Mario Fresa
Questionario di poesia (6)
Gian Ruggero Manzoni
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Direi che tende all’assoluto, all’assolutizzare, anche se per i più potrà sembrare una parola grossa se non folle, invece per chi si è sempre confrontato con i massimi sistemi dell’essere e dell’esistere, perciò del divenire, suona familiare. Che l’assoluto sia la divinità o le divinità, la natura, il senso primigenio del vivere, l’origine, gli archetipi, la morte, l’uomo stesso, non ha importanza. Resta il fatto che il progetto che coinvolge il quotidiano, cioè quei 50 o 60 meccanismi che noi mettiamo in atto, ogni giorno, nella vita di relazione o al fine di gestirci il tempo che ci separa dalla fossa, bene o male li conosciamo e, a lungo andare, diventano noiosi perché ripetitivi, ciò che invece non conosciamo e che viene sintetizzato, quale domanda, nei sempre attuali quesiti: chi siamo, dove andiamo, perché questa vita, cosa l’universo, dove Dio, perché siamo materia che ragiona su se stessa etc. restano mistero, ed è la gestione del mistero quindi il curare il mistero stesso che mi interessa sia in scrittura che in arte, perciò in generale.
Come nasce, in te, una poesia?
Dal desiderio di affrontare argomenti pertinenti a ciò che ho esposto sopra, quindi trattarli, poi rendere manifeste la mie conclusioni a chi mi legge. Oppure nasce quale testo che poi verrà interpretato, evocativamente, su di un palcoscenico. Credo molto in questo, cioè nella teatralizzazione dei miei scritti.
Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Direi che il vero poeta scrive sempre di ciò che realmente vive. Non ho mai considerato l’arte come disgiunta dall’esistenza di chi la pratica. Non sono uno strutturalista, non un formalista, non mi riconosco positivista, mai sono stato un materialista, non sono un intellettuale prestato alla poesia e credo fermamente che l’unica verità a noi concessa sia quella del ricercare ogni attimo della nostra vita la verità, naturalmente senza mai raggiungerla. Perciò ben venga l’opera in continua fuga, questo comporta che si avrà sempre da scrivere fino all’ultimo giorno di vita, ovviamente se cervello e cuore continueranno a funzionare al meglio, altrimenti l’oblio, pur piacevole anch’esso, se considerato quale pace dopo la tempesta.
La poesia è salvazione?
Certamente. È grazia, perché dono, e salvazione, perché per essa e con essa vivi al meglio, anche se ti ingenera dolore, un dolore che comunque ti innalza. Chi è felice non scrive poesie e non gli interessa più di tanto la salvazione… se la gode, almeno così penso, seppure non abbia visto, in vita mia, molta gente godersela appieno. Illudersi di godersela sì, ma pochi sono stati coloro che ho colto veramente felici… veramente gioiosi… quindi esenti dalla necessità di salvazione.
A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Da piccolo giocavo con le carte. Mi ero inventato un gioco tutto mio tramite il quale, gettando le carte, dopo essermi posto una domanda, o dopo che un amico la poneva, vedevo il responso tramite la disposizione che le carte prendevano sul tavolo. Così è la poesia… magica, teurgica, cartomantica, liturgica, celebrante il mistero, e altro e altro ancora.
Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Mi ha insegnato che lo stupore non ha e non avrà mai fine.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Non posso risponderti perché io non fingo mai, né con me stesso, né con gli altri, né con l’opera… soprattutto con l’opera, avendo un’immagine sacra della stessa. Se fingessi sarebbe come bestemmiassi Dio. Come uccidessi mia madre o mia figlia. Chi è veramente poeta non finge mai, non rientra nel compito che ti è stato riservato. La finzione la lascio, appunto, ai tanti finti poeti in cui non manca giorno che non m’imbatta. E, assieme alla finzione, lascio a loro anche le pose da poeta… da finto poeta. Quei teatrini patetici.
Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Edmond Rostand, colui che alla fine dell’ '800 ha dato vita al Cyrano de Bergerac, opera ispirata alla figura storica di Savinien Cyrano de Bergerac, uno dei più eclettici poeti del '600 francese.
Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
Di essere se stesso e di non cadere nella vanitas… di non vendersi mai, di non fare il lacchè di coloro che gestiscono il potere editoriale. Quindi, quale dono, l’avere dignità, perché ne vedo ben poca in giro.
Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
«Il mio regno per un cavallo», dal Riccardo III di Shakespeare, perché in esso la fine di una mostruosità… una mostruosità disarcionata… un potente ridotto a semplice pedone sulla scacchiere della vita.
Il particolare è tratto da un’opera di Giovanni Battista Tiepolo [1696 –1770]
“pochi sono stati coloro che ho colto veramente felici… veramente gioiosi… quindi esenti dalla necessità di salvazione.” Grande Gian Ruggero!
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