Mario Fresa
Questionario di poesia (26)
Ennio Abate
Qual è il segreto progetto a cui tende
la tua scrittura?
In
una poesia del ’92-’93, quasi in tema, avevo dichiarato: «La mia scrittura scriptura
/ non è progettabile / interrompibile è pienamente / da voi dal freddo / da
familiari e amici».[1]
E perciò il pensiero che la mia scrittura (poetica) possa essere stata “a
progetto”, segreto per giunta, mi ha fatto subito sorridere. Riflettendoci,
però, devo dire che nelle raccolte pubblicate tardi e
fortunosamente,[2] un progetto s’è
delineato: narrare in forme “lirico-epiche”
la mia esperienza dentro l’immigratorio
italiano; cioè dentro la vicenda storica dell’immigrazione, che mi ha spostato,
assieme a tanti, dal Sud Italia contadino-artigianale al Nord
metropolitano-industriale negli anni ’60-’70 del Novecento. In un primo momento
prevedevo una ricomposizione di tre conglomerati di episodi, luoghi e persone: una sorta di
trilogia lineare, progressiva, ascendente, “simil-dantesca”. Ne pubblicai un’anticipazione
nel 1989, intitolandola Salernitudine/Immigratorio/Samizdat.
Successivamente, complesse ragioni, che sarebbe lungo spiegare, mi convinsero a
spezzare quella linearità fin troppo ascensionale. Ho, quindi, trattato e
pubblicato pezzo per pezzo ciascun blocco, riordinato la materia attorno a personaggi-maschere
(Samizdat e/o prof Samizdat;
Vulisse); e continuato, in parallelo, a scandagliarla, oltre che
in poesia, anche in prosa e in forme grafico-pittoriche. Al momento (alla
fine?) ho dato più risalto a Immigratorio[3],
che non considero più sezione della primitiva “trilogia”, ma simbolo riepilogativo della biografia e della
storia “fondative” della mia scrittura.
Come nasce, in te, una poesia?
Da
una inquietudine emotivo-intellettuale di fronte al “mondo” (percepito,
intravisto, immaginato, temuto, desiderato). Scrivendo, essa man mano si fa
dialogo, polemica e (al meglio) critica. Un esempio: la poesia Scriptura che ho qui riportato. È dialogo:
con me stesso, ma pure con un potenziale lettore, che ho immaginato mio “complice”
eppure “ipocrita”, cioè più pacato e contemplativo di me. È polemica, perché i cenni
alla realtà “extrapoetica” (vita di
città, preoccupazioni quotidiane, il trenino dei pendolari) irritano ogni quieto
contemplatore. È critica (qui abbastanza sotterranea) dell’ideologia di chi
adopera la scrittura secondo una ritualità solenne, agiata e per pochi, sovranamente
indifferente all’ansia di chi vive (e magari scrive) in condizioni precarie. (Ora,
però, dopo aver risposto alla domanda, vorrei in
parte contestarla. La trovo teoricamente scivolosa: una poesia “nasce” e “in
me”? oppure la costruisco? e fino a che punto la costruisco io? e da solo? non
assimilo forse nella “mia” costruzione elementi altrui sia di superficie - occasionali,
contingenti - sia profondi, strutturali - emozionali, linguistici, culturali,
storici)?
Il poeta parla di ciò che realmente vive
o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Anche
questa domanda mi sorprende. Pare dia per scontato che sia facile distinguere
«ciò che realmente vive» (il poeta o un uomo qualsiasi) da ciò che classifichiamo
come immaginario, sogno, utopia. Non è così. Reale e immaginario-ideologico non
sono in partenza (e nemmeno da adulti!) cose distinte. Dobbiamo
faticare - oh quanto! - a distinguerle; e forse ci riusciamo soltanto in particolari
momenti della nostra esistenza e della
comune storia collettiva. Inoltre, la domanda sembra suggerire che in poesia sia
importante soprattutto la soggettività ricettiva
del singolo. Così va in secondo piano l’elemento costruttivo, altrettanto centrale ma più arduo da raggiungere, perché può emergere
solo ci impegniamo nel dialogo-conflitto (ora più dialogo ora più conflitto)
con gli “altri” e col “mondo”. Basti pensare che tra il poeta e «ciò che
realmente vive» o «ciò che vorrebbe ricevere» (e, perché no, dare..) non c’è
alcun filo diretto, ma c’è la lingua, che è storia e società (langue e non soltanto parole). Essa è condizionamento
potentissimo, che interferisce e può
ostacolare i tentativi di sentire o rappresentare o inventare; ma, allo stesso
tempo, è l’indispensabile strumento, che riadattiamo di continuo alle
circostanze esterne o alle esigenze interne per riferire (o oggettivare per noi
o per altri) ciò che “veramente” viviamo, etc.
