Mario Fresa
Questionario di poesia (35)
Giacomo Leronni
Qual è il
segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Il mio progetto di scrittura va, sostanzialmente, in due direzioni. Dal
punto di vista dell’impatto o della ricezione da parte di un ipotetico
pubblico, cerca di diffondere una salutare inquietudine, un effetto di
straniamento/spiazzamento che, se assunto in termini positivi, non può che
portare benefici e stimolare la riflessione e l’arricchimento (anche – e
soprattutto – attraverso il confronto). Dal punto di vista linguistico o
stilistico, cerca di aprire nuove vie alle infinite potenzialità del
linguaggio, investendo su una lingua dura e affilata, talvolta evidentemente
slogata o fratturata, piena di parole dalla forte carica simbolica e
connotativa. È questa la lingua che mi sembra la più adatta a testimoniare il
profondo malessere dell’uomo contemporaneo, che è un malessere non solo
relativo al rapporto con i suoi simili e con la società ma anche un malessere
propriamente linguistico, dato dalla
sostanziale incapacità della lingua comune di refertare, di dare conto
compiutamente di quel malessere. Se poi si vuol conoscere il segreto sotteso a questo progetto,
allora credo ci si debba riferire al desiderio di portare al di fuori di sé, al
termine di una impietosa autoanalisi, la propria unicità/irripetibilità che
vuole, in qualche modo, donarsi agli altri.
Come nasce,
in te, una poesia?
Limitandomi al momento della scrittura vera e propria, per me sono
fondamentali due cose: l’attacco (il primo verso o i primi versi, che mi
balzano in mente all’improvviso e che cerco di annotare subito da qualche
parte) e/o il finale, che deve sempre essere contraddistinto da una notevole
tensione e che spesso è la prima parte della poesia ad essere scritta. Poi,
quando ho un po’ di calma intorno a me (raramente, purtroppo…), mi concentro su
quei dati di partenza o di arrivo e, in genere, completo il testo in pochi
minuti. Naturalmente, perché il tutto possa sgorgare in maniera spontanea, c’è
bisogno di mantenere una tensione creativa
costante, anche quando si sta facendo altro. E c’è bisogno, manco a dirlo,
di leggere e scrivere di tutto, in continuazione, anche sforando in campi che,
apparentemente, potrebbero non avere nulla a che vedere con la poesia.
Il poeta
parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre
gli sfugge?
A mio giudizio, il poeta parla di entrambe le cose. La vita di ciascuno
di noi è indissociabile sia da ciò che desidera sia da ciò che gli sfugge in
continuazione. Il poeta testimonia ciò che gli
accade (la poesia, infatti, certifica l’avvenuta esondazione di qualcosa
d’imprevisto, una esondazione che non può essere tamponata o incanalata se non
sulla pagina scritta) e, in questo, come succede nel rapporto fra la materia e
l’antimateria, si nasconde l’altra faccia del reale, ciò che il poeta vorrebbe
che accadesse o ciò che potrebbe accadere e ancora non accade. Vorrei poi
aggiungere che nella poesia, inoltre, c’è sempre qualcosa che sfugge. Non solo a livello di senso – il
che, per quanto mi riguarda, è un bene – ma anche relativamente all’esperienza
umana che vi viene condensata, che non è mai riferibile fino in fondo e che
porta con sé un’evidente incompletezza, il segno di una lacuna incolmabile e
incancellabile.
La poesia è
salvazione?
