Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

martedì 10 aprile 2012

questionario di poesia (38)







 Mario Fresa
Questionario di poesia (38)



Anna Ruotolo







 
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



Credo si avvicini al divenire. Scrivere, per me e per il momento, presuppone un’esplorazione di sé, del resto della specie, del reale e anche del fittizio. Il concetto di divenire forse stride col concetto di progetto - perché l’uno è mobile, l’altro ha le fattezze della programmazione, dello scopo dato, del risultato cercato - ma dà il senso di una durata, di un continuo. Per cui il progetto profondo si potrà capire solo camminando, solo procedendo. Dunque il progetto vero è il procedere. È, insieme, cammino e  risultato. 





Come nasce, in te, una poesia?



C’è un momento appena prima di usare la penna o una tastiera o una matita che si sente come uno stato di sollevamento e, poi, di radar accesi verso l’esterno. C’è quasi un momento di comunione con gli stimoli che vengono da fuori. Tradurre questi e farli aderire al proprio laboratorio interiore è il successivo scrivere versi. 





Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Riprendo l’immagine dell’esplorazione. Se scrivere equivale ad esplorare, certamente succede di trasferire nelle poesie il proprio bagaglio: questo sarà di consistenza varia e di sfumature diverse. A me è capitato anche di fare della poesia che qualcuno ha definito “bianca” per la sua possibilità di essere applicata e riferita a un campione più ampio. Mi spiego: nel mio libro d’esordio, per esempio, esiste un fortissimo rimando al binomio spazio-tempo declinato in vari modi, non ultimi il tempo che sfugge e un posto che non si ha. Il tutto, però, si ricompone in uno “spazio di mezzo”, una “durata” che risolve, almeno negli intenti, i contrasti. È un ricomporre le fratture, correggere i contrattempi e riavvicinare le geografie. Quindi le due cose, il “vivere” e “ciò che si vorrebbe vivere” si presuppongono a vicenda. L’uno tiene l’altro e l’uno misura l’altro. Bisogna fare i conti con entrambi, credo. 





La poesia è salvazione?



Quando ho letto “salvazione” mi sono venute in mente quattro cose: il verso dantesco “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, il capitolo Il canto di Ulisse in Se questo è un uomo di Primo Levi, la poesia di Erri De Luca Classifica del fuoco, una cosa detta da Mario Luzi: “Noi siamo quello che ricordiamo. Il racconto è ricordo. E il ricordo è vivere”. Vorrei poter spiegare tutto e bene, nonostante abbia riportato esempi molto chiari, pienissimi di senso e che non hanno bisogno di una mia maldestra esegesi. Ci provo. Certo, la poesia è salvazione, ma lo è se porta con sé dei meccanismi: coscienza profonda di sé, discesa nel pensiero, consapevolezza dell’umano (inteso in senso generico e generale), fermezza nel ricordo. Tutto ciò diventa consolazione e, poi, vigore. Oggi, checché se ne dica e molto più che altre materie, la poesia sembra conservare e portare un altissimo insegnamento di tenacia, resistenza. Queste cose certamente hanno basi profonde e vengono da lontano, lampeggiano negli esempi citati. Ma se eccettuiamo, solo ed esclusivamente per un fatto temporale, la citazione per eccellenza (quella di Dante), possiamo comunque vedere che il resto dei rimandi più su fatti è tutto moderno, figlio di un percorso che non si è concluso nel passato (e che non potrebbe concludersi, pur volendo) e quindi ci riguarda proprio da vicino.

Il poema di Dante è tutto imperniato sulla dimostrazione di una salita che non risparmia il dolore e l’incertezza. Ma quel verso, proprio quello, ha la consistenza del respiro dopo il soffocamento. Ha il guadagno del bene e del bello dopo la caduta e l’angoscia, quale che essa sia. Non è un caso l’analisi della Commedia fatta da Levi. Ricordare con l’internato Jean, durante il cammino per prelevare la zuppa nel campo di Auschwitz, cosa significasse quel magnifico verso “fatti non foste a viver come bruti…” è una piccola salita verso il recupero dell’umanità, della ragione, del sentimento, della conoscenza contro l’abbrutimento inflitto dal sistema concentrazionario, dal meccanismo-lavoro e, in definitiva, dall’appiattimento delle personalità e delle coscienze. Un ideale, compartecipato cammino, oltre i secoli, verso la salvezza che diventa reale.

