Mario Fresa
Questionario di poesia (42)
Marisa Papa Ruggiero
Qual è il
segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Trasgredire
il formulario verbale di ordinaria omologazione che pretende di parlare al
posto nostro. Tentare di sedurre il demone, o la figura non prevista sulla
carta, che non conosco, ma so che c’è, e
segnala a fior di pelle da un’area di sua creazione, da un remoto presente
proiettato in un futuro già stato, o di là da venire… Individuare, tra
frammenti e schegge di vissuto, il punto di uno scatto, l’urto istantaneo che
si allunghi in una catena di animazioni sullo sguardo.
Il
segreto non è che la poesia stessa, la cui natura si sottrae alla nostra vista
e ad ogni possibilità di definizione, sempre.
Come nasce,
in te, una poesia?
Nasce
da una visione, da un ritmo, da un indizio qualsiasi, che sia ricco di
risonanze, che contenga il soffio forte della vita e si annuncia come un dono che non ti aspetti.
Con
la stessa perentoria necessità della
fame.
Il poeta
parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre
gli sfugge?
Al
poeta interessa la creazione: rendere
colma una mancanza, far accadere che la cosa parli da sé, che non sia parlata… Vi
sono “zone” diverse dalle categorie ordinarie che trasmettono, attraverso la
parola poetica, se veramente sentita, un’altra faccia del reale, non
immaginaria o inventata di sana pianta, ma riformulata secondo un’ottica mai
vista prima, qualcosa che solo la poesia può pronunciare. Al poeta interessa assaporare
l’inaudita bellezza del tempo che sfugge, marcarne i suoni e le tinte,
l’insolito profumo, con la consapevolezza che niente si può trattenere, e
questo rende ogni istante prezioso.
Al
poeta interessa il continuo divenire. Traslare
il reale in visione.
L’idea
di confermare lo stesso immobile significato può essere doviziosa cura buona
per l’archivio, ma appassiona poco il poeta.
La poesia
è salvazione?
La poesia è un dono. Un dono che bisogna
meritare offrendosi interamente a lei. Accogliere il dono significa accogliere
salvezza e perdizione, insieme. Né “salvavita”, tout court, caro a chi l’
intende come compenso e soccorso consolatorio, né “terapia intensiva”, come
prescrive Adrienne Rich, ma un bene condivisibile, non per compiacersene
tenendolo per sé, ma perchè venga inteso come ufficio di disciplina e di
appassionata ricerca al fine di servire e di salvaguardare la lingua: l’unica
vera libertà che ci è rimasta; contribuire a renderla più ricca e vitale,
difenderla dalla corrosione e dall’inaridimento a cui sistematicamente è
esposta.
Non
credo rientri nei compiti della poesia salvare il poeta, mentre è innegabile
che la poesia (ma l’intera sfera dell’arte!) sia, in ragione del suo
vitalistico statuto di libertà e del suo potere di trasfigurazione, il solo
vero principio salvifico per la nostra vita, in grado di affrancarla dalla piatta brutalità
dell’ordinario, e nel contempo, sia forma
di resistenza contro gl’infiniti tentacoli del nulla. Ecco la salvezza.
A quale
gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho
amato, da bambina, giochi che sentivo magici.
Amavo
tra l’altro “ricreare” coi miei disegni, le infinite favole di mia invenzione
che mi piaceva poi regalare a piccole amiche, di scuola o di giochi. Spesso, la
mancanza di giocattoli mi stimolava a comporre insieme a loro buffi ed
elementari “quadretti scenici” in teatrini improvvisati nel cortile di casa. Si trattava, allora
di un tipico meccanismo di immedesimazione, con le amate figurazioni delle
fiabe o del mito, molto più che gioco, quasi sortilegio magico, mettere in
azione il gesto scenico che inventa se stesso… un”vizio” che mi è rimasto.
Che cosa ti ha
insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Ha
confermato in me molte cose già presenti a livello percettivo, e ha dato nuova
definizione ad altre per quel che concerne il profilo critico, linguistico, speculativo,
con la consapevolezza di modellare, con umiltà e pazienza, un organismo vivente
in movimento e pronto a trasformarsi. Mi ha guidata a percorrere itinerari di
ricerca e di studio, e a confrontarmi di
continuo con altri universi poetici.
Qual è il grado di
finzione e di mascheramento del poeta?
Ringrazio
Mario che con questa domanda, non so se più provocatoria o deliziosamente maliziosa, ci invita a passare attraverso
specchi deformanti!
Sappiamo
bene che la verità dell’arte sta tutta, inevitabilmente, nel suo potere di
trasmutazione. “Non c’è altra verità - lo dice il poeta - che quella che si
trasfigura in arte” (Brodsky) .
Il
vero dell’arte non coincide col vero naturale, ma si modula secondo proprie legislazioni i cui termini dovranno essere di volta in
volta inventati, e in distinta autonomia che non è né falsa, né vera: è altra,
ed è più complessa di quella che ci circonda: precisamente quella che l’arte
richiede. A scrivere, (come a dipingere) si è inevitabilmente in due. Il detto,
appena formulato, si distacca dallo spazio mentale per riformularsi in altra
forma sulla pagina. Occorre tutta la sincerità del poeta, ovvero, la
sostanziale integrità dell’essere per sostenere con sguardo fermo, la tremenda
dualità della Maschera. L’artista fa suo questo volto portatore di estremi,
vive per metterli in tensione, talvolta per farli esplodere… dov’è la finzione?
