Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

venerdì 23 dicembre 2011

questionario di poesia (26)


Mario Fresa

     Questionario di poesia (26)

Ennio Abate







 
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



In una poesia del ’92-’93, quasi in tema, avevo dichiarato: «La mia scrittura scriptura / non è progettabile / interrompibile è pienamente / da voi dal freddo / da familiari e amici».[1] E perciò il pensiero che la mia scrittura (poetica) possa essere stata “a progetto”, segreto per giunta, mi ha fatto subito sorridere. Riflettendoci, però, devo dire che nelle raccolte pubblicate tardi e fortunosamente,[2] un progetto s’è delineato: narrare in  forme “lirico-epiche” la mia esperienza dentro l’immigratorio italiano; cioè dentro la vicenda storica dell’immigrazione, che mi ha spostato, assieme a tanti, dal Sud Italia contadino-artigianale al Nord metropolitano-industriale negli anni ’60-’70 del Novecento. In un primo momento prevedevo una ricomposizione di tre conglomerati di  episodi, luoghi e persone: una sorta di trilogia lineare, progressiva, ascendente, “simil-dantesca”. Ne pubblicai un’anticipazione nel 1989, intitolandola Salernitudine/Immigratorio/Samizdat. Successivamente, complesse ragioni, che sarebbe lungo spiegare, mi convinsero a spezzare quella linearità fin troppo ascensionale. Ho, quindi, trattato e pubblicato pezzo per pezzo ciascun blocco, riordinato la materia attorno a personaggi-maschere (Samizdat e/o prof Samizdat; Vulisse); e continuato, in parallelo, a scandagliarla, oltre che in poesia, anche in prosa e in forme grafico-pittoriche. Al momento (alla fine?) ho dato più risalto a Immigratorio[3], che non considero più sezione della primitiva “trilogia”, ma  simbolo riepilogativo della biografia e della storia “fondative” della mia scrittura.



Come nasce, in te, una poesia?



Da una inquietudine emotivo-intellettuale di fronte al “mondo” (percepito, intravisto, immaginato, temuto, desiderato). Scrivendo, essa man mano si fa dialogo, polemica e (al meglio) critica. Un esempio: la poesia Scriptura che ho qui riportato. È dialogo: con me stesso, ma pure con un potenziale lettore, che ho immaginato mio “complice” eppure “ipocrita”, cioè più pacato e contemplativo di me. È polemica, perché i cenni alla realtà  “extrapoetica” (vita di città, preoccupazioni quotidiane, il trenino dei pendolari) irritano ogni quieto contemplatore. È critica (qui abbastanza sotterranea) dell’ideologia di chi adopera la scrittura secondo una ritualità solenne, agiata e per pochi, sovranamente indifferente all’ansia di chi vive (e magari scrive) in condizioni precarie. (Ora, però, dopo aver risposto alla domanda, vorrei in parte contestarla. La trovo teoricamente scivolosa: una poesia “nasce” e “in me”? oppure la costruisco? e fino a che punto la costruisco io? e da solo? non assimilo forse nella “mia” costruzione elementi altrui sia di superficie - occasionali, contingenti - sia profondi, strutturali - emozionali, linguistici, culturali, storici)?



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Anche questa domanda mi sorprende. Pare dia per scontato che sia facile distinguere «ciò che realmente vive» (il poeta o un uomo qualsiasi) da ciò che classifichiamo come immaginario, sogno, utopia. Non è così. Reale e immaginario-ideologico non sono in partenza  (e nemmeno da adulti!) cose distinte. Dobbiamo faticare - oh quanto! - a distinguerle; e forse ci riusciamo soltanto in particolari momenti  della nostra esistenza e della comune storia collettiva. Inoltre, la domanda sembra suggerire che in poesia sia importante soprattutto la soggettività ricettiva del singolo. Così va in secondo piano l’elemento costruttivo, altrettanto centrale ma  più arduo da raggiungere, perché può emergere solo ci impegniamo nel dialogo-conflitto (ora più dialogo ora più conflitto) con gli “altri” e col “mondo”. Basti pensare che tra il poeta e «ciò che realmente vive» o «ciò che vorrebbe ricevere» (e, perché no, dare..) non c’è alcun filo diretto, ma c’è la lingua, che è storia e società (langue e non soltanto parole). Essa è condizionamento potentissimo,  che interferisce e può ostacolare i tentativi di sentire o rappresentare o inventare; ma, allo stesso tempo, è l’indispensabile strumento, che riadattiamo di continuo alle circostanze esterne o alle esigenze interne per riferire (o oggettivare per noi o per altri) ciò che “veramente” viviamo, etc.



