Mario Fresa
Questionario di poesia (38)
Anna Ruotolo
Qual
è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Credo
si avvicini al divenire. Scrivere,
per me e per il momento, presuppone un’esplorazione di sé, del resto della
specie, del reale e anche del fittizio. Il concetto di divenire forse stride col concetto di progetto - perché l’uno è mobile, l’altro ha le fattezze della
programmazione, dello scopo dato, del risultato cercato - ma dà il senso di una
durata, di un continuo. Per cui il progetto profondo si potrà capire solo
camminando, solo procedendo. Dunque il progetto vero è il procedere. È,
insieme, cammino e risultato.
Come
nasce, in te, una poesia?
C’è
un momento appena prima di usare la penna o una tastiera o una matita che si
sente come uno stato di sollevamento e, poi, di radar accesi verso l’esterno.
C’è quasi un momento di comunione con gli stimoli che vengono da fuori.
Tradurre questi e farli aderire al proprio laboratorio interiore è il successivo
scrivere versi.
Il
poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che
sempre gli sfugge?
Riprendo
l’immagine dell’esplorazione. Se scrivere equivale ad esplorare, certamente
succede di trasferire nelle poesie il proprio bagaglio: questo sarà di
consistenza varia e di sfumature diverse. A me è capitato anche di fare della
poesia che qualcuno ha definito “bianca” per la sua possibilità di essere
applicata e riferita a un campione più ampio. Mi spiego: nel mio libro
d’esordio, per esempio, esiste un fortissimo rimando al binomio spazio-tempo
declinato in vari modi, non ultimi il tempo che sfugge e un posto che non si
ha. Il tutto, però, si ricompone in uno “spazio di mezzo”, una “durata” che
risolve, almeno negli intenti, i contrasti. È un ricomporre le fratture,
correggere i contrattempi e riavvicinare le geografie. Quindi le due cose, il
“vivere” e “ciò che si vorrebbe vivere” si presuppongono a vicenda. L’uno tiene
l’altro e l’uno misura l’altro. Bisogna fare i conti con entrambi, credo.
La
poesia è salvazione?
Quando
ho letto “salvazione” mi sono venute in mente quattro cose: il verso dantesco “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, il
capitolo Il canto di Ulisse in Se questo è un uomo di Primo Levi, la poesia
di Erri De Luca Classifica del fuoco,
una cosa detta da Mario Luzi: “Noi siamo
quello che ricordiamo. Il racconto è ricordo. E il ricordo è vivere”.
Vorrei poter spiegare tutto e bene, nonostante abbia riportato esempi molto
chiari, pienissimi di senso e che non hanno bisogno di una mia maldestra
esegesi. Ci provo. Certo, la poesia è salvazione, ma lo è se porta con sé dei
meccanismi: coscienza profonda di sé, discesa nel pensiero, consapevolezza
dell’umano (inteso in senso generico e generale), fermezza nel ricordo. Tutto
ciò diventa consolazione e, poi, vigore. Oggi, checché se ne dica e molto più
che altre materie, la poesia sembra conservare e portare un altissimo
insegnamento di tenacia, resistenza. Queste cose certamente hanno basi profonde
e vengono da lontano, lampeggiano negli esempi citati. Ma se eccettuiamo, solo
ed esclusivamente per un fatto temporale, la citazione per eccellenza (quella
di Dante), possiamo comunque vedere che il resto dei rimandi più su fatti è
tutto moderno, figlio di un percorso che non si è concluso nel passato (e che
non potrebbe concludersi, pur volendo) e quindi ci riguarda proprio da vicino.
Il
poema di Dante è tutto imperniato sulla dimostrazione di una salita che non
risparmia il dolore e l’incertezza. Ma quel verso, proprio quello, ha la
consistenza del respiro dopo il soffocamento. Ha il guadagno del bene e del
bello dopo la caduta e l’angoscia, quale che essa sia. Non è un caso l’analisi
della Commedia fatta da Levi. Ricordare con l’internato Jean, durante il
cammino per prelevare la zuppa nel campo di Auschwitz, cosa significasse quel
magnifico verso “fatti non foste a viver
come bruti…” è una piccola salita verso il recupero dell’umanità, della
ragione, del sentimento, della conoscenza contro l’abbrutimento inflitto dal
sistema concentrazionario, dal meccanismo-lavoro e, in definitiva, dall’appiattimento
delle personalità e delle coscienze. Un ideale, compartecipato cammino, oltre i
secoli, verso la salvezza che diventa reale.
