Mario Fresa
Questionario di poesia (40)
Giorgio Bonacini
Qual è il
segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Non
c’è un segreto o un’intenzione volutamente nascosta, ma un desiderio di riuscire
a scrivere poesia con parole che riescano a dire il vero che sta in un continuo senso iniziale e in una significazione finale
forse sfiorabile, ma in sé irraggiungibile. E’ il mio tentativo. Forse in
qualche poesia l’ho sentito vicino, ma non so se l’ho raggiunto. Vorrei che la
scrittura fosse veramente la sostanza di un pensiero poetico che riempie di sé
un mondo: che parte da questo in cui siamo ma arriva a dar forma a un altro. Come
dice Joë Bousquet: Non una riga senza
aver pensato o sentito ciò che essa scrive.
Come nasce, in
te, una poesia?
In
modi sempre diversi, anche all’interno di una stessa serie di poesie. Un’idea,
un’immagine, una parola letta, ascoltata o detta, una lettura, una situazione
che mi porta a pensare: in definitiva da tutto ciò che è la vita. Prendo
appunti su foglietti e poi quando sento che è il momento comincio a scrivere. E
inizio subito a definire se sarà una sola poesia o una sequenza o un poemetto:
questo mi permette di sviluppare l’andamento del testo e a far sì che la sua
scrittura sia quella che deve essere per quella struttura formale e
sostanziale. E’ per questo ogni mio libro è diverso dall’altro; e anche perché
io sono diverso da un libro all’altro.
Il poeta parla
di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli
sfugge?
Il
poeta vorrebbe forse vivere realmente ciò che scrive, ma questo gli riesce solo
in parte: ma quella parzialità (molto umana) è proprio la parte necessaria per
dire e dare una voce al suo desiderio, che è un luogo pensante e tortuoso. Ma
il mondo del poeta non è relegato in una dimensione personale: è un mondo che
vorrebbe essere singolarmente collettivo. Così la poesia che il poeta consegna
al lettore (anche a lui stesso quando è lettore di sé) ha un senso che appare
indefinito perché è sempre in attesa di avvicinarsi a una compiutezza, una fra
le tante, da chi sente di ricevere un dono inaspettato. Dunque il poeta, alla
fine, parla di qualcosa che pensa ma non sa ancora. E credo che questo non
sapere sia il motore del suo dire incessante, inattuale e costantemente in prova.
La poesia è
salvazione?
La poesia è un fare, e mentre opera con
il suo scrivere e dire ha cura del
nostro naufragio. Non so se ci salvi, ma di certo ci aiuta a respirare e a
considerare, anche nei patimenti, la possibilità di una conoscenza diversa, non
comune. La poesia vive e costruisce la possibilità di un senso nella calma e
nelle intemperie ed è lasciandosi andare alla sua corrente (Sbarbaro,
estroso fanciullo, piega versicolori/carte e ne trae navicelle
che affida alla fanghiglia/mobile d'un rigagno…) che si riesce a
trovare qualcosa e un poco a trovarsi.
A quale gioco
della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Alla
scatola di montaggio del meccano. Perché si dovevano cercare e trovare i pezzi
(le parole), poi le viti, i bulloni, le corde, i ganci (la punteggiatura che dà
pause e ritmi); unirli avvitando (la disposizione dei versi) e alla fine
provare il funzionamento della gru o del montacarichi (la scrittura, il suono e
l’accensione dei sensi devono essere quelli per quella particolare poesia e non
altri).
Che cosa ti ha
insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Dalla
lettura e dalla scrittura dei testi poetici ho imparato a considerare
l’esistenza di una riflessione sulla natura e sul divenire delle cose che non è
solo quella che normalmente si chiama realtà. E che la ricerca di una lingua,
che non sia solo oscurità o chiarezza, ma indicazione per una particolare
disposizione del pensiero, è un luogo di esistenza che ha un suo corpo reale. E se anche questo può sembrare immaginario,
in chi scrive e legge poesia questo mondo si materializza nel sentire e nel
percepire l’intima dimensione del fare poetico. Scrivere versi mi ha portato
anche a considerare non la verità, ma il vero:
che non è una dimensione controllabile ed esauribile, ma una molteplice
sfaccettatura materiale e mentale, di arricchimento costante e di riformulazione
del già dato e conosciuto. Non si esce indenni dalla pratica poetica. Le
categorie ordinarie si frantumano e ne esce un rimodellamento nuovo, anche quando
questo è di difficile comprensione.
Qual è il grado
di finzione e di mascheramento di un poeta?
Credo
che in poesia, e in generale quando si è in atto di scrittura, l’io del poeta
riesca, concentrando i propri sensi e le proprie percezioni, a polverizzarsi e,
apparentemente, a dimenticarsi e a neutralizzarsi
nell’opera. Ciò non significa che l’autore debba scomparire, ma, anche quando
parla di sé, deve cercare di dire la voce e la parola che va detta : e non solo
la sua voce e la sua parola. Si può chiamare finzione o mascheramento questo
sgretolarsi e ricompattarsi in altro? Forse sì, ma solo se pensiamo che non sia
la poesia a essere finzione o maschera per il poeta, ma il contrario: è il
poeta a essere maschera/finzione della poesia. Un’astuzia della scrittura!
Vorresti citare
un poeta da ricordare e da rivalutare?
Adriano
Spatola, per la sua coerenza poetica e intellettuale e per aver esplorato tutte
le possibilità poetiche: quelle visive (Zeroglifici), quelle sonore (Aviation aviateur)
quelle lineari (tutte le sue poesie), quelle editoriali (Tam Tam e Geiger) per
arrivare a praticare quella Poesia totale
di cui è stato teorico e che ha cercato di sistematizzare in un importante
saggio. E tutto questo con il dono dell’amicizia.
Qual è il dono
che augureresti a un poeta, oggi?
Di
continuare a leggere le poesie degli altri poeti, meditarne le parole come se
fossero proprie e lasciarsi andare alla contemplazione delle proprie immagini:
quelle che si vedono dopo aver letto. E di continuare a scrivere quando è
necessario scrivere, nello stupore di ciò che si crea con la parola, sapendo
che anche un solo lettore è un dono felicemente inesplicabile.
Puoi citare,
spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
A
parte E il naufragar m’è dolce in questo
mare, da cui tutti i poeti dovrebbero provare a partire e arrivare, cito
questi due versi di Wallace Stevens: “There
it was, word for word,/ The poem that
took the place of a mountain.” (Era là, parola per parola,/la poesia che
prese il posto di un monte). Dove
dice tutta la possibilità di dare forma, corpo e concretezza a un mondo con la
poesia. Ma non un poetare astratto, bensì con la parola, fatta fonia e grafia,
e sequenzialità e scelte concettuali che diventano, roccia, montagna. E non una
montagna altra in un mondo a parte, ma un’invenzione diversa della montagna che
c’è.
In alto, un dipinto di Carlo Carrà [1881-1966]
In alto, un dipinto di Carlo Carrà [1881-1966]
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