Mario Fresa
Questionario di poesia (39)
Matteo Zattoni
Qual è il segreto progetto a cui tende
la tua scrittura?
Ogni
libro è un organismo. Il segreto non è nella progettualità razionale e a priori, ma nel suo respiro interno.
Ogni libro vive di vita propria, tende a una coerenza interna e ha uno scopo
comunicativo, affronta una tematica specifica, benché non preordinata. Nel mio
libro d’esordio, Il nemico, proponevo
fin dal titolo il rovesciamento della relazione d’amore in un’amorosa
inimicizia, che prevede una calcolata strategia di reciproca conoscenza. Per
quanto riguarda Il peso degli spazi,
invece, l’esperienza dell’io ruotava intorno ai luoghi, claustrofobici o
prediletti, onirici o metafisici: quello spazio finito dell’hic et nunc che è il limite umano al
nostro desiderio di ubiquità. Ancora: L’estraneo
bilanciato sviscerava il rapporto tra l’individuo e la società, vista in
modo assai distante da quella “social catena” leopardiana che dovrebbe
coalizzarci per uno scopo nobile; al contrario l’uomo è contenuto passivamente
dalla società, svilito e marginalizzato, a volte persino braccato, come accade
nelle guerre. Il prossimo lavoro, di cui Promesse
vegetali costituisce una tappa importante, affronterà più scopertamente la
tematica familiare: ho cercato documenti e interrogato i parenti per estrarre
le mie radici, ricostruendo i passi di una privata e dolorosa genealogia. Naturalmente
ogni libro mantiene un trait d’union
col precedente e col successivo, poiché è situato all’interno del medesimo
processo di comprensione del reale: si tratta di una interrelazione tra entità
autonome, esattamente come accade tra le singole poesie e il libro a cui
appartengono.
Come nasce, in te, una poesia?
La
poesia è un’apocalisse, nel senso etimologico greco di “rivelazione, svelamento”.
Ma la poesia è anche scrittura e riscrittura. Da un lato c’è un contenuto
rivelato così, in modo fulmineo e cristallino, dall’altro c’è una lingua in cui
va tradotto e riversato, badando bene che resti integro, intatto, vivo. Nulla
deve andare perso o travisato, perché l’uno non può esistere senza l’altra.
Perciò il risultato di un’ispirazione istantanea può richiedere giorni e
persino mesi di lavoro lungo e meticoloso per venire alla luce.
Il poeta parla di ciò che realmente vive
o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
“Il
poeta è un autotrasportatore, un autista di TIR” scriveva Ennio Cavalli in un
libro provocatorio fin dal titolo: Il
poeta è un camionista. L’accostamento tra il poeta, simbolo della purezza,
e il camionista, stereotipo della durezza, era giustificato dalla loro medesima
funzione: quella di portare attraverso, al di là, trasportare, secondo il
significato etimologico di “metafora”. Che cosa trasporta il poeta? La realtà o
il suo simulacro, gli aspetti invisibili nell’esistente o un ideale a cui
tendere in modo incessante? Lo spettro della scelta è amplissimo e dipende
dalla sensibilità del singolo poeta e dall’esigenza che lo muove. Ciò che
veramente rileva è proprio il suo rapporto con l’oggetto che deve essere
autentico, nel senso di “fatto da sé”.
La poesia è salvazione?
In
Esperienza della poesia, una breve
prosa del 1947, Vittorio Sereni dà un’indicazione molto evocativa sul rapporto
tra poesia e salvezza: “Ci piace pensare al poeta come a un credente che
aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e
senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non
può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma
che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che
aspetta”.
Il
poeta prepara se stesso come un terreno, si coltiva letteralmente, sviluppa
un’attenzione al reale, attende un’ispirazione che non può programmare né nei
tempi né nell’intensità. In questo sta la predestinazione: nel non sapere quando e con quanta forza scorrerà la nostra ispirazione; perché in noi e
non in altri o viceversa. Eppure il poeta non può rifiutare la chiamata, anzi
si adopera con il labor limae e con la
disciplina e gli strumenti del proprio artigianato per rendere più chiari quei
frutti, più simili alla visione originaria.
Qual
è il premio per questo sforzo terribile e meraviglioso? Sereni ci dice che il compimento
dell’ispirazione non è la grazia; forse nessuna opera umana lo è di per sé. Tuttavia,
attraverso la propria opera – e io aggiungo: anche attraverso l’opera degli
altri – il poeta o il lettore possono intravedere i segni di una grazia
possibile, la ricomposizione di un κόσμος,
linguistico e ontologico, laddove prima era solo χάος.