Erri
De Luca ha spesso raccontato del poeta e amico fraterno Izet Sarajlic che nei
freddi inverni di guerra a Sarajevo si scaldava bruciando il contenuto prezioso
della sua biblioteca e ne ha fatto poesia su una classifica del fuoco di libri
da sacrificare per farsi caldo, per trovare ristoro. Il primo inverno
bruciarono i filosofi, il secondo i romanzieri, il terzo il teatro. Il quarto
inverno toccava alla poesia finire nelle fiamme, ma la guerra terminò e la
risparmiò. “Ultima destinata la poesia,
in guerra la più urgente”, recita la chiusa. Mi è sempre piaciuto
riflettere su questo, sulla necessità di un apporto salvifico della poesia in
un momento tanto estremo, drammatico. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che
più che salvezza siamo di fronte ad una cura consolatoria, un palliativo. Ma
non credo sia così semplice, così scontato. E spiego adesso perché, parlando
dell’ultima - ma non in importanza - corda/salvagente lanciata dalla poesia: il
ricordo. Anzi, la durata del ricordo.
La mappa del tempo ci serve, non potremmo farne a meno. Serve a dare un senso a
innumerevoli vedute nuove. Più che la storia (che si ripete e nella quale si
ripetono gli stessi errori - si sa, si dice sempre) la poesia non svilisce il
già accaduto. Semplicemente lo rende sempre valido, sempre lampante. È uno
specchio, ci rimanda a noi stessi. Un uomo o una donna davanti ad una poesia riflettono: come soggetti e come
oggetti. Nel primo senso riflettono perché sono portati a spiegarsi un certo
sentire che ha del divino, dell’eterno, nel secondo senso perché sono messi,
appunto, di fronte ad uno specchio che riproduce la stessa immagine che si
incarna. Nulla di diverso. Non così di fronte alla storia che è, piuttosto, un
vetro oltre il quale si può (se si vuole) guardare ma che può rivelarsi
ombrato, parziale. E comunque è un osservare praticato da spettatori, a debita
distanza. L’uomo verso il fatto storico è reattivo ma in modo passivo, sente l’ineluttabilità
del già accaduto e del continuo ritorno; egli rinuncia, perciò, alla sua
partecipazione attiva all’avvenimento. La poesia porta l’umano, il suo carico
sentimentale: qui l’uomo deve sforzarsi di fare la sua parte, prenderla per
gradi, interpretarla, riviverla, patirla e sentirla tutta perché essa parla sostanzialmente
di lui e per lui. L’uomo si sente fabbro del proprio destino, libero di
forgiarlo, perché la poesia dà un sentore di verità irrinunciabile, accende più
di un sentiero, predispone analogie che vanno a segno. Così per tutti coloro
che vi si accostano è necessario un cammino di ricomposizione e questo è fatica
ma anche compartecipazione al mondo, sempre, in modo costante. È il cammino
della “salvezza”, poiché è un ritrovarsi. Cito un passo della filosofa Marìa
Zambrano in Per una Storia della Pietà:
“Novella e poesia hanno riflettuto,
meglio della conoscenza storica, la verità del passato, la verità delle cose
che accadono agli uomini e i loro sentimenti più intimi” (potremmo allora
ritornare a Primo Levi e alla funzione della letteratura - e della poesia, in
particolare - dopo Auschwitz, mezzo privilegiato - forse l’unico possibile -
per raccontare una storia che non poteva prescindere da materie poco classificabili
come i sentimenti. Unico modo per riprendersi la propria dignità, il proprio
destino. Anche se, come sappiamo, il cammino di Levi si interruppe in una
caduta nella tromba delle scale…). La poesia non insegna ma mette sotto il naso
un senso. Non moralizza, non si mette dalla parte dei vincitori, non biasima i
vinti. È la nostra codificazione spirituale e sempre valida perché somiglia a
noi, alle nostre coscienze prima che agli eventi e alle azioni. La poesia ci
salva, sempre. L’ha fatto sempre, nel tempo, perché ci mette di fronte a noi
stessi in una maniera universale e, in questo tutto, ci avvicina agli altri
abitanti dello spazio totale. Dunque se parla di sofferenza è nostra sofferenza
e quella di tutti. Così anche se ci parla di un sentimento alto, un’evidenza, una
prova, una ragione di vita. La poesia ci salva perché dice silenziosamente di
noi a noi stessi, aspetta che siamo noi a recuperare quel che ci suggerisce.
