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La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

domenica 26 giugno 2011

Moniaspina di Monia Gaita




Monia Gaita









Mario Fresa dialoga con Monia Gaita

Si avverte, nella tua scrittura, un’incidenza forte, che vorrei definire di alta e sofferta acribia, del rapporto che lega e stringe la parola con il suono. Come definiresti il senso dell’elemento orale così incisivamente presente nella tua poesia?

Per me la poesia largheggia e s’incrementa anche nell’impasto sinfonico di una partitura musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l’apposizione degli accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa coerentemente si combina sotto l’egida del gioco elementare significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise, bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale.

Qual è il limite, nel tuo dire poetico, tra confessione e oggettività?

Quando dico parto sempre da ricordi, esperienze in svolgimento, passate o immaginate possibili. Posso anche ipostatizzare tutto un fervido contingente di fantasie ed inventato. Ma poiché ritengo che nel pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a fette fate, brume e mondi. Con un colpo di forbice non posso dimidiarmi in due aree, quella in cui più m’identifico, da quella che avverto a me estranea o lontana. Le parole mi fasciano interamente, mi forano le assi del respiro, m’assediano i secondi di bianco e di nero, di giusto e di sbagliato, di redenzioni e crolli. Ci sono comunque io in ciò che scrivo, e non col mimetismo criptico di
chi nei versi si nasconde o si confonde, ma nel senso autentico, che soppianta la finzione del messaggio.

Le forme e i discorsi del tuo gioco poetico pretendono una costante riflessione, un invito continuo a scalare una infinita vetta, piena di ostacoli, di grumi pluridirezionali, di enigmi e di sorprese; è giusto indicare come sempre ritrosa e sfuggente – cioè non direttamente e facilmente comunicativa - la tua lingua poetica?

“Ritrosa e sfuggente” è una diade aggettivale che mi appartiene e che credo appartenga a un certo tipo di poesia, oggi sicuramente minoritaria. Ho sempre pensato che la poesia risieda in un punto sommitale che non ci è dato cogliere del tutto, ma per brevi sigle o sipari luminosi. La poesia è come Dio, come l’inconoscibile: non si può spiegare e neppure ce lo chiede. La mia poesia non è facilmente comunicativa perché per me la poesia non ha da comunicare. La poesia può emozionare, indurci ad assegnare al nostro pensiero una direzione più libera e intelligente, ma resta pur sempre Arte Assoluta. Può trincerarsi dentro un silenzio sdegnoso, folgorante e inaccessibile: siamo noi, innamorati persi ed inarresi, a inseguirla anche quando ci evita, ci snobba, ci lega e ci maltratta.

Vi è abbandono e progettualità, nei tuoi versi; convivono, cioè, la geometria e il disordine, la meditazione e l’immediatezza, lo studio programmato e l’accensione impreveduta; ma qual è, nella tua scrittura, il punto di partenza, e qual è la finale mèta? L’ordine o il caos?

La finale meta è sempre l’ordine, sgretolare il caos, le omeomerie del nulla ed il frustràneo, sgominare i reparti del buio, del vuoto e del caduco, sovrapponendo alle fratture dell’addensato fenomenico una seconda ossatura che valorizzi e rivaluti l’esistente e lo reinterroghi senza posa, per scagliare le pietre definite alla bellezza, farne amuleti di conforto e riflessione quando serve.

1 commento:

  1. una mia noticina...
    http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/537-Monia-Gaita-Moniaspina.html

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