A quale gioco della tua infanzia
vorresti paragonare la tua poesia?
Paragonerei
la mia poesia al gioco degli scacchi che, fin dalle elementari, mi ha
appassionato più della dama. Ogni singola poesia è un pezzo sulla scacchiera:
alcune sono il re e la regina, altre la torre, l’alfiere o il cavallo, altre
infine sono semplici pedoni. Ogni pezzo ha una sua autonomia, può e deve compiere
alcuni spostamenti e non altri. Ma è solo guardando all’insieme del movimento
dei pezzi che si può intuire l’idea che anima il giocatore; la sua strategia è
tanto più efficace quanto più tiene conto dello sviluppo effettivo del gioco. Qual
è l’avversario? Come dispone i suoi pezzi? Che senso ha questa mossa?
Che cosa ti ha insegnato la
frequentazione della scrittura poetica?
Moltissimo.
Per un periodo della mia vita mi faceva impressione pensare che i miei migliori
amici, quelli che io consideravo tali, fossero tutti morti. Alcuni persino da
secoli! Eppure la comprensione delle cose che puoi attingere da una poesia,
attraverso la sapienza poetica che ci è stata tramandata, non trova un
corrispettivo soddisfacente nelle forme del vivere sociale. Per la natura
stessa degli argomenti trattati, la poesia rimane il veicolo privilegiato per
accogliere la profondità, i silenzi, il paziente lavoro di scavo che ogni uomo
compie dentro se stesso. Ciò che emerge sotto una forma ritmica o musicale è
qualcosa che, altrimenti, si fatica ad ammettere anche nei rapporti più intimi
ed autentici: la consapevolezza può essere dolorosa e persino spaventosa. Tuttavia
la poesia insegna a non accontentarsi della prima risposta, a non voltare il
capo, a stare eroicamente di fronte alla realtà, anche la più cruda e ingiusta.
Qual è il grado di finzione e di
mascheramento di un poeta?
Premetto
che in ogni poeta è rintracciabile un diverso grado di mascheramento, che può
dipendere tanto da una scelta consapevole, quanto da una predisposizione
inconscia o persino da una necessità interiore, dunque qui si ragiona di un
personalissimo dover essere della
poesia. Non esiste un grado “giusto” di finzione o di autenticità, anche se ritengo
che gli estremi siano da rigettare in entrambe le direzioni.
Da
un lato, una finzione preponderante o addirittura totale difficilmente conserva
in sé l’autenticità interna di cui ha bisogno la poesia per esplicare la
propria forza; cosa diversa dal mascheramento è – invece – l’immedesimazione
completa nella vita altrui, che deve però avere ragioni profonde quanto quelle
dell’esperienza personale, nascendo da un sentimento a metà tra la pietas e l’empatia.
Dal
lato opposto, però, l’opera di un poeta non dovrebbe mai essere fatta
coincidere con la sua biografia. Sarebbe riduttivo o fuorviante sovrapporre
l’io dell’autore all’autore stesso; e ciò vale per tutta la letteratura,
talvolta persino per quella dichiaratamente autobiografica. Certamente la
poesia è collegata a un’esperienza biologica poiché un certo modo di fare
poesia è plausibile per tutti e in ogni tempo solo se proviene da quel corpo di quell’uomo che ha fatto una determinata esperienza in un dato
momento storico. È un paradosso che porta a far convergere la massima
particolarità e il massimo universalismo.
Tuttavia
la distanza della poesia dal suo autore permane non diversamente da quanto
accade nel rapporto genitoriale: il figlio potrà assomigliare al padre, recherà
in sé molte sue caratteristiche, ma non sarà mai esattamente il padre. In
questo condivido la posizione del Prof. Alberto Casadei quando scrive che “la
forma poetica, di qualunque natura sia, costituisce comunque una separazione
dal continuum biologico, dunque una
creazione complessa, come può esserlo, materialmente, un qualunque essere
pluricellulare”. Muovendo da questa visione organica dell’atto creativo, potrei
concludere che l’io poetico non costituisce tanto una maschera dell’io
biografico, quanto una selezione o una sintesi. Il vero io è, in realtà, un
“noi”. Rimbaud direbbe che “JE est un autre”, aprendo alla trascendenza del
poeta veggente.
