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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

venerdì 18 maggio 2012

Questionario di poesia (42) Marisa Papa Ruggiero


              
 Mario Fresa
Questionario di poesia (42)


Marisa Papa Ruggiero











Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
                                                                                                              
Trasgredire il formulario verbale di ordinaria omologazione che pretende di parlare al posto nostro. Tentare di sedurre il demone, o la figura non prevista sulla carta,  che non conosco, ma so che c’è, e segnala a fior di pelle da un’area di sua creazione, da un remoto presente proiettato in un futuro già stato, o di là da venire… Individuare, tra frammenti e schegge di vissuto, il punto di uno scatto, l’urto istantaneo che si allunghi in una catena di animazioni sullo sguardo.    
Il segreto non è che la poesia stessa, la cui natura si sottrae alla nostra vista e ad ogni possibilità di definizione, sempre.



Come nasce, in te, una poesia?

Nasce da una visione, da un ritmo, da un indizio qualsiasi, che sia ricco di risonanze, che contenga il soffio forte della vita e  si annuncia come un dono che non ti aspetti.

Con la stessa perentoria necessità  della fame.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Al poeta interessa la creazione: rendere colma una mancanza, far accadere che la cosa parli da sé, che non sia parlata… Vi sono “zone” diverse dalle categorie ordinarie che trasmettono, attraverso la parola poetica, se veramente sentita, un’altra faccia del reale, non immaginaria o inventata di sana pianta, ma riformulata secondo un’ottica mai vista prima, qualcosa che solo la poesia può pronunciare. Al poeta interessa assaporare l’inaudita bellezza del tempo che sfugge, marcarne i suoni e le tinte, l’insolito profumo, con la consapevolezza che niente si può trattenere, e questo rende ogni istante prezioso.
Al poeta interessa il continuo divenire.  Traslare il reale in visione.
L’idea di confermare lo stesso immobile significato può essere doviziosa cura buona per l’archivio, ma appassiona poco il poeta.


La poesia è salvazione?

 La poesia è un dono. Un dono che bisogna meritare offrendosi interamente a lei. Accogliere il dono significa accogliere salvezza e perdizione, insieme. Né “salvavita”, tout court, caro a chi l’ intende come compenso e soccorso consolatorio, né “terapia intensiva”, come prescrive Adrienne Rich, ma un bene condivisibile, non per compiacersene tenendolo per sé, ma perchè venga inteso come ufficio di disciplina e di appassionata ricerca al fine di servire e di salvaguardare la lingua: l’unica vera libertà che ci è rimasta; contribuire a renderla più ricca e vitale, difenderla dalla corrosione e dall’inaridimento a cui sistematicamente è esposta.
Non credo rientri nei compiti della poesia salvare il poeta, mentre è innegabile che la poesia (ma l’intera sfera dell’arte!) sia, in ragione del suo vitalistico statuto di libertà e del suo potere di trasfigurazione, il solo vero principio salvifico per la nostra vita,  in grado di affrancarla dalla piatta brutalità dell’ordinario, e  nel contempo, sia forma di resistenza contro gl’infiniti tentacoli del nulla. Ecco la salvezza.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Ho amato, da bambina, giochi che sentivo magici.
Amavo tra l’altro “ricreare” coi miei disegni, le infinite favole di mia invenzione che mi piaceva poi regalare a piccole amiche, di scuola o di giochi. Spesso, la mancanza di giocattoli mi stimolava a comporre insieme a loro buffi ed elementari “quadretti scenici” in teatrini improvvisati nel cortile di casa. Si trattava, allora di un tipico meccanismo di immedesimazione, con le amate figurazioni delle fiabe o del mito, molto più che gioco, quasi sortilegio magico, mettere in azione il gesto scenico che inventa se stesso… un”vizio” che mi è rimasto.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Ha confermato in me molte cose già presenti a livello percettivo, e ha dato nuova definizione ad altre per quel che concerne il profilo critico, linguistico, speculativo, con la consapevolezza di modellare, con umiltà e pazienza, un organismo vivente in movimento e pronto a trasformarsi. Mi ha guidata a percorrere itinerari di ricerca e di studio, e a confrontarmi  di continuo con altri universi poetici.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento del poeta?

Ringrazio Mario che con questa domanda, non so se più provocatoria o deliziosamente  maliziosa, ci invita a passare attraverso specchi deformanti!