Non grida, non si affretta. Attende, paziente, che diventiamo i salvatori di
noi stessi per mezzo del suo strumentario.
A
quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
C’è
una cosa che feci, una volta. Non proprio un gioco ma comunque un modo di passare
il tempo in modo creativo. Avevo ricevuto da mia madre una scatola bianca di una
bomboniera. Il coperchio, mobile, si fermava al resto della struttura con un
nastrino e dentro aveva un fondo di stoffa in raso bianco lucido. Mangiai i
confetti, presi l’involucro di merletto argentato e lo poggiai dentro. Sopra
collocai cinque biglie cangianti di colore blu, dorato, argento e verde. Poi
dipinsi il fondo del coperchio di blu e disegnai delle stelline con un
pennarello argento. Quella diventò la mia scatola di cose celesti, belle e
particolari. Non ci giocavo mai perché, una volta assemblata così, passavo del
tempo solamente ad ammirarla. Sembrava un piccolo cielo in scatola. E poi la
tenevo al riparo dalle sorelle, mamma, altri bambini. Era il mio segreto da
svelare, quando sarebbe arrivato il tempo, solo a poche persone. Ricostruire,
senza presunzione di riuscirci perfettamente, l’architettura della bellezza e
dell’armonia nell’umano con le cose povere che hai attorno: fare poesia un po’ somiglia
a questo.
Che
cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
La
pazienza, soprattutto. C’è una testimonianza della Achmatova che mi vale come
regola: “I versi affluiscono senza sosta ma, come
sempre, li caccio, finché non ne ascolto uno autentico.”
Qual
è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Penso
sia quello necessario affinché le cose personalissime e troppo contingenti
vengano filtrate dal mezzo espressivo per diventare comuni, plurali,
somiglianti al maggior numero possibile di lettori. Non voglio pensare ad
un’altra opzione di finzione o mascheramento. Non sarebbe corretto, forse
nemmeno lecito. Ma ognuno, alla fine, applica le sue regole e le sue
convinzioni. Io non posso giudicare.
Vorresti
citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Alfonso
Gatto. Per avere una sua raccolta organica e vederlo tolto da un certo silenzio
abbiamo dovuto aspettare trent’anni circa dalla sua morte, fino a quando non è
uscito il lavoro “Tutte le poesie” per i tipi di Mondadori (Oscar Grandi
Classici, Milano 2005) a cura di Silvio Ramat. E da molti A. Gatto è ancora
considerato un poeta minore. Non è così. Non è così.
Qual
è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
La
costanza nella (proprio in, dentro…) pazienza.
Puoi
citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Dalla
poesia Anni dopo di Vittorio Sereni:
“Dunque ti prego non voltarti
amore / e tu resta
e difendici amicizia.” proprio perché racchiude
un po’ il discorso fatto sopra sulla storia, i sentimenti, l’umano. Solo in poesia
si poteva chiedere a due entità che patiamo, cresciamo dentro e hanno equilibri
altissimi, quelle che sorpassano la necessità e si mettono anche da parte se
serve (nell’errata convinzione tutta umana - non loro - che qualcuno possa
prescinderle), quelle stesse entità che ci congiungono l’uno all’altro (e di
questo non possiamo farne a meno), di starci accanto sempre. Come se Sereni,
dopo aver parlato di tutto ciò che riteneva urgente, avesse condensato in
questi due versi tutto il necessario, la soluzione. Tutto ciò che resta
immutato, ciò che conta. Un’eredità
eterna.
In alto, Santa Cecilia
e l’Angelo di Carlo Saraceni [1579-1620]
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