La poesia è salvazione?



No.  Troppi poeti restano “falsi preti” e contrabbandano subdolamente la poesia come fosse una religione o un surrogato laicizzato e accettabile della  religione. Che non c’è più. Per me l’ha detto in modo spietato e severo lo storico della chiesa e poeta Michele Ranchetti in uno dei suoi ultimi ammirevoli libri: Non c’è più religione.[4] Ma, già prima, d’istinto e a ragione, avevo condiviso la polemica di Fortini contro la «sporca religione dei poeti». Diffido della poesia come valore assoluto o positivo in sé. Essa  ha, indubbiamente, nel suo passato  secoli di rapporti più o meno “incestuosi” con il mito e la religione, ma con la modernità è stata capace di esplorare in profondità e coraggiosamente la “realtà” e il “mutamento” (la storia) fuori dall’universo consentito. Ed è falso che, imboccando questa direzione, si sia appiattita sulle scienze. Oggi che il moderno  è in una nuova indecifrabile trasformazione (solo di crisi o catastrofe?), è fin troppo facile regredire nostalgicamente al passato più arcaico e buttarsi  sui modelli (al massimo scimmiottabili) della poesia-mito o della poesia-religione o della poesia-bellezza. Per me la poesia è soltanto ricerca inquieta, seria e nulla di più. Perciò m’interessa.



 A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



A quello dei quattro cantoni, dove io  non riuscivo a raggiungere  il “posto libero”, preceduto sempre dai più lesti e sgamati. Può sembrare un paragone paradossale, ma allora capii che potevo sottrarmi alla “tribù” coatta dei miei coetanei, fare a meno di quel gioco e fare altro. Certi giochi poi, anche se seguitissimi, sono stupidi e spesso truccati.  Fuor di metafora, oggi il poeta, se capisce che il “cantone” per lui non è previsto (che significa: non c’è per molti[5]), può sottrarsi alla rincorsa “democratica” del successo; e, invece di beccarsi calci in culo da rozzi e arroganti padroncini della Cultura,  trovare il modo, quando capita l’occasione, di assestargliene lui qualcuno. O,  comunque, fare semplicemente altro.



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



Che la poesia “reale” è, come tutti gli altri campi del sapere, luogo di conflitti e di drammi, stupidi e seri, privati e pubblico-politici. Che  bisogna disprezzare l’ideologia della Poesia,  una convinzione-illusione mezzo corporativa, nebbiosa, soave e ipocrita, che obbliga a fare, sempre astrattamente, l’apologia o la contestazione della Poesia. Tanto la scrittura poetica concreta è ricerca rischiosa e aperta, tanto l’ideologia della Poesia è fissazione quasi mortuaria su un dogma.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Vale quanto detto prima a proposito del linguaggio. Non è neutro, non è la garanzia di un progresso o di un incivilimento. Serve a svelare, ma  anche ad occultare, a dire la verità, ma anche a mentire. Quando accedi al linguaggio (in generale o a quello poetico), non trovi nessuna  pace o terra promessa. Non ti ritrovi tra persone più civili, ragionevoli, pensanti, ma in un luogo, dov’è in atto un particolare conflitto: simbolico sì, ma non meno drammatico e spesso più subdolo di quelli  pratico-materiali. La possibilità del singolo (poeta)  di smascherare o di dire verità (di non fingere) è condizionata  dall’esterno: dal linguaggio, dalle norme, dai rapporti di forza  che vigono anche nell’istituzione-linguaggio (poetico), dove singoli e gruppi manovrano, chi da posizioni di forza  chi da posizioni più deboli, in nome di valori quasi sempre fittizi e perlopiù poco condivisi.