Sappiamo bene che la verità dell’arte sta tutta, inevitabilmente, nel suo potere di trasmutazione. “Non c’è altra verità - lo dice il poeta - che quella che si trasfigura in arte” (Brodsky) .
Il vero dell’arte non coincide col vero naturale, ma si modula  secondo proprie legislazioni  i cui termini dovranno essere di volta in volta inventati, e in distinta autonomia che non è né falsa, né vera: è altra, ed è più complessa di quella che ci circonda: precisamente quella che l’arte richiede. A scrivere, (come a dipingere) si è inevitabilmente in due. Il detto, appena formulato, si distacca dallo spazio mentale per riformularsi in altra forma sulla pagina. Occorre tutta la sincerità del poeta, ovvero, la sostanziale integrità dell’essere per sostenere con sguardo fermo, la tremenda dualità della Maschera. L’artista fa suo questo volto portatore di estremi, vive per metterli in tensione, talvolta per farli esplodere… dov’è la finzione? Si è comunque veri, e diversi, nel viaggio, fatalmente diversi in quanto portatori di infinite contraddizioni, vere o illusorie che siano, ma tutte legittime perché appartenenti all’umano e alle sue tensioni. Fermo restando che ci sarà sempre nel fondo un nucleo di sincera adesione ad una interiore verità, come ad un  ancoraggio inestirpabile che si chiama: vero e autentico sentire, il fulcro, cioè di quel che si intende per creazione. Niente si crea se non c’è vero e autentico sentire, ed è quello che, a ben vedere, produce verità in arte. In assenza di vero sentire, dovremmo parlare non di poesia, ma di qualcos’altro che non le somiglia,  e non riesce a convincerci.
Converrebbe, piuttosto, domandarsi in che modo riescono ad integrarsi l’esigenza di verità del poeta con le esigenze proprie dell’arte. Tendenzialmente, le due sfere aspirerebbero ad amalgamarsi nell’atto creativo: l’una, nella sostanza dell’altra, arricchendola e trasformandola. Al poeta, il compito che non venga tradita la peculiarità dell’arte in nome di un angusto concetto di  verosimiglianza; il che non significa affatto “mascherare” il vero, come spesso si è portati a credere in ossequio a codificati convincimenti moraleggianti del tutto estranei all’arte.
Solo l’artista (il poeta) saprà discernere il senso corretto di ciò che viene detta “simulazione” in arte, e sarà Picasso ad indicarcelo in uno sfolgorante aforisma: “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità”.
Una bugia che Blanchot non esita a definire, per ciò che attiene la letteratura, “frutto di fede e di onestà da parte dello scrittore”.
E c’è Adorno che asserisce l’identica cosa (dell’enunciato picassiano) rovesciandone arditamente i termini per restituirci un’equazione dinamica di potente efficacia: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.
A me sembra che, in entrambi i casi, i termini di bugia e verità  riflettano due speculari “proiezioni” mentali che si caricano di significazione etica nella magia dell’arte.

Altra cosa è la falsità di fronte a se stessi, e di fronte all’arte, quella che si regge sulla formula spettacolistica della propria simulazione fine a se stessa e non produce altro che straniamento;  o quella che ama dichiarare le più edificanti intenzioni senza mai passare col proprio corpo attraverso il “cerchio di fuoco”, o attraverso gli specchi, né lasciarsi contaminare dalla stregata, smagliante verità della Maschera.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Lorenzo Calogero, formidabile voce del profondo sud italico, ucciso dall’indifferenza dei suoi contemporanei… La sua lettera di molte pagine indirizzata a un potente dell’editoria, come ci viene riferito, non ebbe mai alcun esito! E l’aspetto che più rattrista è che quel potente dell’editoria era anche un (fin troppo) celebrato poeta…
Un poeta, Calogero, mai celebrato, nemmeno da morto, (ricorre quest’anno il cinquantenario della morte)  stranamente rimosso, salvo alcuni sporadici ma significativi interventi critici.


Qual è il dono che augureresti a un poeta oggi?

Come ho già detto, si deve un riguardo particolare  al dono, già grande, della poesia.
Lo si onori come meglio sente, studiando, studiando, e anche, perché no? ponendo nuove insolubili domande alla Sfinge…


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

(…)
E l’ultimo giorno
- io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
(…)

Pensare soltanto di aggiungere un commento a questo tremendo urlo delle parole non nate, sarebbe per me profanarlo! In esso è contenuta tutta l’indicibile solitudine di un’anima.  Anche per Antonia Pozzi, la sua poesia, splendida e autentica, ha trovato sempre, dinanzi a sé  Una porta che si chiude, come è il titolo di questa poesia.
La poesia di Antonia è stata la rarità del Dono che si concede agli eletti, ai predestinati, la cui voce, limpidissima, mai fu intesa dai suoi contemporanei, a cominciare dai suoi stessi parenti, che per ottusità e ipocrisia, vollero parzialmente distruggere e alterare l’integrità non solo di tanti suoi testi, ma anche dell’ultimo suo scritto a loro dedicato prima di darsi volontariamente la morte. E a soli 26 anni!
Sono occorsi molti decenni perchè la poesia di Antonia, che in vita non riuscì mai a pubblicare, finalmente raggiungesse  significativa rivalutazione e venisse riconosciuta come una delle voci più vive e intense del Novecento.







In alto, un dipinto di Marc Chagall [1887-1985] 










1 commento:

  1. Scrive Eugenio Lucrezi. Condivido, nell'intervista di Papa Ruggiero, la tensione del poeta in direzione del bene comune, di una fruizione della parola lavorata ad arte che risulti possibile e praticabile anche da parte di un pubblico della poesia non ultraspecialistico, non chiuso nella conventicola dello specialismo autoreferenziale, sempre catastrofico per la vitalità della lingua, e più in generale dei linguaggi ferenti un'espressione non mercificata della realtà. Papa Ruggiero parla esplicitamente di poesia come di bene condivisibile, e va lodata. A noi cultori e amanti della poesia spetta il compito di mettere in pratica l'indicazione: tutti hanno i sogni e le visioni; non tutti hanno la parola. Tanti neppure immaginano la forza che può avere la parola.

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