Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

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martedì 17 gennaio 2012

questionario di poesia (30) Monia Gaita






Mario Fresa
Questionario di poesia (30)

Monia Gaita








Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



Non credo che s’accampi un segreto progetto ad introdurre una finalità precisa in ciò che scrivo, almeno non nei canoni di un’intenzione razionalmente ordinata intrisa di chiarezza specifica e definitiva. C’è piuttosto un’identità o un’amicizia intrinseca con le parole che non solo interpretano e rappresentano reale ed irreale, ma spesso li sostituiscono, riuscendo a passare per i valichi intransitabili di certe impossibilità dell’esistenza e facendosi così originario mondo o primordiale nucleo costitutivo del tutto.




Come nasce, in te, una poesia?



Non nasce in ogni momento. L’infirmĭtas creativa può incagliare, intorpidire e intorbidare per lunghi periodi i pulsanti automatici dell’ispirazione. In tale stato non mi cimento con i versi perché so bene che farei male. Aspetto quindi con pazienza il momento giusto che dopo le pause apparentemente inutili e che servono invece ad immagazzinare immagini, percezioni, interrogativi, arriva all’improvviso con una strana smania o incalzante impulso a dire, uscendo infervoratamente dalle sabbie mobili del silenzio.




Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Il poeta parla della vita, dei suoi ori e delle sue ruggini, e quindi certamente di ciò che l’esperienza, dalla natura mobilissima, propone e intercetta di volta in volta. Ma è anche vero, come tu dici,  che il poeta parla di ciò che vorrebbe ricevere e che sempre gli sfugge, dei rovesci di grandine delle illusioni mutilate, dei sogni riversi sui fornelli dell’irrealizzabilità e che magari ancora rivendicano un diritto di riuscita. La materia della poesia è anche l’immaterialità, la carezzevole favola che risolve gli enigmi, la grazia che rianima e respinge la resa, la bellezza che resiste all’attrito e all’usura del caduco. Penso, quindi, che agli argomenti della poesia pertengano l’astratto ed il concreto, l’ignoto e il noto, il visibile e l’invisibile, e non come giustapposizione, reggenza o fusione di attività separate, bensì come interazione continua e produttiva a permeare disegni e desideri di senso variabile. Il rapporto con ciò che mi sfugge è il rapporto con l’origine, sempre aperto e a marcia regolare: una perenne ricerca o vertigine dell’istante.




La poesia è salvazione?



Assolutamente sì; per me è la religione prima a cui domando salvezza da tutte le brutture che mi avvolgono.




A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



C’è un gioco che facevo nella mia infanzia con una mia carissima amica d’allora, Amalia. Andavamo sulla rupe del castello di Montefredane, a quel tempo in stato di abbandono, un ammasso informe di pietre, blocchi, ortiche e ciuffi d’erba. A est  correva un lungo muro perimetrale scrostato salendo sul quale si poteva contemplare un panorama mozzafiato: buona parte della nostra Irpinia con i monti del Partenio e i diversi paesini arroccati sulle colline. Tuttavia era rischioso perché oltre precipitava uno strapiombo da paura. Amalia era spavalda e non temeva nulla, io sì, e benché la invitassi a tornare indietro, alla fine mi lasciavo convincere e raggiungevo il ciglio per qualche secondo. Certo, la vista ne valeva davvero la pena, ma il pericolo era tanto! Mi allontanavo poi col turbamento interno di chi sa di aver violato le regole (se l’avesse saputo mia madre!) ma con l’acquisizione di una sfera altra, di una dimensione così lontana da me e che per poco avevo potuto sublimemente toccare facendola mia completamente. La poesia per me è quel rischio di allora, è quel miracolo che si ripete, è un dialogo con l’Infinito quando scavo in ogni parola una voragine impeccabile in cui potrei cadere irreparabilmente.




Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



Mi ha insegnato che la poesia non è un gioco, mi ha dettato l’umiltà e la voglia di capire che dietro ogni autore si cela un’ortodossìa  ricca, proiettiva, profetica e meravigliosa, mi ha fatto conoscere ed apprezzare la poesia russa, inglese, tedesca, francese, ispanoamericana...Mi ha suggerito riflessioni, prospettive e categoriche smentite sviluppando il mio Logos in direzione di una libertà piena non contaminata da pregiudizi. La frequentazione, invece, di autori recenti mi ha spesso posta di fronte alla cattiva poesia, allo squallore delle rigide leggi del mercato editoriale che vede assurdamente pubblicate  e pompate ad arte, anche banalità e colossali stupidaggini.




Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Il poeta indossa tante maschere, ne rimescola le forme a piacimento, le rinnova e le rinnerva come vuole, ma non capostaziona in lui neppure una finzione che non riproduca e diffonda una profonda verità. Il poeta quando racconta e si racconta non ha da risanare alcun deficit di genuinità, schiettezza e adesione al suo sentire più autentico: in tutto questo non può intersecarsi o ravvisarsi alcuna contraffazione, adulterazione, parentesi posticcia o fasulla. Dietro ogni travestimento o camuffamento studiato c’è l’osso nudo senza lanterne cieche, il ganglio candido e vibrante di chi ha amato, gioito, sofferto, perso e vinto sempre direttamente sulla propria pelle.




Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Sicuramente Vittorio Sereni, il grande poeta di Luino, poco conosciuto, anzi, direi sconosciuto purtroppo da tanti giovani oggi.




Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



Augurerei a un poeta di rimanere fedele a se stesso e al progetto che ne mobilita le forze, senza lasciarsi monetizzare e corrompere dai gusti delle mode o dai conformistici inganni dell’omologazione.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Citerei un poeta francese a me particolarmente caro, René Char: «Hai aperto la mano e me ne hai mostrato le linee. Ma vi sorgeva la notte. Ho deposto l’infima lucciola sul solco della vita. Anni di prostrazione si sono illuminati di colpo a  quel fanale vivo e assetato di noi». Spiegare perché questi versi mi appartengano non è semplice, presidiano forse il mio bisogno cedevole di luce, di riscossione oracolare, di musicale ritmicità, di cartelli indicatori che mi illustrino il cammino, che candeggino il buio di certi giorni vuoti.












In alto, un dipinto di Giovanni Spiniello: Donna-orchestra.







domenica 26 giugno 2011

Moniaspina di Monia Gaita




Monia Gaita









Mario Fresa dialoga con Monia Gaita

Si avverte, nella tua scrittura, un’incidenza forte, che vorrei definire di alta e sofferta acribia, del rapporto che lega e stringe la parola con il suono. Come definiresti il senso dell’elemento orale così incisivamente presente nella tua poesia?

Per me la poesia largheggia e s’incrementa anche nell’impasto sinfonico di una partitura musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l’apposizione degli accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa coerentemente si combina sotto l’egida del gioco elementare significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise, bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale.

Qual è il limite, nel tuo dire poetico, tra confessione e oggettività?

Quando dico parto sempre da ricordi, esperienze in svolgimento, passate o immaginate possibili. Posso anche ipostatizzare tutto un fervido contingente di fantasie ed inventato. Ma poiché ritengo che nel pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a fette fate, brume e mondi. Con un colpo di forbice non posso dimidiarmi in due aree, quella in cui più m’identifico, da quella che avverto a me estranea o lontana. Le parole mi fasciano interamente, mi forano le assi del respiro, m’assediano i secondi di bianco e di nero, di giusto e di sbagliato, di redenzioni e crolli. Ci sono comunque io in ciò che scrivo, e non col mimetismo criptico di
chi nei versi si nasconde o si confonde, ma nel senso autentico, che soppianta la finzione del messaggio.

Le forme e i discorsi del tuo gioco poetico pretendono una costante riflessione, un invito continuo a scalare una infinita vetta, piena di ostacoli, di grumi pluridirezionali, di enigmi e di sorprese; è giusto indicare come sempre ritrosa e sfuggente – cioè non direttamente e facilmente comunicativa - la tua lingua poetica?

“Ritrosa e sfuggente” è una diade aggettivale che mi appartiene e che credo appartenga a un certo tipo di poesia, oggi sicuramente minoritaria. Ho sempre pensato che la poesia risieda in un punto sommitale che non ci è dato cogliere del tutto, ma per brevi sigle o sipari luminosi. La poesia è come Dio, come l’inconoscibile: non si può spiegare e neppure ce lo chiede. La mia poesia non è facilmente comunicativa perché per me la poesia non ha da comunicare. La poesia può emozionare, indurci ad assegnare al nostro pensiero una direzione più libera e intelligente, ma resta pur sempre Arte Assoluta. Può trincerarsi dentro un silenzio sdegnoso, folgorante e inaccessibile: siamo noi, innamorati persi ed inarresi, a inseguirla anche quando ci evita, ci snobba, ci lega e ci maltratta.

Vi è abbandono e progettualità, nei tuoi versi; convivono, cioè, la geometria e il disordine, la meditazione e l’immediatezza, lo studio programmato e l’accensione impreveduta; ma qual è, nella tua scrittura, il punto di partenza, e qual è la finale mèta? L’ordine o il caos?

La finale meta è sempre l’ordine, sgretolare il caos, le omeomerie del nulla ed il frustràneo, sgominare i reparti del buio, del vuoto e del caduco, sovrapponendo alle fratture dell’addensato fenomenico una seconda ossatura che valorizzi e rivaluti l’esistente e lo reinterroghi senza posa, per scagliare le pietre definite alla bellezza, farne amuleti di conforto e riflessione quando serve.

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