Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

giovedì 19 aprile 2012

questionario dipoesia (39)




 Mario Fresa
Questionario di poesia (39)


Matteo Zattoni











Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Ogni libro è un organismo. Il segreto non è nella progettualità razionale e a priori, ma nel suo respiro interno. Ogni libro vive di vita propria, tende a una coerenza interna e ha uno scopo comunicativo, affronta una tematica specifica, benché non preordinata. Nel mio libro d’esordio, Il nemico, proponevo fin dal titolo il rovesciamento della relazione d’amore in un’amorosa inimicizia, che prevede una calcolata strategia di reciproca conoscenza. Per quanto riguarda Il peso degli spazi, invece, l’esperienza dell’io ruotava intorno ai luoghi, claustrofobici o prediletti, onirici o metafisici: quello spazio finito dell’hic et nunc che è il limite umano al nostro desiderio di ubiquità. Ancora: L’estraneo bilanciato sviscerava il rapporto tra l’individuo e la società, vista in modo assai distante da quella “social catena” leopardiana che dovrebbe coalizzarci per uno scopo nobile; al contrario l’uomo è contenuto passivamente dalla società, svilito e marginalizzato, a volte persino braccato, come accade nelle guerre. Il prossimo lavoro, di cui Promesse vegetali costituisce una tappa importante, affronterà più scopertamente la tematica familiare: ho cercato documenti e interrogato i parenti per estrarre le mie radici, ricostruendo i passi di una privata e dolorosa genealogia. Naturalmente ogni libro mantiene un trait d’union col precedente e col successivo, poiché è situato all’interno del medesimo processo di comprensione del reale: si tratta di una interrelazione tra entità autonome, esattamente come accade tra le singole poesie e il libro a cui appartengono.



Come nasce, in te, una poesia?

La poesia è un’apocalisse, nel senso etimologico greco di “rivelazione, svelamento”. Ma la poesia è anche scrittura e riscrittura. Da un lato c’è un contenuto rivelato così, in modo fulmineo e cristallino, dall’altro c’è una lingua in cui va tradotto e riversato, badando bene che resti integro, intatto, vivo. Nulla deve andare perso o travisato, perché l’uno non può esistere senza l’altra. Perciò il risultato di un’ispirazione istantanea può richiedere giorni e persino mesi di lavoro lungo e meticoloso per venire alla luce.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

“Il poeta è un autotrasportatore, un autista di TIR” scriveva Ennio Cavalli in un libro provocatorio fin dal titolo: Il poeta è un camionista. L’accostamento tra il poeta, simbolo della purezza, e il camionista, stereotipo della durezza, era giustificato dalla loro medesima funzione: quella di portare attraverso, al di là, trasportare, secondo il significato etimologico di “metafora”. Che cosa trasporta il poeta? La realtà o il suo simulacro, gli aspetti invisibili nell’esistente o un ideale a cui tendere in modo incessante? Lo spettro della scelta è amplissimo e dipende dalla sensibilità del singolo poeta e dall’esigenza che lo muove. Ciò che veramente rileva è proprio il suo rapporto con l’oggetto che deve essere autentico, nel senso di “fatto da sé”.



La poesia è salvazione?

In Esperienza della poesia, una breve prosa del 1947, Vittorio Sereni dà un’indicazione molto evocativa sul rapporto tra poesia e salvezza: “Ci piace pensare al poeta come a un credente che aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta”.
Il poeta prepara se stesso come un terreno, si coltiva letteralmente, sviluppa un’attenzione al reale, attende un’ispirazione che non può programmare né nei tempi né nell’intensità. In questo sta la predestinazione: nel non sapere quando e con quanta forza scorrerà la nostra ispirazione; perché in noi e non in altri o viceversa. Eppure il poeta non può rifiutare la chiamata, anzi si adopera con il labor limae e con la disciplina e gli strumenti del proprio artigianato per rendere più chiari quei frutti, più simili alla visione originaria.
Qual è il premio per questo sforzo terribile e meraviglioso? Sereni ci dice che il compimento dell’ispirazione non è la grazia; forse nessuna opera umana lo è di per sé. Tuttavia, attraverso la propria opera – e io aggiungo: anche attraverso l’opera degli altri – il poeta o il lettore possono intravedere i segni di una grazia possibile, la ricomposizione di un κόσμος, linguistico e ontologico, laddove prima era solo χάος.



