio autunnale opposto
a zirli trilli gorgheggi di primavera
sotto un volo di rondini tardive senza canto

Tu
ritorni ancor più
nella mente che abiti sempre


INFANZIA

Preda dei tuoi umori obliqui
mentre grondava sul vetro la pioggia
e l'inverno
bruciava grani di aromi
a rinvigorire una memoria stanca
che pure ancora riaccendeva
riti e miti (quasi sempre mortuari)
d'una infanzia ossequiosa, attenta e stupefatta,
affascinata
dal mistero dell'incomprensibile.

Il vivo viso del calciatore dodicenne
o più il suo sguardo
già tutto diceva il sapere e il capire
del poeta, del professore, del politico,
l'innocenza e il fascino
dell'uomo bello come un dio greco
(così dice il tuo fotografo amico),
del giovane che (dicevano in molti)
sembrava un attore.

Pure, poteva il tuo volto
esprimere duro il tremendo;
o invece un benevolo infinito
nelle labbra dal bel disegno
(che la fossetta del mento completava)
e nello sguardo - tenerezza impercettibile
celata nello 'strabismo di Venere'.


FANTASIA

Mobili forti e lievi le tue
immagini, nell'intenso contatto
tra fantasia e cose.
Nelle poesie, nelle lettere, nel tuo
parlare
(quando, per pochi anni, parlammo),
ricche fiorivan dal mare, dalla terra, dal cielo:
l'alba saliva lungo scale d'aria,
la luna, impigliata sulla fiumara
- 'a luna mpiccicàu sup' à hjumara -
è n'affetta, ì meluni, 'na lampara
e u' celu è seru, e' i nùvuli ricotti;
e quando cade
Non è cchjù luna, mo esti nu farcigghju
chi meti hjuri russi, ranu e migghju
e 'mbratta 'ì sangu u' saccu d'a' furtuna

Rifugio t'era buio
'u scuru ti era luci,
la notte ti cullava nta lu firmamentu,
nta 'na cònnula fatta 'i hjarvi e canti.Fiori e canti a consolarti
l'anima di eremita
prigioniero di testesso e della sorte,
ferutu d' u' distinu, e chi la morti
aspetta, e 'u gira 'rota di la vita.

Cantava ogni tuo verso,
nella tua solitudine, la più nobile,
lucida, amara disperazione.

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