Si è comunque veri, e diversi, nel viaggio, fatalmente diversi in quanto
portatori di infinite contraddizioni, vere o illusorie che siano, ma tutte legittime
perché appartenenti all’umano e alle sue tensioni. Fermo restando che ci sarà
sempre nel fondo un nucleo di sincera adesione ad una interiore verità, come ad
un ancoraggio inestirpabile che si
chiama: vero e autentico sentire, il
fulcro, cioè di quel che si intende per creazione.
Niente si crea se non c’è vero e autentico sentire, ed è quello che, a ben
vedere, produce verità in arte. In assenza di vero sentire, dovremmo parlare
non di poesia, ma di qualcos’altro che non le somiglia, e non riesce a convincerci.
Converrebbe,
piuttosto, domandarsi in che modo riescono ad integrarsi l’esigenza di verità
del poeta con le esigenze proprie dell’arte. Tendenzialmente, le due sfere
aspirerebbero ad amalgamarsi nell’atto creativo: l’una, nella sostanza dell’altra,
arricchendola e trasformandola. Al poeta, il compito che non venga tradita la
peculiarità dell’arte in nome di un angusto concetto di verosimiglianza; il che non significa affatto
“mascherare” il vero, come spesso si è portati a credere in ossequio a
codificati convincimenti moraleggianti del tutto estranei all’arte.
Solo
l’artista (il poeta) saprà discernere il senso corretto di ciò che viene detta
“simulazione” in arte, e sarà Picasso ad indicarcelo in uno sfolgorante
aforisma: “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità”.
Una
bugia che Blanchot non esita a
definire, per ciò che attiene la letteratura, “frutto di fede e di onestà da
parte dello scrittore”.
E
c’è Adorno che asserisce l’identica cosa (dell’enunciato picassiano)
rovesciandone arditamente i termini per restituirci un’equazione dinamica di
potente efficacia: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.
A
me sembra che, in entrambi i casi, i termini di bugia e verità riflettano due speculari “proiezioni” mentali
che si caricano di significazione etica nella magia dell’arte.
Altra
cosa è la falsità di fronte a se stessi, e di fronte all’arte, quella che si
regge sulla formula spettacolistica della propria simulazione fine a se stessa e
non produce altro che straniamento; o
quella che ama dichiarare le più edificanti intenzioni senza mai passare col
proprio corpo attraverso il “cerchio di fuoco”, o attraverso gli specchi, né lasciarsi contaminare
dalla stregata, smagliante verità della Maschera.
Vorresti citare un
poeta da ricordare e da rivalutare?
Lorenzo
Calogero, formidabile voce del profondo sud italico, ucciso dall’indifferenza
dei suoi contemporanei… La sua lettera di molte pagine indirizzata a un potente
dell’editoria, come ci viene riferito, non ebbe mai alcun esito! E l’aspetto
che più rattrista è che quel potente dell’editoria era anche un (fin troppo)
celebrato poeta…
Un
poeta, Calogero, mai celebrato, nemmeno da morto, (ricorre quest’anno il
cinquantenario della morte) stranamente
rimosso, salvo alcuni sporadici ma significativi interventi critici.
Qual è il dono che
augureresti a un poeta oggi?
Come
ho già detto, si deve un riguardo particolare al dono, già grande, della poesia.
Lo
si onori come meglio sente, studiando, studiando, e anche, perché no? ponendo
nuove insolubili domande alla Sfinge…
Puoi citare,
spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
(…)
E
l’ultimo giorno
-
io lo so –
l’ultimo
giorno
quando
un’unica lama di luce
pioverà
dall’estremo spiraglio
dentro
la tenebra,
allora
sarà l’onda mostruosa,
l’urto
tremendo,
l’urlo
mortale
delle
parole non nate
(…)
Pensare
soltanto di aggiungere un commento a questo tremendo
urlo delle parole non nate, sarebbe per me profanarlo! In esso è contenuta
tutta l’indicibile solitudine di un’anima.
Anche per Antonia Pozzi, la sua poesia, splendida e autentica, ha
trovato sempre, dinanzi a sé Una porta che si chiude, come è il
titolo di questa poesia.
La
poesia di Antonia è stata la rarità del Dono che si concede agli eletti, ai
predestinati, la cui voce, limpidissima, mai fu intesa dai suoi contemporanei,
a cominciare dai suoi stessi parenti, che per ottusità e ipocrisia, vollero
parzialmente distruggere e alterare l’integrità non solo di tanti suoi testi,
ma anche dell’ultimo suo scritto a loro dedicato prima di darsi volontariamente
la morte. E a soli 26 anni!
Sono
occorsi molti decenni perchè la poesia di Antonia, che in vita non riuscì mai a
pubblicare, finalmente raggiungesse
significativa rivalutazione e venisse riconosciuta come una delle voci
più vive e intense del Novecento.
In
alto, un dipinto di Marc Chagall [1887-1985]
Scrive Eugenio Lucrezi. Condivido, nell'intervista di Papa Ruggiero, la tensione del poeta in direzione del bene comune, di una fruizione della parola lavorata ad arte che risulti possibile e praticabile anche da parte di un pubblico della poesia non ultraspecialistico, non chiuso nella conventicola dello specialismo autoreferenziale, sempre catastrofico per la vitalità della lingua, e più in generale dei linguaggi ferenti un'espressione non mercificata della realtà. Papa Ruggiero parla esplicitamente di poesia come di bene condivisibile, e va lodata. A noi cultori e amanti della poesia spetta il compito di mettere in pratica l'indicazione: tutti hanno i sogni e le visioni; non tutti hanno la parola. Tanti neppure immaginano la forza che può avere la parola.
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