A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Paragonerei la mia poesia al gioco degli scacchi che, fin dalle elementari, mi ha appassionato più della dama. Ogni singola poesia è un pezzo sulla scacchiera: alcune sono il re e la regina, altre la torre, l’alfiere o il cavallo, altre infine sono semplici pedoni. Ogni pezzo ha una sua autonomia, può e deve compiere alcuni spostamenti e non altri. Ma è solo guardando all’insieme del movimento dei pezzi che si può intuire l’idea che anima il giocatore; la sua strategia è tanto più efficace quanto più tiene conto dello sviluppo effettivo del gioco. Qual è l’avversario? Come dispone i suoi pezzi? Che senso ha questa mossa?



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Moltissimo. Per un periodo della mia vita mi faceva impressione pensare che i miei migliori amici, quelli che io consideravo tali, fossero tutti morti. Alcuni persino da secoli! Eppure la comprensione delle cose che puoi attingere da una poesia, attraverso la sapienza poetica che ci è stata tramandata, non trova un corrispettivo soddisfacente nelle forme del vivere sociale. Per la natura stessa degli argomenti trattati, la poesia rimane il veicolo privilegiato per accogliere la profondità, i silenzi, il paziente lavoro di scavo che ogni uomo compie dentro se stesso. Ciò che emerge sotto una forma ritmica o musicale è qualcosa che, altrimenti, si fatica ad ammettere anche nei rapporti più intimi ed autentici: la consapevolezza può essere dolorosa e persino spaventosa. Tuttavia la poesia insegna a non accontentarsi della prima risposta, a non voltare il capo, a stare eroicamente di fronte alla realtà, anche la più cruda e ingiusta.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Premetto che in ogni poeta è rintracciabile un diverso grado di mascheramento, che può dipendere tanto da una scelta consapevole, quanto da una predisposizione inconscia o persino da una necessità interiore, dunque qui si ragiona di un personalissimo dover essere della poesia. Non esiste un grado “giusto” di finzione o di autenticità, anche se ritengo che gli estremi siano da rigettare in entrambe le direzioni.
Da un lato, una finzione preponderante o addirittura totale difficilmente conserva in sé l’autenticità interna di cui ha bisogno la poesia per esplicare la propria forza; cosa diversa dal mascheramento è – invece – l’immedesimazione completa nella vita altrui, che deve però avere ragioni profonde quanto quelle dell’esperienza personale, nascendo da un sentimento a metà tra la pietas e l’empatia.
Dal lato opposto, però, l’opera di un poeta non dovrebbe mai essere fatta coincidere con la sua biografia. Sarebbe riduttivo o fuorviante sovrapporre l’io dell’autore all’autore stesso; e ciò vale per tutta la letteratura, talvolta persino per quella dichiaratamente autobiografica. Certamente la poesia è collegata a un’esperienza biologica poiché un certo modo di fare poesia è plausibile per tutti e in ogni tempo solo se proviene da quel corpo di quell’uomo che ha fatto una determinata esperienza in un dato momento storico. È un paradosso che porta a far convergere la massima particolarità e il massimo universalismo.
Tuttavia la distanza della poesia dal suo autore permane non diversamente da quanto accade nel rapporto genitoriale: il figlio potrà assomigliare al padre, recherà in sé molte sue caratteristiche, ma non sarà mai esattamente il padre. In questo condivido la posizione del Prof. Alberto Casadei quando scrive che “la forma poetica, di qualunque natura sia, costituisce comunque una separazione dal continuum biologico, dunque una creazione complessa, come può esserlo, materialmente, un qualunque essere pluricellulare”. Muovendo da questa visione organica dell’atto creativo, potrei concludere che l’io poetico non costituisce tanto una maschera dell’io biografico, quanto una selezione o una sintesi. Il vero io è, in realtà, un “noi”. Rimbaud direbbe che “JE est un autre”, aprendo alla trascendenza del poeta veggente.



