Mario Fresa
Questionario di poesia (24)
Sandro Montalto
Qual è il segreto progetto a cui tende
la tua scrittura?
Il
mio intento, più che segreto progetto (anzi spero non sia tanto segreto,
preferirei fosse abbastanza palese), è quello di “accerchiare” il reale, ossia
la nostra esistenza sotto l’aspetto sociale, filosofico, psichico, civile,
biologico etc., usando le risorse della lingua. Il che significa che, secondo
me, la poesia è tale se in qualche modo è
chiaramente diversa alla prosa, nel ritmo e nelle funzioni (è ad esempio
intensiva e non estensiva), e sfrutta tutte le risorse dateci dai linguaggi
della tradizione letteraria ma anche dal lessico scientifico e quotidiano, siccome
noi non viviamo a compartimenti stagni e dunque non possiamo ragionare ora in
modo poetico, ora in modo quotidiano. Insomma, detta un po’ così, un poeta deve essere tale, globalmente e
profondamente, quando scrive una poesia e quando frigge un uovo, e allo stesso
modo quando scrive una poesia, fosse anche un’ode o un sonetto, deve riversare
nella poesia, trasfigurato fin che si vuole, il suo stare al mondo in un certo
clima psichico e sociale, e con il profumo di uova fritte nell’aria. Inoltre,
la poesia non deve mai dimenticare la necessità di una sua musica e di un suo
ritmo (il che è diverso dall’astratta “musicalità” di cui spesso si parla in
critica), cioè di un aspetto fonico
che le è connaturato
anche quando si pensi di scrivere solo per la carta. Insomma
la poesia (ma non la singola poesia, che può essere, e legittimamente,
bellissima o ridicolmente banale, bensì l’opera, l’opus) deve essere una operazione, ampia e caparbia, di lettura del
mondo, la quale però rifiuti sia la mimesi (che è vigliacca) sia il
settorialismo (che è opportunistico). Ossia, la parola deve rendere conto
continuamente della complessità, mutevolezza e anche contraddittorietà del
reale, resistendo alle tentazioni di avallarlo o di sfruttarlo.
Come nasce, in te, una poesia?
Innanzitutto
mi è impossibile scrivere sull’onda dell’emozione. Da ragazzino scherzavo
dicendo che al modello Foscolo sulle barricate preferivo il modello Montale in
pantofole. Solitamente mi colpisce qualcosa (la particolare angolazione di un
problema, una contraddizione, spesso il suono di una parola o di una frase, o
ancora un’assonanza) che diventa il nucleo dal quale germina il testo. Siccome
però credo che la forma sia indispensabile (il che non significa metrica, bensì
la giusta misura: spesso si sente che una poesia doveva avere diciamo 5 versi,
il poeta ne ha voluti fare 10 e c’è tanta fuffa), ho bisogno che ciò che mi ha
colpito si radichi, poi sedimenti, poi soprattutto interagisca con stimoli
diversi e vari che sono un po’ una messa alla prova (l’assonanza interna a un
verso amoroso come sopravvive o come si modifica dopo un litigio, o un guasto
alla macchina, o due giorni di emicrania?). E che infine esca, necessariamente
in un’unica stesura tutta di un fiato senza sovracostruzioni, spostamenti o
correzioni. Preferisco poi, e a distanza di anni (il libro Il segno del labirinto che ho appena pubblicato, ossia nel 2011,
vede una selezione di poesie scritte tra il 1994 e il 2008), mettere alla prova
il materiale accumulato ed eliminare la maggior parte dei testi, resistendo
alla voglia di adeguarli alle necessità del momento (il che sarebbe, per me,
come falsificare le cartelle di un paziente in cura da anni per dire che la
cura funziona).
Il
poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che
sempre gli sfugge?
Ci
sono ovviamente molti modi di essere poeta (stavo per scrivere “fare il poeta”,
ma questa brutta cosa la lascio alla maggior parte dei facitori di versi e fini
dicitori oggi in auge). Io, ed in parte ho già risposto sopra, credo che
scrivere poesia distaccati dalla realtà, ossia dai molteplici stimoli della
realtà, sia sbagliato, un tradimento. Insomma potrei scrivere un romanzo su
cose che mai mi sono capitate e mai vorrei mi capitassero, o delle quali
insomma nulla mi importa, ma una poesia no.
Da parte mia ho la sensazione, fin da bambino, che a sfuggire sia la
complessità autentica del reale, e che la nostra condanna sia l’impossibilità
per la parola di descrivere perfettamente la cosa. E’ quello che i dotti chiamano
“alterità”; io preferisco, usando un termine matematico credo più preciso,
parlare di “asindoto”. Il termine è utilizzato per denotare una curva alla
quale si avvicina indefinitamente una funzione data, ossia “tende a”, ci si
avvicina e la toccherebbe se non fosse destinata a restare da essa separata per
valori infinitesimi sempre minori ma comunque irrimediabili (è il concetto
matematico di “limite”). La parola possiamo, calcolando bene il nostro uso di
essa, farla avvicinare il più possibile alla cosa, senza tuttavia che possa
aderire ad essa. Non a caso il mio primo libro di poesia, ironicamente
intitolato Scribacchino, si apriva
con la poesia Prologo asintotico. Ma
ciò non significa che i nostri sforzi non debbano essere tesi a questo
obiettivo: alla base di una poesia linguisticamente sciatta stanno gli stessi
meccanismi di vigliaccheria e totale assenza di partecipazione e di progresso
che stanno nella supina accettazione del gergo oscuro o semplificatorio di chi
detiene i poteri. Solo una sorta di “guerriglia semiologica” (ne parlava Eco
negli anni Sessanta) potrà salvarci: non è tanto importante cambiare il
contenuto dei messaggi alla fonte ma cercare di animare la loro analisi là dove
essi arrivano; o, come si diceva una volta, non serve occupare la televisione,
bisogna occupare una sedia davanti a ogni televisore. Una guerriglia che deve
essere praticata nella società letteraria come in quella civile, e potrà farci
uscire dalla mediocrità che ci sta trasformando da popoli a mandrie pronte per
il macello.