Erri De Luca ha spesso raccontato del poeta e amico fraterno Izet Sarajlic che nei freddi inverni di guerra a Sarajevo si scaldava bruciando il contenuto prezioso della sua biblioteca e ne ha fatto poesia su una classifica del fuoco di libri da sacrificare per farsi caldo, per trovare ristoro. Il primo inverno bruciarono i filosofi, il secondo i romanzieri, il terzo il teatro. Il quarto inverno toccava alla poesia finire nelle fiamme, ma la guerra terminò e la risparmiò. “Ultima destinata la poesia, in guerra la più urgente”, recita la chiusa. Mi è sempre piaciuto riflettere su questo, sulla necessità di un apporto salvifico della poesia in un momento tanto estremo, drammatico. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che più che salvezza siamo di fronte ad una cura consolatoria, un palliativo. Ma non credo sia così semplice, così scontato. E spiego adesso perché, parlando dell’ultima - ma non in importanza - corda/salvagente lanciata dalla poesia: il ricordo. Anzi, la durata del ricordo. La mappa del tempo ci serve, non potremmo farne a meno. Serve a dare un senso a innumerevoli vedute nuove. Più che la storia (che si ripete e nella quale si ripetono gli stessi errori - si sa, si dice sempre) la poesia non svilisce il già accaduto. Semplicemente lo rende sempre valido, sempre lampante. È uno specchio, ci rimanda a noi stessi. Un uomo o una donna davanti ad una poesia riflettono: come soggetti e come oggetti. Nel primo senso riflettono perché sono portati a spiegarsi un certo sentire che ha del divino, dell’eterno, nel secondo senso perché sono messi, appunto, di fronte ad uno specchio che riproduce la stessa immagine che si incarna. Nulla di diverso. Non così di fronte alla storia che è, piuttosto, un vetro oltre il quale si può (se si vuole) guardare ma che può rivelarsi ombrato, parziale. E comunque è un osservare praticato da spettatori, a debita distanza. L’uomo verso il fatto storico è reattivo ma in modo passivo, sente l’ineluttabilità del già accaduto e del continuo ritorno; egli rinuncia, perciò, alla sua partecipazione attiva all’avvenimento. La poesia porta l’umano, il suo carico sentimentale: qui l’uomo deve sforzarsi di fare la sua parte, prenderla per gradi, interpretarla, riviverla, patirla e sentirla tutta perché essa parla sostanzialmente di lui e per lui. L’uomo si sente fabbro del proprio destino, libero di forgiarlo, perché la poesia dà un sentore di verità irrinunciabile, accende più di un sentiero, predispone analogie che vanno a segno. Così per tutti coloro che vi si accostano è necessario un cammino di ricomposizione e questo è fatica ma anche compartecipazione al mondo, sempre, in modo costante. È il cammino della “salvezza”, poiché è un ritrovarsi. Cito un passo della filosofa Marìa Zambrano in Per una Storia della Pietà: “Novella e poesia hanno riflettuto, meglio della conoscenza storica, la verità del passato, la verità delle cose che accadono agli uomini e i loro sentimenti più intimi” (potremmo allora ritornare a Primo Levi e alla funzione della letteratura - e della poesia, in particolare - dopo Auschwitz, mezzo privilegiato - forse l’unico possibile - per raccontare una storia che non poteva prescindere da materie poco classificabili come i sentimenti. Unico modo per riprendersi la propria dignità, il proprio destino. Anche se, come sappiamo, il cammino di Levi si interruppe in una caduta nella tromba delle scale…). La poesia non insegna ma mette sotto il naso un senso. Non moralizza, non si mette dalla parte dei vincitori, non biasima i vinti. È la nostra codificazione spirituale e sempre valida perché somiglia a noi, alle nostre coscienze prima che agli eventi e alle azioni. La poesia ci salva, sempre. L’ha fatto sempre, nel tempo, perché ci mette di fronte a noi stessi in una maniera universale e, in questo tutto, ci avvicina agli altri abitanti dello spazio totale. Dunque se parla di sofferenza è nostra sofferenza e quella di tutti. Così anche se ci parla di un sentimento alto, un’evidenza, una prova, una ragione di vita. La poesia ci salva perché dice silenziosamente di noi a noi stessi, aspetta che siamo noi a recuperare quel che ci suggerisce. Non grida, non si affretta. Attende, paziente, che diventiamo i salvatori di noi stessi per mezzo del suo strumentario.