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Come sostiene Magrelli in Didascalie per la lettura di un giornale: “Le poesie vanno sempre rilette, / lette, rilette, lette, messe in carica; / ogni lettura compie la ricarica, / sono apparecchi per caricare senso”. In un certo senso tutti i poeti che sono stati rigorosi e autentici andrebbero ricordati, poiché hanno svolto un’opera etica di costruzione e ricostruzione del reale. Per limitarmi alla mia zona, la Romagna, direi senz’altro Ferruccio Benzoni di Cesenatico, fra gli animatori della rivista “Sul porto” e poeta disperato. Ma voglio anche ricordare Tolmino Baldassari, scomparso nel 2010. Ho avuto il privilegio di incontrarlo nella sua casa tra i pini di Cannuzzo di Cervia, grazie al comune amico Stefano Maldini: nel 2001 aveva letto dei miei inediti su una rivista, si era fatto dare il mio numero e una sera mi telefonò per complimentarsi. Pur essendo autodidatta, si era costruito una cultura profonda, come testimoniava la sua biblioteca di circa tremila volumi. I suoi versi nel dialetto di Castiglione di Cervia salvano una storia fatta di neve, di rane, di una nonna che spigola e, di storni in volo, ma anche di grondaie e di ombre.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Mi viene in mente l’ammonimento di Auden: “Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre”. Dunque il dono che augurerei a un poeta è, innanzi tutto, quello di rimanere tale, di non inaridirsi o appiattirsi sui luoghi comuni sia del pensiero sia della lingua. Per mantenere questo senso di meraviglia e di stupore verso le cose è necessario rallentare ogni tanto, affinare o allargare lo sguardo a seconda del proprio oggetto, sapersi abbandonare a un’intuizione, scoprire l’universale laddove gli altri si fermano a un particolare.
Sono tanti i doni che servono, specialmente in un tempo in cui le occasioni di dispersione superano di gran lunga quelle di raccoglimento e la lingua subisce quotidianamente l’assalto dei mass media. L’impoverimento, l’omologazione e il depotenziamento delle parole vanno in parallelo con la perdita di senso del mondo che esse rappresentano. La poesia incarna una delle poche forme di resistenza al processo globale di mercificazione e di svalutazione della figura umana che celebra l’individualismo amorale e l’economia come fine ultimo. Pertanto ciò che auguro a un poeta, ma direi a ogni uomo, è di non accontentarsi dei surrogati, bensì di preservare e perseguire la propria vocazione più alta. Per citare ancora Auden: “Non vi occorre vedere che cosa uno fa / per sapere se quella è la sua vocazione, / avete solo da guardare i suoi occhi”.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Fra i tantissimi, scelgo il famoso finale di Traducendo Brecht di Fortini: “la poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”. Credo racchiuda l’essenza moderna della condizione del poeta: in primo luogo lo sgretolamento della sua funzione sociale, la sua apparente incapacità di incidere sulla realtà contemporanea che genera in lui frustrazione e un senso di impotenza. In secondo luogo la disperazione esistenziale in cui il poeta si trova a compiere una ricerca che è sempre in fieri, che non offre esiti indiscutibili e oggettivamente apprezzabili, ma è fatta di slittamenti di senso, conquiste provvisorie e spesso amare della coscienza.
A fronte di questo sforzo poco o nulla remunerato, che prevede gioie segrete, ma così interiori da chiedersi se siano davvero esistite, ci si aspetta che il poeta a un certo punto allenti la presa, faccia altro. Invece c’è un evento imprevisto con cui confrontarsi: il poeta scrive, continua a scrivere contro ogni logica sociale, contro ogni convenienza personale. Non tutti, certamente. L’imperativo di Fortini, “scrivi”, riassume proprio la sua fede nell’atto dello scrivere come testimonianza etica, la sua forza nel continuare a interrogare il mistero, nonostante le risposte incerte e l’indifferenza della società. Una gratuità eroica che nell’ampliamento della consapevolezza individuale trova il suo premio doloroso.







 
In alto, L’uomo che cammina di Alfredo Giacometti [1901-1966]










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