Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

lunedì 2 gennaio 2012

questionario di poesia (27)








 Mario Fresa

Questionario di poesia (27)



Enzo Rega










Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

È talmente segreto che sfugge anche a me. Per ritagliare uno spazio più circoscritto, il disegno che poi si è realizzato con Indice dei luoghi. Poesie da viaggio (e d’amore) – che mi ha da poco pubblicato la casa editrice Mephite –, e che viene esplicitato nel titolo, si è chiarito solo strada facendo. A un certo punto, la somma delle cose fatte diventa un totale, un insieme che, in un improvviso insight, come direbbero gli psicologi, si chiarisce a chi scrive, dando un significato complessivo al tutto e a ciascun elemento che nel tutto s’inserisce: hegelianamente, direi.



Come nasce, in te, una poesia?


Permettimi di citare un altro filosofo: perché qui direi schellinghianamente. Per un miscuglio di consapevolezza e inconsapevolezza. Non credo però in dimensioni orfiche, misteriche. Mi spiego con un esempio. Le mie poesie di London Gallery non esistevano, nemmeno come ‘progetto’, quando mi è stato chiesto qualcosa per l’antologia de Le amorose risonanze (L’Arca Felice) che avesse magari un filo conduttore. Non avevo allora neanche inediti. Così ho considerato che cosa mi piacesse fare, o, se vogliamo, cosa sentissi il bisogno di dire. Non c’è forse qualcuno che alla domanda “come le viene l’ispirazione?” ha risposto: “pensandoci su?”. È chiaro, poi, che in questo pensarci su ho agganciato qualcosa che navigava dentro di me e che cercava espressione. C’è una necessità spirituale, dunque, e un’occasione, anche banale, anche concreta, materiale che arpiona lo spirituale. L’ideale è il concreto diceva più o meno Francesco De Sanctis.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?


Tutt’e due. L’una o l’altra. O l’una e l’altra. Dipende dai poeti, dal loro tipo di poesia. Ma senza dubbio l’arte si tende, si stira sempre tra queste due polarità. Il poeta ha bisogno di dirsi il mondo nel quale vive, dal micro al macrocosmo, e la poesia è senz’altro una forma di conoscenza. Dall’altro ha bisogno di un altrove, e la poesia è lo spazio di questo altrove, l’immaginario oltre la siepe. Ma questo bisogno dello scrittore intercetta quello analogo, speculare, del lettore, che da un lato vuole qualcuno che lo aiuti a capire questo mondo, ma desidera anche che gli si prospetti un mondo altro. Quello che sfugge, che fugge, trova una collocazione ideale, immaginaria, in un fermo-immagine, sulla pagina, sulla tela Il filosofo John Dewey, a differenza dell’empirismo, dal quale pure partiva, considerava reali e significative nella vita anche le esperienze puramente mentali. Ma anche lo psicologo Bruner parla di una “mente poetica” come luogo dell’immaginario, di apertura verso l’altro.



La poesia è salvazione?

Non so se “la poesia salva la vita”, come qualcuno pure dice. A volte forse la danna. Ma forse può preparare la salvazione. Bruner, che ho citato prima, intende quell’apertura verso l’altro anche nel senso degli altri. Riuscire a concepire ciò che è diverso, significa anche riuscire ad assumere il punto di vista altrui. Quindi la mente poetica è anche il terreno della solidarietà: non solo di una salvezza individuale, che non mi interesserebbe, ma collettiva.




A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Da bambino mi raccontavo delle storie, prima di dormire, o anche durante la giornata, storie che ho portato avanti per anni, puntata per puntata. Era appunto l’immaginare un altrove. La poesia riprende e continua questo gioco di raccontarsi il mondo, vero o verosimile, con lo sguardo meravigliato dell’infanzia. È il passaggio dall’oralità originaria, di cui parlava anche Leopardi, alla scrittura che deve saper mantenersi, sempre leopardianamente, nell’apertura di quell’oralità.




Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

La concentrazione essenziale.





Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Nietzsche, nella Nascita della tragedia, il suo primo libro filosofico, che, come sostiene Giorgio Colli, è anche la summa di tutto il suo pensiero, dice che Apollo non può vivere senza Dioniso, ma che anche Dioniso non può vivere senza Apollo. Come si sa, Dioniso rappresenta il Wesen, la dinamica essenza della realtà; Apollo ne è l’espressione in ‘bella parvenza’ (il fermo-immagine, appunto) che però tradisce il significato originario nel momento in cui lo dice. Diremmo in termini moderni: il significante tradisce il significato. Le maschere sono l’aspetto che necessariamente deve assumere la realtà per essere detta, altrimenti rimarrebbe non detta (ma anche per essere, altrimenti non sarebbe). Non di meno, tali maschere, per dirla con linguaggio freudiano, sono il sintomo di tale realtà. Come nei sogni. Allora, rimane l’onestà. Cioè, la consapevolezza della necessaria e inevitabile mistificazione che si compie nominando le cose, e quindi la volontà e capacità di continuare a scavare nel linguaggio, e in noi, e nella realtà, perché Apollo tradisca il meno possibile Dioniso.



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Il calabrese Lorenzo Calogero, morto presumibilmente suicida nei primissimi anni Sessanta. La sua “poesia ininterrotta” era l’inseguimento di questo Wesen attraverso tutte le maschere possibili.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Di capire se la poesia, come genere letterario, la Dichtung direbbero i tedeschi è loro davvero necessaria, come espressione. O se possa bastare invece quella che sempre i tedeschi chiamano Poesie (Heidegger sottolinea questa distinzione), cioè il poetico che, aggiungo, può essere in tutte le cose, non solo in una serie di frasi con a capo. In senso figurato per i tedeschi ha anche il significato di magia, e questa può essere ovunque.
Cioè, in soldoni, capire se si è poeta oppure no.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Silvia, rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea /  Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / E tu, lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi? – Veramente, ho aperto qualche libro e gettato uno sguardo qua e là: come si trova? cercando, appunto. Ma in questo caso, per questi celeberrimi versi di Leopardi, ho trovato ciò che sapevo. Dal liceo mi inseguono,, soprattutto quello degli occhi “ridenti e fuggitivi”, che è così femminile, ma anche così universale. L’endiadi ossimorica, se così posso dire (in fondo sono due parole che esprimono un  concetto nella sua ambivalenza), fa il paio con l’altro “lieta e pensosa”, che è la cifra della vita, nella sua istantaneità che ci angoscia ma che pure, se ci riesce, ci riempie, ci allieta. Nel frattempo…












In alto: Il funambolo di Franz Borghese [1941-2005]








1 commento:

  1. "L’allodola

    è fuggita dall’arco del suo cielo.

    Nel silenzio, nello squallore

    una vita squallida è toccata.

    Guarda! Una linea scende mesta

    dai monti prona: mista ad una lapide

    è sognata." Hai detto giusto di Calogero che in questi versi presenta il lato "dannato" della poesia, ma come te preferisco pensare che la poesia è anche il terreno della solidarietà; Giancarlo Serafino

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