Mario Fresa
Questionario di poesia (30)
Monia Gaita
Qual
è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Non credo che s’accampi un segreto
progetto ad introdurre una finalità precisa in ciò che scrivo, almeno non nei
canoni di un’intenzione razionalmente ordinata intrisa di chiarezza specifica e
definitiva. C’è piuttosto un’identità o un’amicizia intrinseca con le parole
che non solo interpretano e rappresentano reale ed irreale, ma spesso li
sostituiscono, riuscendo a passare per i valichi intransitabili di certe
impossibilità dell’esistenza e facendosi così originario mondo o primordiale
nucleo costitutivo del tutto.
Come
nasce, in te, una poesia?
Non nasce in ogni momento. L’infirmĭtas
creativa può incagliare, intorpidire e intorbidare per lunghi periodi i
pulsanti automatici dell’ispirazione. In tale stato non mi cimento con i versi
perché so bene che farei male. Aspetto quindi con pazienza il momento giusto
che dopo le pause apparentemente inutili e che servono invece ad immagazzinare
immagini, percezioni, interrogativi, arriva all’improvviso con una strana
smania o incalzante impulso a dire, uscendo infervoratamente dalle sabbie
mobili del silenzio.
Il
poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che
sempre gli sfugge?
Il poeta parla della vita, dei suoi ori
e delle sue ruggini, e quindi certamente di ciò che l’esperienza, dalla natura
mobilissima, propone e intercetta di volta in volta. Ma è anche vero, come tu
dici, che il poeta parla di ciò che
vorrebbe ricevere e che sempre gli sfugge, dei rovesci di grandine delle illusioni
mutilate, dei sogni riversi sui fornelli dell’irrealizzabilità e che magari
ancora rivendicano un diritto di riuscita. La materia della poesia è anche
l’immaterialità, la carezzevole favola che risolve gli enigmi, la grazia che
rianima e respinge la resa, la bellezza che resiste all’attrito e all’usura del
caduco. Penso, quindi, che agli argomenti della poesia pertengano l’astratto ed
il concreto, l’ignoto e il noto, il visibile e l’invisibile, e non come
giustapposizione, reggenza o fusione di attività separate, bensì come
interazione continua e produttiva a permeare disegni e desideri di senso
variabile. Il rapporto con ciò che mi sfugge è il rapporto con l’origine, sempre
aperto e a marcia regolare: una perenne ricerca o vertigine dell’istante.
La
poesia è salvazione?
Assolutamente sì; per me è la religione
prima a cui domando salvezza da tutte le brutture che mi avvolgono.
A
quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
C’è un gioco che facevo nella mia
infanzia con una mia carissima amica d’allora, Amalia. Andavamo sulla rupe del
castello di Montefredane, a quel tempo in stato di abbandono, un ammasso
informe di pietre, blocchi, ortiche e ciuffi d’erba. A est correva un lungo muro perimetrale scrostato
salendo sul quale si poteva contemplare un panorama mozzafiato: buona parte
della nostra Irpinia con i monti del Partenio e i diversi paesini arroccati
sulle colline. Tuttavia era rischioso perché oltre precipitava uno strapiombo
da paura. Amalia era spavalda e non temeva nulla, io sì, e benché la invitassi
a tornare indietro, alla fine mi lasciavo convincere e raggiungevo il ciglio
per qualche secondo. Certo, la vista ne valeva davvero la pena, ma il pericolo
era tanto! Mi allontanavo poi col turbamento interno di chi sa di aver violato
le regole (se l’avesse saputo mia madre!) ma con l’acquisizione di una sfera
altra, di una dimensione così lontana da me e che per poco avevo potuto sublimemente
toccare facendola mia completamente. La poesia per me è quel rischio di allora,
è quel miracolo che si ripete, è un dialogo con l’Infinito quando scavo in ogni
parola una voragine impeccabile in cui potrei cadere irreparabilmente.
Che
cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Mi ha insegnato che la poesia non è un gioco,
mi ha dettato l’umiltà e la voglia di capire che dietro ogni autore si cela
un’ortodossìa ricca, proiettiva,
profetica e meravigliosa, mi ha fatto conoscere ed apprezzare la poesia russa,
inglese, tedesca, francese, ispanoamericana...Mi ha suggerito riflessioni,
prospettive e categoriche smentite sviluppando il mio Logos in direzione di una
libertà piena non contaminata da pregiudizi. La frequentazione, invece, di
autori recenti mi ha spesso posta di fronte alla cattiva poesia, allo squallore
delle rigide leggi del mercato editoriale che vede assurdamente pubblicate e pompate ad arte, anche banalità e colossali
stupidaggini.
Qual
è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Il poeta indossa tante maschere, ne
rimescola le forme a piacimento, le rinnova e le rinnerva come vuole, ma non
capostaziona in lui neppure una finzione che non riproduca e diffonda una
profonda verità. Il poeta quando racconta e si racconta non ha da risanare
alcun deficit di genuinità, schiettezza e adesione al suo sentire più
autentico: in tutto questo non può intersecarsi o ravvisarsi alcuna
contraffazione, adulterazione, parentesi posticcia o fasulla. Dietro ogni
travestimento o camuffamento studiato c’è l’osso nudo senza lanterne cieche, il
ganglio candido e vibrante di chi ha amato, gioito, sofferto, perso e vinto
sempre direttamente sulla propria pelle.
Vorresti
citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Sicuramente Vittorio Sereni, il grande
poeta di Luino, poco conosciuto, anzi, direi sconosciuto purtroppo da tanti
giovani oggi.
Qual
è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
Augurerei a un poeta di rimanere fedele
a se stesso e al progetto che ne mobilita le forze, senza lasciarsi monetizzare
e corrompere dai gusti delle mode o dai conformistici inganni dell’omologazione.
Puoi
citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Citerei un poeta francese a me
particolarmente caro, René Char: «Hai
aperto la mano e me ne hai mostrato le linee. Ma vi sorgeva la notte. Ho
deposto l’infima lucciola sul solco della vita. Anni di prostrazione si sono
illuminati di colpo a quel fanale vivo e
assetato di noi». Spiegare perché
questi versi mi appartengano non è semplice, presidiano forse il mio bisogno
cedevole di luce, di riscossione oracolare, di musicale ritmicità, di cartelli
indicatori che mi illustrino il cammino, che candeggino il buio di certi giorni
vuoti.
In alto, un
dipinto di Giovanni Spiniello: Donna-orchestra.
Molto interessante la scrittura di Monia Gaita. Ho trovato quest'intervista davvero ricca di spunti.
RispondiEliminaMarilena M.
Di Monia Gaita ho letto Falsomagro. L'ho trovato originalissimo per l'uso libero del linguaggio. Non è stata una lettura rilassante perchè ho faticato a seguirla in certi passaggi. Ma alla fine l'ho trovato bellissimo. Certo, la poesia non è per tutti...
RispondiEliminaComplimenti Monia
Enrico Moccia