Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

giovedì 12 gennaio 2012

questionario di poesia (29)







Mario Fresa

Questionario di poesia (29)



Ivano Mugnaini








Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Ciò che mi affascina della scrittura è, in fondo, ciò che la rende terribile e fascinosa, come una donna complicata e bellissima, come il cammino sopra un baratro che sovrasta panorami meravigliosi. La scrittura, credo, è il tentativo di gettare un ponte su quel baratro senza sapere se dal lato opposto esiste una sponda, o, meglio, sapendo che ci sono infinite sponde, ognuna con un terreno specifico, pietroso o friabile, fertile o arido. Scrivere è costruire quel ponte,  passo dopo passo, scommettendo sulla possibilità di mettersi in contatto con altri continenti, realtà diverse eppure affini. Ed è sempre mirabile il momento in cui ciò che credi individuale, aspramente unico ed esclusivamente tuo, passa, si muove, attraversa il vuoto, diventa patrimonio condiviso, un istante scritto, letto, vissuto all’unisono.


Come nasce, in te, una poesia?

Dall’osservazione del reale. Da un particolare concreto, oggettivo. Considerando come oggettivi perfino i pensieri, le sensazioni che passano attraverso il corpo, gli occhi, le mani, i piedi. Poi, da quegli spunti percepiti, a volte cercati, a volte quasi colti controvoglia, nasce un tentativo di riflessione, una volontà di dare forma a ciò che del mondo mi colpisce, anche nel senso letterale del termine, come un pugno, oppure mi sfiora, come una carezza, un ricordo. Dalla distanza tra ciò vedo e ciò che vorrei vedere, attraverso questo contrasto e questo incontro, nascono le parole ed i versi. Senza sperare in mirabili metamorfosi della realtà, ma anche senza rinunciare al diritto di auspicare verità alternative, mondi altri, differenti, seppure ancora e sempre terreni, umani.


Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Questa risposta si ricollega alla precedente: il poeta ha il diritto-dovere del sogno. Ma credo che la poesia abbia poco senso se perde il contatto con la realtà, per quanto aspra e impoetica essa possa essere. “La poesia non risponde, domanda”, affermava P.G. Antokol’skij nel suo Giornale di viaggio di uno scrittore. Ma in quella domanda c’è il suo senso, e, forse, la sua funzione: tenere vivo il dubbio, la capacità di cercare prospettive nuove, ponendo l’uomo di fronte alla necessità di ragionare su se stesso, sul suo scopo, sul senso del suo esistere.


La poesia è salvazione?

Se intendiamo salvazione come una panacea, come una ricetta miracolosa, direi di no. Rispondendo alla adorata nipotina che gli chiedeva ciò che avrebbe dovuto fare da grande nella vita, Byron le consigliava questo: “tutto, tranne che il poeta”. È significativo. E si capisce il perché del consiglio: il poeta percepisce assieme al proprio dolore personale  il dolore del mondo. Lo assomma, lo moltiplica. Ma è anche vero che Byron ha scritto e vissuto poesia una vita intera, l’ha resa parte integrante del proprio mondo interiore. La poesia forse è una scelta e forse un destino: e nell’attimo della sua sconfitta c’è anche la sua vittoria. Nell’istante della perdizione, in varie accezioni, c’è la sua salvezza, la salvazione.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Forse, ricollegandomi ancora a quanto ho scritto poco sopra, direi che è paragonabile al nascondino: ci si cela alla vista degli altri, in angoli bui, scomodi, impolverati. Ma, nella mente e nel cuore, e nel senso stesso del gioco, c’è la speranza, anzi la necessità  di essere scovati, scoperti, costretti ad uscire allo scoperto. Per lamentarsi con se stesso, rallegrandosi, in fondo, perché è nella logica del gioco e dell’esistere questo alternarsi di buio e luce, silenzio e dialogo.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

L’importanza, la potenza creativa e distruttrice della parola, e la conseguente necessità di rispettare ciò che maggiormente distingue il genere umano. Violentare le parole dovrebbe essere considerato reato. Non solo quando si scrive, ma anche quando si parla, perfino quando si pensa, il rispetto per la parola dovrebbe essere immenso, meticolosamente appassionato, usando i vocaboli come strumenti delicati, sensibili, in grado di provocare ferite o di guarirle. Credo che, così come è necessario superare un esame per poter guidare un veicolo, bisognerebbe dover dimostrare di conoscere la pericolosità e la meravigliosa capacità di attraversare mondi propria del linguaggio prima di avere il permesso di parlare e di scrivere. È una provocazione, certo; ma è anche modo per sottolineare ancora che le parole sono vitali, nel senso letterale del termine.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Come ho accennato in precedenza, il poeta si nasconde, per scelta e per necessità. Però la sua fragilità non può essere una scusa per evitare il contatto con il mondo. Deve trasformare il vetro in acciaio, o trasformarlo, renderlo malleabile e forgiarlo per esprimere ciò che realmente pensa e ciò che davvero sente. È il suo compito: arduo ma necessario.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Me ne vengono in mente molti. E citarli tutti non è possibile. Il consiglio che mi sentirei di dare ai lettori è quello di cercarli con cura e tenacia questi continenti ancora inesplorati, queste terre fertili che attendono di essere scoperte e coltivate con la passione della lettura. Oggi  accade sempre più spesso, anche grazie ad Internet, anche grazie a case editrici che, nonostante le difficoltà, leggono e pubblicano autori nuovi di valore o riscoprono autori che meritano maggiore visibilità. Nonostante le logiche dominanti, oggi i lettori hanno il potere di scegliere, ricordando e rivalutando chi, caso per caso, ha il potere di destare il loro interesse e di generare emozioni autentiche, non posticce o preconfezionate.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Rimanere se stesso, senza farsi snaturare da logiche lontane dal suo mondo, dalle sue sensazioni autentiche. Continuare a scrivere ciò che davvero vede e pensa, e trovare in chi legge, a qualsiasi livello, la capacità di sentirlo e ascoltarlo come voce individuale, autonoma e genuina, riconoscibile nel mare magnum degli autori contemporanei.


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

“Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Scelgo questo verso, anzi questi versi di Pessoa, perché mi sembrano coerenti con il contenuto delle mie precedenti risposte. E, a dire il vero, anche perché l’impresa di scegliere un solo verso tra tutta l’infinita bellezza espressa da tutti gli autori di tutti è tempi è così ardua che è paragonabile a quella di selezionare un granello di sabbia più lucente su una spiaggia assolata. E, infine, perché i versi prescelti pur parlando di dolore parlano anche del potere dell’immaginazione. Perfino il dolore descritto passa attraverso la mente di chi lo concepisce e lo crea. Così come il piacere, così come la stessa poesia, che, attraverso il corpo, diventa pensiero, la più concreta e vitale delle finzioni.




 


In alto, particolare tratto da una stele tebana del V sec. a.C.











Nessun commento:

Posta un commento

© RIPRODUZIONE RISERVATA