Detto
questo, però, è assolutamente indispensabile che la poesia non sia mai
strumento, dimostrazione, didascalia, bensì sia un momento di contatto con il
proprio io più profondo. Da questo incontro, poi, potrà anche nascere la
teoria, che però deve essere frutto di un incontro emozionale quanto
intellettuale.
La
poesia è salvazione?
No, è diagnosi.
A
quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
La parola gioca a nascondino con noi, e noi a mosca
cieca con lei.
Che
cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
La concisione, o meglio la densità della parola. La poesia è l’esatto contrario della chiacchiera, procedimento pur interessante, fine a se stesso e autoreferenziale, che ho studiato in lavori anche creativi, soprattutto per il teatro.
Qual
è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Alla luce di quanto detto sopra, credo che non debbano esserci né finzione né mascheramento. Probabilmente ti riferisci ai famosi versi di Pessoa «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente», dalla poesia Autopsicografia. Io trovo però che, a parte il titolo bellissimo di questo testo, si tratti di un paradosso di quelli belli da memorizzare ma che non spiegano nulla. Inoltre non sopporto quelli che per ogni cosa devono scrivere la sua bella poesiola, perché devono sentirsi poeti; mi fanno l’effetto di quelli che tutti i giorni si alzano e devono scrivere su Facebook che stanno prendendo il caffè: chi se ne frega?
Circa
le maschere c’è una poesia di Montale che vorrei ricordare: «Chissà se un giorno butteremo le
maschere / che portiamo sul volto senza saperlo. / Per questo è tanto difficile
identificare / gli uomini che incontriamo. / Forse fra i tanti, fra i milioni
c'è / quello in cui viso e maschera coincidono / e lui solo potrebbe dirci la
parola / che attendiamo da sempre. Ma è probabile / ch'egli stesso non sappia
il suo privilegio». Le maschere di cui parlava Pirandello erano una diagnosi, a
loro modo, ma una società in cerca di facilonerie le ha trasformate in un
attrezzo fondamentale nel bagaglio dello scrittore, e poi dell’uomo comune (che
a volte è capace di dirti: “ma, sai, io porto molte maschere”… fatti curare!). Il
poeta non deve fingere, bensì trasfigurare. Normalmente si conviene circa il
fatto che se ti rompi una gamba e fai una poesia su tu che ti rompi una gamba
sei un poeta della domenica, mentre dovresti trasfigurare questo evento,
assolutizzarlo, probabilmente partire dalle emozioni che questo avvenimento ti
ha dato e, senza citare l’avvenimento stesso, creare la tua poesia. Sono
abbastanza d’accordo. Tuttavia ricordo certi testi di Bukowski, per fare un
nome quasi a caso, che parlano solo e proprio degli avvenimenti così come sono
accaduti, eppure sanno comunque restituire il loro valore assoluto. Ricordo un
amico che, scosso dall’episodio delle Torri Gemelle, ha riversato la propria
emozione in una poesia che parlava della sua abitudine di andare a pescare in
un laghetto vicino a casa; ebbene la lettura di quella poesia mi ha scosso in
maniera particolare, anche se non capivo perché, e solo dopo che mi ha spiegato
le circostanze della sua composizione ho capito.
Vorresti citare un poeta da ricordare e
da rivalutare?
Se
me lo chiederai tra cinquant’anni ti risponderò “Sandro Montalto”. Forse. No,
in realtà ce ne sono diversi, ma fare dei nomi qui sarebbe difficile… non a
caso mi sono occupato molto di critica, scrivendo centinaia di pagine, allo scopo di indagare e interpolare poeti
poco noti e secondo me meritevoli di attenzione.
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
Di
saper essere onesto con se stesso, e di avere un ragionevole numero di lettori
onesti con lui e… con se stessi. Non lettori che ti leggono così poi tu leggi
loro e vi scambiate delle recensioni. Altrimenti è un’orgia (con orgasmi
peraltro minimi).
Puoi citare, spiegando perché, un verso
che ti è particolarmente caro?
Ovviamente
vorrei citarne mille. Mi butto sui Sonetti
di Shakespeare: «e morte è tal pensiero, senza scampo, / che piange perché
possiede ciò che teme di perdere»; lo trovo di una dolcezza infinita, e
impietoso nell’illustrare come tutti noi ci si faccia quotidianamente del male.
© Edizioni L’Arca
Felice. Tutti i diritti riservati.
In alto: Nude Popcorn di Philippe Halsman [1906-1979]
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