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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

domenica 21 agosto 2011

Mario Fresa. Questionario di poesia (11)




Mario Fresa
Questionario di poesia (11)


Raffaele Urraro







Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Non ci sono segreti. Piuttosto diverse motivazioni cooccorrenti: esigenza di dire e dirsi; dialogo con la pagina bianca, che vuol dire dialogo con me e con il mondo; spinta a costruire un progetto di/con le parole; speranza, questa sì segreta, che si possa stabilire un qualche rapporto con chi leggerà le mie parole. Non rapporto di consonanza, ma di conoscenza, di dialogo, di comunicazione.

Come nasce, in te, una poesia?
Un po’ come in  Leopardi,  si licet parvis componere magna. Di solito c’è sempre un contenuto (un’idea, un pensiero, un concetto) che abita un certo periodo la mia mente. E questo processo dura fino a quando non pervengo al momento dell’inveramento del prodotto della mente nella parola poetica. A volte il processo dura poco, a volte molto tempo. Ma la cosa più importante è che normalmente procedo per tentativi, cancellature, rifacimenti, abbandoni, riprese, fino a quando non mi convinco che le parole dicono ciò che volevo. Allora smetto.
Ma mi capita anche ciò che afferma Valéry: a volte il primo verso davvero te lo manda Dio, o la Musa, o il caso; il resto è affar tuo, nel senso che sei tu che devi cercare di fare in modo che gli altri versi siano della stessa qualità del primo. E non è facile.

Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Io penso – almeno così capita a me – che il fare poetico sia frutto dell’esperienza totale del poeta: vita vera, progetti filosofici o ideologici, sogni, illusioni, delusioni, costituiscono la materia del prodotto. Comunque di una cosa sono sicuro: in ogni poesia c’è il poeta, o con la sua esperienza personale di vita vissuta, o con il suo mondo filosofico, o con la lettura del reale fatta con i suoi occhi o effettuata attraverso le lenti della sua intellettualità. Il poeta non è mai estraneo al suo prodotto. E questo è vero sia quando si tratta di poesia autenticamente e dichiaramene soggettiva, sia quando il poeta rivolge il suo sguardo al mondo esterno.

La poesia è salvazione?
Penso che per molti lo sia o lo possa essere: la poesia può essere l’“interlocutrice ideale” per chi ha rotto i ponti con gli altri, con il mondo, con la società; ad essa vengono spesso affidate – nel senso che in esse vengono espresse -  quelle esigenze dell’anima, quelle richieste della coscienza, anche i capricci e le bizzarrie della mente, le fantasie e i voli, che sarebbe difficile comunicare o confessare agli altri. Il che può anche significare salvazione. Questo per alcuni.
Per altri, invece, la poesia è progetto, costruzione di un edificio, di un mondo, nel quale altri possano andare ad abitare.

A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Trovo molto bizzarra questa domanda, davvero fantasiosa e un po’, come dire?, provocatoria. Fammici pensare… Beh! Potrei paragonarla al gioco della rincorsa alle farfalle per catturarne il maggior numero rispetto ai compagni “concorrenti”, contarle e farle poi di nuovo volare: la ricerca affannosa delle parole per catturarle e farle poi rivivere in un testo poetico mi sembra davvero possa avvicinarsi al gioco delle farfalle il cui volo ha già di per sé qualcosa di veramente poetico e allusivo. Ma a questo accostamento sono stato davvero tirato per i capelli dalla tua domanda.

Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Stiamo parlando della poesia, cioè dell’attività ritenuta generalmente fantastica e immaginativa per eccellenza, eppure la frequentazione della scrittura poetica mi ha insegnato il senso del rigoroso controllo di ciò che si produce, delle stesse emozioni, quasi uno scientifico impegno nel lavoro di costruzione, tanto che in uno dei miei libri, Il destino della Gorgonia del 1992, parlo della poesia come “artificio della mente”, nel senso che, pur ammettendo che la poesia può nascere da spinte diverse (emozionali, intellettuali, ideali, addirittura fisiche), tuttavia è la mente il vero laboratorio in cui il prodotto viene elaborato e definito sempre sotto vigile sorveglianza.

Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Ritengo non si tratti di finzioni e mascheramenti come operazioni nasconditive, ma di modalità del fare poetico il cui livello varia da poeta a poeta. Vero è però che tra simbolismi, metafore, correlativi oggettivi, giochi della fantasia e dell’immaginazione, ecc., la finzione e il mascheramento – intesi come ho detto prima – sono molto presenti. Tocca al lettore svelarli, svelarne il significato recondito che rinvia sempre ad altri sensi, il che costituisce l’ambiguità, e quindi la ricchezza, del fare poetico.

Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Sì, e non voglio andare neanche lontano. Mi piacerebbe che il poeta Franco Capasso avesse una rilettura critica adeguata al valore della sua poesia. Purtroppo, a distanza di solo qualche anno dalla sua morte, sembra già non essere mai esistito. Per quanto mi riguarda mi dichiaro disponibile a partecipare a qualunque iniziativa finalizzata a una sua riscoperta e riproposizione.

Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
Quello di saper parlare alla mente e al cuore del maggior numero possibile di persone. Se la poesia nasce e muore nelle nicchie, se non è capace di parlare alla “società”, se non è capace di innescare meccanismi mentali, intellettuali, psicologici, a che altro può servire? Guarda che non si tratta di linguaggio, perché ogni poeta deve essere libero di costruirsi il suo, ma di strutturazione complessiva dei testi poetici. Ma so bene che ho toccato un nervo scoperto perché, effettivamente, è un/il problema del fare poetico di oggi, che dovrebbe però essere affrontato in uno spazio ben più ampio.

Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Cito un verso tra i più intensi e drammatici del “mio” poeta, Giacomo  Leopardi: «e il naufragar m’è dolce in questo mare». Debbo spiegare perché? Penso che non ce ne sarebbe bisogno. Tuttavia lo faccio: in questo mare dell’infinito che ci avvolge – solo immaginato o intimamente avvertito nella sua illimitatezza – è comunque “dolce”, caro, fascinoso e affascinante “naufragare” perché, al di là di tutto, penso che sia un privilegio vivere, essere vissuti, aver fatto questa esperienza così ricca, così intensa, così straordinaria. E questo al di là dello stesso pensiero leopardiano.
Se devo citare, invece, qualcosa di mio, ebbene mi piace citare una strofa tratta da un testo di La parola e la morte: «vivere di morte è un gioco / che spacca le pupille spicchio a spicchio / :meglio il sapore d’una luna storta / o lama che s’infiltra», strofa che racchiude tutto il senso che io attribuisco all’esistenza e al difficile e problematico “mestiere di vivere”.   







In alto, un particolare tratto da Le Ninfee di Claude Monet [1840-1926]










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