La poesia è salvazione?
No.
Troppi poeti restano “falsi preti” e
contrabbandano subdolamente la poesia come fosse una religione o un surrogato laicizzato
e accettabile della religione. Che non c’è più. Per me l’ha detto in
modo spietato e severo lo storico della chiesa e poeta Michele Ranchetti in uno
dei suoi ultimi ammirevoli libri: Non c’è
più religione.[4]
Ma, già prima, d’istinto e a ragione, avevo condiviso la polemica di Fortini
contro la «sporca religione dei poeti». Diffido della poesia come valore
assoluto o positivo in sé. Essa ha,
indubbiamente, nel suo passato secoli di
rapporti più o meno “incestuosi” con il mito e la religione, ma con la
modernità è stata capace di esplorare in profondità e coraggiosamente la “realtà”
e il “mutamento” (la storia) fuori dall’universo consentito. Ed è falso che,
imboccando questa direzione, si sia appiattita sulle scienze. Oggi che il
moderno è in una nuova indecifrabile
trasformazione (solo di crisi o catastrofe?), è fin troppo facile regredire
nostalgicamente al passato più arcaico e buttarsi sui modelli (al massimo scimmiottabili) della
poesia-mito o della poesia-religione o della poesia-bellezza. Per me la poesia è
soltanto ricerca inquieta, seria e nulla di più. Perciò m’interessa.
A
quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
A quello
dei quattro cantoni, dove io non
riuscivo a raggiungere il “posto libero”,
preceduto sempre dai più lesti e sgamati. Può sembrare un paragone paradossale,
ma allora capii che potevo sottrarmi alla “tribù” coatta dei miei coetanei,
fare a meno di quel gioco e fare altro. Certi giochi poi, anche se
seguitissimi, sono stupidi e spesso truccati. Fuor di metafora, oggi il poeta, se capisce
che il “cantone” per lui non è previsto (che significa: non c’è per molti[5]),
può sottrarsi alla rincorsa “democratica” del successo; e, invece di beccarsi
calci in culo da rozzi e arroganti padroncini della Cultura, trovare il modo, quando capita l’occasione, di
assestargliene lui qualcuno. O, comunque,
fare semplicemente altro.
Che cosa ti ha insegnato la frequentazione
della scrittura poetica?
Che
la poesia “reale” è, come tutti gli altri campi del sapere, luogo di conflitti
e di drammi, stupidi e seri, privati e pubblico-politici. Che bisogna disprezzare l’ideologia della Poesia,
una convinzione-illusione mezzo
corporativa, nebbiosa, soave e ipocrita, che obbliga a fare, sempre
astrattamente, l’apologia o la contestazione della Poesia. Tanto la scrittura
poetica concreta è ricerca rischiosa e aperta, tanto l’ideologia della Poesia è
fissazione quasi mortuaria su un dogma.
Qual è il grado di finzione e di
mascheramento di un poeta?
Vale
quanto detto prima a proposito del linguaggio. Non è neutro, non è la garanzia
di un progresso o di un incivilimento. Serve a svelare, ma anche ad occultare, a dire la verità, ma anche
a mentire. Quando accedi al linguaggio (in generale o a quello poetico), non
trovi nessuna pace o terra promessa. Non
ti ritrovi tra persone più civili, ragionevoli, pensanti, ma in un luogo, dov’è
in atto un particolare conflitto: simbolico sì, ma non meno drammatico e spesso
più subdolo di quelli pratico-materiali. La possibilità del singolo (poeta) di smascherare o di dire verità (di non
fingere) è condizionata dall’esterno:
dal linguaggio, dalle norme, dai rapporti di forza che vigono anche nell’istituzione-linguaggio (poetico), dove singoli e gruppi manovrano,
chi da posizioni di forza chi da
posizioni più deboli, in nome di valori quasi sempre fittizi e perlopiù poco
condivisi.
