Mario Fresa
Questionario di poesia (27)
Enzo Rega
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
È
talmente segreto che sfugge anche a me. Per ritagliare uno spazio più
circoscritto, il disegno che poi si è realizzato con Indice dei luoghi. Poesie da
viaggio (e d’amore) – che mi ha da poco pubblicato la casa editrice Mephite
–, e che viene esplicitato nel titolo, si è chiarito solo strada facendo. A un
certo punto, la somma delle cose fatte diventa un totale, un insieme che, in un
improvviso insight, come direbbero
gli psicologi, si chiarisce a chi scrive, dando un significato complessivo al
tutto e a ciascun elemento che nel tutto s’inserisce: hegelianamente, direi.
Come nasce, in te, una poesia?
Permettimi di citare un altro filosofo: perché qui direi schellinghianamente. Per un miscuglio di consapevolezza e inconsapevolezza. Non credo però in dimensioni orfiche, misteriche. Mi spiego con un esempio. Le mie poesie di London Gallery non esistevano, nemmeno come ‘progetto’, quando mi è stato chiesto qualcosa per l’antologia de Le amorose risonanze (L’Arca Felice) che avesse magari un filo conduttore. Non avevo allora neanche inediti. Così ho considerato che cosa mi piacesse fare, o, se vogliamo, cosa sentissi il bisogno di dire. Non c’è forse qualcuno che alla domanda “come le viene l’ispirazione?” ha risposto: “pensandoci su?”. È chiaro, poi, che in questo pensarci su ho agganciato qualcosa che navigava dentro di me e che cercava espressione. C’è una necessità spirituale, dunque, e un’occasione, anche banale, anche concreta, materiale che arpiona lo spirituale. L’ideale è il concreto diceva più o meno Francesco De Sanctis.
Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Tutt’e
due. L’una o l’altra. O l’una e l’altra. Dipende dai poeti, dal loro
tipo di poesia. Ma senza dubbio l’arte si tende, si stira sempre tra queste due polarità. Il poeta ha bisogno di dirsi
il mondo nel quale vive, dal micro al macrocosmo, e la poesia è senz’altro una
forma di conoscenza. Dall’altro ha bisogno di un altrove, e la poesia è lo spazio di questo altrove, l’immaginario
oltre la siepe. Ma questo bisogno dello scrittore intercetta quello analogo,
speculare, del lettore, che da un lato vuole qualcuno che lo aiuti a capire questo mondo, ma desidera anche che gli
si prospetti un mondo altro. Quello
che sfugge, che fugge, trova una collocazione ideale, immaginaria, in un
fermo-immagine, sulla pagina, sulla tela Il filosofo John Dewey, a differenza
dell’empirismo, dal quale pure partiva, considerava reali e significative nella
vita anche le esperienze puramente mentali. Ma anche lo psicologo Bruner parla
di una “mente poetica” come luogo dell’immaginario, di apertura verso l’altro.
La poesia è salvazione?
Non
so se “la poesia salva la vita”, come qualcuno pure dice. A volte forse la
danna. Ma forse può preparare la salvazione. Bruner, che ho citato prima,
intende quell’apertura verso l’altro
anche nel senso degli altri. Riuscire
a concepire ciò che è diverso, significa anche riuscire ad assumere il punto di
vista altrui. Quindi la mente poetica è anche il terreno della solidarietà: non
solo di una salvezza individuale, che non mi interesserebbe, ma collettiva.
A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Da
bambino mi raccontavo delle storie, prima di dormire, o anche durante la
giornata, storie che ho portato avanti per anni, puntata per puntata. Era
appunto l’immaginare un altrove. La poesia riprende e continua questo gioco di
raccontarsi il mondo, vero o verosimile, con lo sguardo meravigliato
dell’infanzia. È il passaggio dall’oralità originaria, di cui parlava anche
Leopardi, alla scrittura che deve saper mantenersi, sempre leopardianamente,
nell’apertura di quell’oralità.
Che cosa ti ha insegnato la
frequentazione della scrittura poetica?
La
concentrazione essenziale.
Qual è il grado di finzione e di
mascheramento di un poeta?
Nietzsche,
nella Nascita della tragedia, il suo
primo libro filosofico, che, come sostiene Giorgio Colli, è anche la summa di
tutto il suo pensiero, dice che Apollo non può vivere senza Dioniso, ma che
anche Dioniso non può vivere senza Apollo. Come si sa, Dioniso rappresenta il Wesen, la dinamica essenza della realtà;
Apollo ne è l’espressione in ‘bella parvenza’ (il fermo-immagine, appunto) che
però tradisce il significato originario nel momento in cui lo dice. Diremmo in
termini moderni: il significante tradisce il significato. Le maschere sono
l’aspetto che necessariamente deve assumere la realtà per essere detta,
altrimenti rimarrebbe non detta (ma anche per essere, altrimenti non sarebbe).
Non di meno, tali maschere, per dirla con linguaggio freudiano, sono il sintomo di tale realtà. Come nei sogni.
Allora, rimane l’onestà. Cioè, la consapevolezza della necessaria e inevitabile
mistificazione che si compie nominando
le cose, e quindi la volontà e capacità di continuare a scavare nel linguaggio,
e in noi, e nella realtà, perché Apollo tradisca il meno possibile Dioniso.
Vorresti citare un poeta da ricordare e
da rivalutare?
Il calabrese Lorenzo Calogero, morto presumibilmente suicida nei primissimi anni Sessanta. La sua “poesia ininterrotta” era l’inseguimento di questo Wesen attraverso tutte le maschere possibili.
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
Di
capire se la poesia, come genere letterario, la Dichtung direbbero i tedeschi è loro davvero necessaria, come
espressione. O se possa bastare invece quella che sempre i tedeschi chiamano Poesie (Heidegger sottolinea questa
distinzione), cioè il poetico che, aggiungo, può essere in tutte le cose, non
solo in una serie di frasi con a capo. In senso figurato per i tedeschi ha
anche il significato di magia, e
questa può essere ovunque.
Cioè,
in soldoni, capire se si è poeta oppure no.
Puoi citare, spiegando perché, un verso
che ti è particolarmente caro?
Silvia, rimembri
ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea / Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / E tu,
lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi? – Veramente, ho
aperto qualche libro e gettato uno sguardo qua e là: come si trova? cercando,
appunto. Ma in questo caso, per questi celeberrimi versi di Leopardi, ho
trovato ciò che sapevo. Dal liceo mi inseguono,, soprattutto quello degli occhi
“ridenti e fuggitivi”, che è così femminile, ma anche così universale. L’endiadi
ossimorica, se così posso dire (in fondo sono due parole che esprimono un concetto nella sua ambivalenza), fa il paio
con l’altro “lieta e pensosa”, che è la cifra della vita, nella sua
istantaneità che ci angoscia ma che pure, se ci riesce, ci riempie, ci allieta.
Nel frattempo…
In alto: Il
funambolo di Franz Borghese [1941-2005]
"L’allodola
RispondiEliminaè fuggita dall’arco del suo cielo.
Nel silenzio, nello squallore
una vita squallida è toccata.
Guarda! Una linea scende mesta
dai monti prona: mista ad una lapide
è sognata." Hai detto giusto di Calogero che in questi versi presenta il lato "dannato" della poesia, ma come te preferisco pensare che la poesia è anche il terreno della solidarietà; Giancarlo Serafino