A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



C’è una cosa che feci, una volta. Non proprio un gioco ma comunque un modo di passare il tempo in modo creativo. Avevo ricevuto da mia madre una scatola bianca di una bomboniera. Il coperchio, mobile, si fermava al resto della struttura con un nastrino e dentro aveva un fondo di stoffa in raso bianco lucido. Mangiai i confetti, presi l’involucro di merletto argentato e lo poggiai dentro. Sopra collocai cinque biglie cangianti di colore blu, dorato, argento e verde. Poi dipinsi il fondo del coperchio di blu e disegnai delle stelline con un pennarello argento. Quella diventò la mia scatola di cose celesti, belle e particolari. Non ci giocavo mai perché, una volta assemblata così, passavo del tempo solamente ad ammirarla. Sembrava un piccolo cielo in scatola. E poi la tenevo al riparo dalle sorelle, mamma, altri bambini. Era il mio segreto da svelare, quando sarebbe arrivato il tempo, solo a poche persone. Ricostruire, senza presunzione di riuscirci perfettamente, l’architettura della bellezza e dell’armonia nell’umano con le cose povere che hai attorno: fare poesia un po’ somiglia a questo.





Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



La pazienza, soprattutto. C’è una testimonianza della Achmatova che mi vale come regola: I versi affluiscono senza sosta ma, come sempre, li caccio, finché non ne ascolto uno autentico.”
 




Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Penso sia quello necessario affinché le cose personalissime e troppo contingenti vengano filtrate dal mezzo espressivo per diventare comuni, plurali, somiglianti al maggior numero possibile di lettori. Non voglio pensare ad un’altra opzione di finzione o mascheramento. Non sarebbe corretto, forse nemmeno lecito. Ma ognuno, alla fine, applica le sue regole e le sue convinzioni. Io non posso giudicare.





Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Alfonso Gatto. Per avere una sua raccolta organica e vederlo tolto da un certo silenzio abbiamo dovuto aspettare trent’anni circa dalla sua morte, fino a quando non è uscito il lavoro “Tutte le poesie” per i tipi di Mondadori (Oscar Grandi Classici, Milano 2005) a cura di Silvio Ramat. E da molti A. Gatto è ancora considerato un poeta minore. Non è così. Non è così.





Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



La costanza nella (proprio in, dentro…) pazienza.





Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Dalla poesia Anni dopo di Vittorio Sereni: “Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta e difendici amicizia.” proprio perché racchiude un po’ il discorso fatto sopra sulla storia, i sentimenti, l’umano. Solo in poesia si poteva chiedere a due entità che patiamo, cresciamo dentro e hanno equilibri altissimi, quelle che sorpassano la necessità e si mettono anche da parte se serve (nell’errata convinzione tutta umana - non loro - che qualcuno possa prescinderle), quelle stesse entità che ci congiungono l’uno all’altro (e di questo non possiamo farne a meno), di starci accanto sempre. Come se Sereni, dopo aver parlato di tutto ciò che riteneva urgente, avesse condensato in questi due versi tutto il necessario, la soluzione. Tutto ciò che resta immutato, ciò che conta. Un’eredità eterna.



















In alto, Santa Cecilia e l’Angelo di Carlo Saraceni [1579-1620]

















Nessun commento:

Posta un commento

© RIPRODUZIONE RISERVATA