Anche la poesia è, dunque, zona di conflitto, perché è un rapporto sociale (come Marx diceva
per il capitale…); e la verità, che in essa
si può produrre, non è mai garantita. Volesse un poeta essere assolutamente sincero, non è detto che ci riesca. E, anche quando
ci riuscisse, se oggi il 99% del suo “prossimo”
vive nella finzione-menzogna (la «società dello spettacolo», una sorta di
“paese dei lotofagi”), chi la
intenderebbe? Non voglio con questo dire che verità e menzogna siano indistinguibili,
ma che è sempre più difficile
distinguerle. Non è detto poi che la finzione
sia di sicuro menzogna né che la verità dichiarata
sia davvero verità (efficace). Bisogna
sapere che c’è “conflitto comunicativo” e individuare le strategie
adatte, smuovere pigrizie, proteggere le
«nostre verità» (Fortini).
Vorresti citare un poeta da ricordare e
da rivalutare?
Ce
ne sarebbero tanti. Ma a che serve dare
un contentino a uno o due? Facessi un nome, ammesso che dica qualcosa ai lettori d’oggi, nessun
singolo o gruppo, credo, ha oggi il potere di
rivalutarlo al di fuori di un ambito
amicale semiprivato. Non ci sono più «patrie lettere» né «avanguardie» o
«movimenti» autorevoli. Siamo
epigoni e nell’«epoca della post-poesia», come sostiene Giorgio
Linguaglossa? Non lo so. Fatto sta che la cultura italiana, in cui ci siamo
formati nel secondo Novecento, non ha protetto un bel nulla (tantomeno le
fortiniane «nostre verità»). Di
conseguenza ogni eventuale rivalutazione di «buone rovine» (o di singoli poeti)
non mi pare possibile con ripescaggi casuali o seguendo preferenze individuali.
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
D’imparare
a dialogare, polemizzare, criticare con gli
altri, poeti o mezzi-poeti o non poeti, per non ridursi a gregario di qualche
poeta “affermato” e … imparare ad essere seriamente moltinpoesia...
Puoi citare, spiegando perché, un verso
che ti è particolarmente caro?
Questo di Brecht: Anders als die
Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime
sono le lotte sul fondo[6]).
Quando lo lessi per la prima volta, m’impressionò subito, tanto che lo citai
per la prima volta nel 1999 in un confronto su Dante con Pietro Cataldi (qui). Allora mi servì a
ribadire la distanza tra il pur ammirevole Ordine dantesco (religioso) e il disordine in cui ci dibattiamo noi. Mi
serve ancora oggi per ricordare che gran parte dell’umanità vive nell’orrore
delle «lotte sul fondo» (quelle dei migranti o di paesi dilaniati da guerre
fatte in nome della “democrazia”), mentre noi forse ci dibattiamo, per il
momento, ancora in «lotte sulle cime». E
anche quelle in poesia sono del secondo
tipo. Il realismo di Brecht ci
avverte che lo scarto resta terribile, contro tutte le buone, sciocche intenzioni
umanitarie (e poetiche).
Note.
[1] E proseguiva così: «Neppure
riesce - vorrebbe lei!/ - a inseguire il contesto,/orari, treni, bisogni
corporali,/il poetare clus/ e più oltre, non menare. //Trattasi di scrittura
sghemba,/ a polluzione improvvisa,/ a molla;/ fingendo d'intenderci:/
avvitabile ed espandibile,/ un abuso,/ reprimibile da cattive
notizie,/strapazzabile per amicizia,/ all'etica suscettibile,/ ai movimenti/
audacemente timida,/ liscia porosamente,/ ferrea e fragile,/ lanciata, sì/
sulla neve/ all'inseguimento
del
trenino pendolarino./ Ciao».
[2] Samizdat Colognom (1982), Salernitudine/Immigratorio/Samizdat (1989),
Reliquario di gioventù e Salernitudine (2003), Prof Samizdat (2006), Donne seni petrosi (2010). Immigratorio è il titolo dell’ultima raccolta in uscita
per settembre 2011.
[3] Michele
Ranchetti, Non c’è più religione,
Garzanti, Milano 2003.
[4] E non casualmente ho messo su dal 2006 a Milano un “Laboratorio MOLTINPOESIA”.
[5] Dal
frammento La bottega del fornaio
In alto, un disegno di Abea Nineo: Contesa
(2011)
© Edizioni L’Arca Felice. Tutti i diritti riservati.
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