Anche la poesia è, dunque, zona di conflitto, perché è un rapporto sociale (come Marx diceva per il  capitale…); e la verità, che in essa  si può produrre,  non è mai garantita. Volesse  un poeta essere assolutamente sincero, non è detto che ci riesca. E, anche quando ci riuscisse,   se oggi il 99% del suo “prossimo” vive nella finzione-menzogna (la «società dello spettacolo», una sorta di “paese dei lotofagi”), chi  la intenderebbe? Non voglio con questo dire che  verità e menzogna siano indistinguibili, ma  che è sempre più difficile distinguerle. Non è detto poi che la finzione sia di sicuro menzogna né che la verità dichiarata sia davvero verità (efficace). Bisogna  sapere che c’è “conflitto comunicativo” e individuare le strategie adatte, smuovere pigrizie,  proteggere le «nostre verità» (Fortini).



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Ce ne sarebbero tanti. Ma a che serve dare  un contentino a uno o due? Facessi un nome, ammesso che  dica qualcosa ai lettori d’oggi, nessun singolo o gruppo, credo, ha oggi il potere di rivalutarlo  al di fuori di un ambito amicale semiprivato. Non ci sono più «patrie lettere» né «avanguardie» o «movimenti» autorevoli. Siamo  epigoni  e nell’«epoca della post-poesia», come sostiene Giorgio Linguaglossa? Non lo so. Fatto sta che la cultura italiana, in cui ci siamo formati nel secondo Novecento, non ha protetto un bel nulla (tantomeno le fortiniane «nostre verità»).  Di conseguenza ogni eventuale rivalutazione di «buone rovine» (o di singoli poeti) non mi pare possibile con ripescaggi casuali o seguendo preferenze individuali.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



D’imparare a dialogare, polemizzare, criticare  con gli altri, poeti o mezzi-poeti o non poeti, per non ridursi a gregario di qualche poeta “affermato” e … imparare ad essere seriamente moltinpoesia...



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Questo di Brecht: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo[6]). Quando lo lessi per la prima volta, m’impressionò subito, tanto che lo citai per la prima volta nel 1999 in un confronto su Dante con Pietro Cataldi (qui).  Allora mi servì a ribadire la distanza tra il pur ammirevole Ordine dantesco (religioso) e il disordine in cui ci dibattiamo noi. Mi serve ancora oggi per ricordare che gran parte dell’umanità vive nell’orrore delle «lotte sul fondo» (quelle dei migranti o di paesi dilaniati da guerre fatte in nome della “democrazia”), mentre noi forse ci dibattiamo, per il momento, ancora in «lotte sulle cime».  E anche  quelle in poesia sono del secondo tipo. Il realismo di Brecht  ci avverte che lo scarto resta terribile, contro  tutte le buone, sciocche intenzioni umanitarie (e poetiche).






 Note.




[1] E proseguiva così: «Neppure riesce - vorrebbe lei!/ - a inseguire il contesto,/orari, treni, bisogni corporali,/il poetare clus/ e più oltre, non menare. //Trattasi di scrittura sghemba,/ a polluzione improvvisa,/ a molla;/ fingendo d'intenderci:/ avvitabile ed espandibile,/ un abuso,/ reprimibile da cattive notizie,/strapazzabile per amicizia,/ all'etica suscettibile,/ ai movimenti/ audacemente timida,/ liscia porosamente,/ ferrea e fragile,/ lanciata, sì/ sulla neve/ all'inseguimento
del trenino pendolarino./ Ciao».

[2] Samizdat Colognom (1982), Salernitudine/Immigratorio/Samizdat (1989), Reliquario di gioventù e Salernitudine (2003), Prof Samizdat (2006), Donne seni petrosi (2010). Immigratorio  è il titolo dell’ultima raccolta in uscita per settembre 2011.

[3] Michele Ranchetti, Non c’è più religione, Garzanti, Milano 2003.

[4] E non casualmente ho messo su dal 2006 a Milano un “Laboratorio MOLTINPOESIA”.

[5] Dal frammento La bottega del fornaio






In alto, un disegno di Abea Nineo: Contesa (2011)



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