Dipende da quello che intendiamo per “salvazione”. La poesia non è in
grado di salvare nessuno in senso metafisico o religioso, questo credo sia
evidente. Tuttavia, essendo strettamente vincolata all’essenza stessa
dell’umanità, la poesia è in grado di serbare in noi e fuori di noi, attraverso
ciò che scriviamo, proprio lo stigma di quella umanità di cui facciamo parte,
il segno inconfondibile che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi del
pianeta. A ben vedere, non si tratta di una “salvazione” da poco…
A quale
gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Appartengo, ahimè, a un’altra epoca. I giochi infantili allora erano
altri: essenziali, ridotti ai minimi termini, poveri. Vorrei dire “giocare a
nascondino” o “a moscacieca”. Il poeta, infatti, è sempre qualcuno che vede e
non vede, che va alla ricerca di ciò che è nascosto, di ciò che non è
comunemente visibile o percepibile. E poi si diverte (non sempre, in verità)
con poco: le parole non si possono comprare da nessuna parte, non hanno nulla a
che vedere con il denaro o il potere. Eppure costituiscono la più grande
ricchezza dell’uomo e qualunque sforzo per utilizzarle convenientemente è nulla
se paragonato alla gioia e alla forza che sanno trasmettere. Per non parlare
della loro capacità di sfiorare la verità.
Che cosa ti
ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Mi ha insegnato molte cose importanti. Innanzitutto che è possibile
trovare brandelli di verità ovunque e in tutti, se li si cerca nel modo giusto.
Mi ha insegnato a farmi piccolo, perché per quanti sforzi faccia per
migliorarmi trovo ogni giorno qualcun altro da cui è bello imparare e che è,
nella sua ricerca, più avanti di me. Mi ha insegnato che noi pensiamo di
utilizzare il linguaggio per comunicare qualcosa, mentre è il linguaggio stesso
che ci porta dove vuole. Mi ha insegnato ad essere tollerante e possibilista, a
non precludere alcuna strada, a ritenere sempre legittima e pertinente
l’opinione e l’interpretazione altrui. E mi ha insegnato quella che considero
la cosa più importante di tutte: ogni scrittura si completa con le altre, ogni
scrittura non è che la faccia infinitesima di un enorme prisma, una faccia che
può avere le sue legittime ragioni o aspirazioni solo se unita e confrontata
con tutte le altre. Questo significa che siamo tutti, in nuce, portatori dell’essenza e dell’essenziale. Ma significa
anche che la nostra essenza di poeti splende soltanto quando la si confronta
con quella degli altri nostri compagni di percorso, nessuno escluso. Vorrei
dire: nessun poeta è mai tale da solo. Ognuno di noi è poeta solo se
strettamente connesso con il percorso e la ricerca di tutti gli altri.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Potrebbe essere altissimo o inesistente, a seconda dei casi. L’ho già
detto: sono estremamente possibilista, nel senso che, secondo me, con la
scrittura si può fare tutto. Creare mondi, rappresentarli, scomporli,
modificarli, analizzarli… Tutto. In ognuna di queste operazioni si può
utilizzare una sorta di mascheramento. Stiamo naturalmente parlando di finzione
a fin di bene: cioè di un artificio più o meno manifesto, più o meno
consciamente scelto per progredire nel nostro percorso di ricerca e
rappresentazione. Altro è l’essere uomini finti,
falsi. Questo tipo di falsità non dovrebbe esistere nel nostro campo. Ma, prima
che poeti, siamo uomini. E dunque…
Vorresti
citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Beh, a dire il vero ce ne sarebbero tantissimi. Il primo nome che mi
viene in mente è quello di Rilke, che secondo me è un poeta enormemente più
grande di quella che è stata la sua oggettiva influenza sulla poesia del secolo
appena trascorso. Fra gli italiani non posso non pensare a Piero Bigongiari, un
altro poeta ampiamente sottovalutato, di cui oggi non parla quasi nessuno.
Bigongiari è, a mio giudizio, uno dei 5 poeti italiani migliori del Novecento
(e non solo per i versi che ha scritto, ma anche per i contributi teorici di
grandissimo spessore che ci ha lasciato in libri come La poesia pensa, Nel mutismo
dell’universo o Un pensiero che
seguita a pensare): eppure resta lì in soffitta, morto e sepolto.
Sicuramente molto più morto e sepolto di qualcuno che, ancora vivo e vegeto o
già passato a miglior vita, vende o ha venduto molto fumo.
Qual è il
dono che augureresti a un poeta, oggi?