Vorresti citare un poeta da ricordare e
da rivalutare?
Come
sostiene Magrelli in Didascalie per la
lettura di un giornale: “Le poesie vanno sempre rilette, / lette, rilette,
lette, messe in carica; / ogni lettura compie la ricarica, / sono apparecchi
per caricare senso”. In un certo senso tutti i poeti che sono stati rigorosi e
autentici andrebbero ricordati, poiché hanno svolto un’opera etica di
costruzione e ricostruzione del reale. Per limitarmi alla mia zona, la Romagna,
direi senz’altro Ferruccio Benzoni di Cesenatico, fra gli animatori della
rivista “Sul porto” e poeta disperato. Ma voglio anche ricordare Tolmino
Baldassari, scomparso nel 2010. Ho avuto il privilegio di incontrarlo nella sua
casa tra i pini di Cannuzzo di Cervia, grazie al comune amico Stefano Maldini: nel
2001 aveva letto dei miei inediti su una rivista, si era fatto dare il mio
numero e una sera mi telefonò per complimentarsi. Pur essendo autodidatta, si
era costruito una cultura profonda, come testimoniava la sua biblioteca di
circa tremila volumi. I suoi versi nel dialetto di Castiglione di Cervia
salvano una storia fatta di neve, di rane, di una nonna che spigola e, di
storni in volo, ma anche di grondaie e di ombre.
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
Mi
viene in mente l’ammonimento di Auden: “Agli occhi altrui si è poeti se si è
scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno
gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto
un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse
per sempre”. Dunque il dono che augurerei a un poeta è, innanzi tutto, quello
di rimanere tale, di non inaridirsi o appiattirsi sui luoghi comuni sia del
pensiero sia della lingua. Per mantenere questo senso di meraviglia e di
stupore verso le cose è necessario rallentare ogni tanto, affinare o allargare
lo sguardo a seconda del proprio oggetto, sapersi abbandonare a un’intuizione,
scoprire l’universale laddove gli altri si fermano a un particolare.
Sono
tanti i doni che servono, specialmente in un tempo in cui le occasioni di
dispersione superano di gran lunga quelle di raccoglimento e la lingua subisce
quotidianamente l’assalto dei mass media. L’impoverimento, l’omologazione e il
depotenziamento delle parole vanno in parallelo con la perdita di senso del
mondo che esse rappresentano. La poesia incarna una delle poche forme di
resistenza al processo globale di mercificazione e di svalutazione della figura
umana che celebra l’individualismo amorale e l’economia come fine ultimo.
Pertanto ciò che auguro a un poeta, ma direi a ogni uomo, è di non
accontentarsi dei surrogati, bensì di preservare e perseguire la propria
vocazione più alta. Per citare ancora Auden: “Non vi occorre vedere che cosa
uno fa / per sapere se quella è la sua vocazione, / avete solo da guardare i
suoi occhi”.
Puoi citare, spiegando perché, un verso
che ti è particolarmente caro?
Fra
i tantissimi, scelgo il famoso finale di Traducendo
Brecht di Fortini: “la poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”.
Credo racchiuda l’essenza moderna della condizione del poeta: in primo luogo lo
sgretolamento della sua funzione sociale, la sua apparente incapacità di
incidere sulla realtà contemporanea che genera in lui frustrazione e un senso
di impotenza. In secondo luogo la disperazione esistenziale in cui il poeta si
trova a compiere una ricerca che è sempre in
fieri, che non offre esiti indiscutibili e oggettivamente apprezzabili, ma
è fatta di slittamenti di senso, conquiste provvisorie e spesso amare della
coscienza.
A
fronte di questo sforzo poco o nulla remunerato, che prevede gioie segrete, ma così
interiori da chiedersi se siano davvero esistite, ci si aspetta che il poeta a
un certo punto allenti la presa, faccia altro. Invece c’è un evento imprevisto
con cui confrontarsi: il poeta scrive, continua a scrivere contro ogni logica
sociale, contro ogni convenienza personale. Non tutti, certamente. L’imperativo
di Fortini, “scrivi”, riassume proprio la sua fede nell’atto dello scrivere
come testimonianza etica, la sua forza nel continuare a interrogare il mistero,
nonostante le risposte incerte e l’indifferenza della società. Una gratuità
eroica che nell’ampliamento della consapevolezza individuale trova il suo premio
doloroso.
In
alto, L’uomo che cammina di Alfredo
Giacometti [1901-1966]
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