Anche a costo di sembrare superato e fuori moda (una delle prime accuse
che vengono mosse, di solito, a chi si volge ogni tanto indietro invece di
correre sempre forsennatamente in avanti), gli augurerei il dono della
veggenza, la percezione della necessità di se
faire voyant, come diceva Rimbaud. Oggi più che mai il poeta è chiamato a
vedere oltre le più comuni percezioni e apparenze, in quanto a mio giudizio
l’artista non è tanto colui che trasmette qualcosa che conosce ma piuttosto chi
si pone in cammino verso ciò che non
conosce, verso ciò che è ignoto sia in quanto esperienza sia in quanto
linguaggio che rappresenta quell’esperienza. E per completare vorrei augurare
un altro dono: non tanto quello di interagire con gli altri al solo fine di
comunicare qualcosa, ma piuttosto quello di saper invitare gli altri a condividere un’esperienza, l’esperienza
radicale di ciò che, in qualche modo, gli
accade.
Puoi citare,
spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Concludo più che volentieri con i vv. 26-27 di A Silvia di Giacomo Leopardi: “Lingua mortal non dice / Quel ch’io
sentiva in seno”. Qui Leopardi, da quel grande poeta che è, non ci trasmette soltanto
qualcosa che è riferito alle struggenti
speranze giovanili che la vita e la natura s’incaricheranno a suo tempo di
deludere, spegnendole poi per sempre. Qui Leopardi ci confida, anche, qualcosa
di fondamentale sulla poesia in quanto tale: il poeta è sempre incapace di dire
fino in fondo ciò che pur vorrebbe dire. Quando prova a trasmettere ciò che
sente la lingua gli resiste, appare inadeguata alla forza e alla purezza dei
suoi sentimenti e sembra destinata a dover perire con lui. Eppure è proprio
attraverso quella lingua, povera se paragonata all’immensità del sentire, che
il poeta mette in salvo la sua
essenza di uomo, il suo angusto e irripetibile frammento di umanità.
In alto, un’opera di Emilio Vedova [1919-2006]
molto pregnante nella sua essenzialità il questionario di Mario Fresa mentre le risposte mi trovano perfettamente d'accordo con Leronni. Vorrei aggiungere che quel"volgersi indietro" per rinnovarsi, arricchiti e nutriti da quell'esperienza di "profondità" che solo quel volgersi indietro,è, a mio parere, il punto di partenza per un'autentica poesia.
RispondiEliminaun caro saluto
lucetta frisa
Le risposte di Leronni, messe insieme, costruiscono un piccolo ma esauriente trattato di poetica, i cui cardini consistono nel sentire profondo, nell'importanza della coralità della poesia, tanto del passato ( come tradizione) che del presente ( come cammino condiviso e confronto ed arricchimento reciproco), nella consapevolezza del ruolo di salvaguardia dell'essenza più profonda dell'uomo che la poesia continua ad assumersi, e nella novità del linguaggio, che, quanto più si esperimenta, mentre sembra dilatare le sue possibilità, tanto più si arrende all'indicibilità di certi sentimenti: ne viene fuori una personalità ricca, aperta alla possibilità, autenticamente innamorata della parola, sincera e decisa nelle sue scelte e difesa di autori messi in ombra o non pienamente valutati. E' una buona e condivisibile poetica
RispondiEliminaEsortato dall'intervistato (cui va il mio ringraziamento per l'informazione) desidero esternare la mia viva approvazione sia per l'originalità di diverse domande, come quella su ciò che realmente vive un poeta o ciò che vorrebbe ricevere, e sempre gli sfugge; oppure l'altra - davvero interessante -: "A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?" sia per la corrispondenza di pensiero in ognuna delle risposte. E vorrei - anche a beneficio di Leronni - comunicare il mio pieno accordo circa la rivalutazione di un grandissimo del Novecento quale è stato Rainer Maria Rilke.
RispondiEliminaGrazie, dunque, all'"Arca felice" per la pubblicazione ed a Mario Fresa e Giacomo Leronni per questa edificante occasione di lettura. Cordialissimi saluti,
Sandro Angelucci
Grazie da parte mia agli intervenuti, con l'augurio di un sempre proficuo cammino di ricerca comune, per il bene della poesia e dell'uomo. Giacomo Leronni
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