Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

martedì 12 marzo 2013

  


Nazario Pardini
su Percezioni dell'invisibile






Elegante plaquette quella che mi è giunta stamattina, otto marzo, per bontà di Pasquale Balestriere. Semplice, ma curata per veste grafica, impaginatura, carta e composizione. Senza contare l’apporto estetico non indifferente delle belle immagini fotografiche di Gabriella Maleti. Impreziosiscono veramente il tutto. Sì!, perché è determinante la cura di un testo per una buona poesia: invoglia a palpare, a sfogliare, a annusare, ad ascoltare lo sfrigolìo  delle pagine. A sbirciare in qua e in là, per poi darsi, anima e corpo, ad una lettura attenta, scrupolosa; volta a scoprire i messaggi, le allusioni, la corposità del verbo, l’anima degli azzardi di questa antologia. Un’antologia contenuta, non tanto per numero di pagine (72), quanto per il numero dei poeti a cui il curatore ha vòlto la sua attenzione: Lucianna Argentino, Pasquale Balestriere, Floriana Coppola, Giovanna Iorio, Ketti Martino, Cinzia Marulli Ramadori, Marco Righetti.  Poeti di tutto riguardo, conosciuti in ambito nazionale e decisamente autonomi per caratteristiche etimo-intellettive e per storia personale. Come, d’altronde, si può ben evincere e dalla introduzione critica che precede la scelta testuale di ognuno, e dai cenni biografici che ne seguono; alla fine altre due biografie: di Gabriella Maleti e di Giuseppe Vetromile. E’ d’obbligo un complimento al curatore per l’operazione oculata e  per il saggio intervento. Anche perché, da un panorama così promiscuo da un punto di vista stilistico e metrico-semantico, spicca ancora di più la personalità culturale e sperimentale, se si vuole, di ciascuno dei Nostri. Certamente poeti di notevole caratura e che, soprattutto, ci offrono una giusta connotazione di quelle che possono essere le diverse tendenze nel panorama letterario attuale. Una raggiera di intenti emotivo-allusivi e etimo-verbali veramente articolata. Non è azzardato parlare di minimalismo, di sperimentalismo, di forzatura sintattica per abbrivi allusivi; ma, di classicismo, anche,  fresco, robusto, rigenerato, ricco di sana humanitas, innervata di rivoli culturali che non appesantiscono; ma, anzi, che si attestano come sfumature di grande apertura immaginifica. E, con questo tipo di classicismo, mi riferisco, soprattutto, a Pasquale Balestriere, che, con la sua poesia, racconta una lunga storia di studi, di vita, e di amore per questa antica arte che lo rende unico. La sua poesia è tutta lì: nel verbo, nella parola conquistata col dolore, nelle sue dolci e tenui metafore, nel suo non eccedere; ma soprattutto nel sapere intrecciare il tutto in una metrica mai casuale, mai artificiosa, ma equilibrata e robusta che ne fa uno degli interpreti più convincenti di questo repêchage umanistico. Sì!, umanistico. Di un umanismo rivisitato, attualizzato, storicizzato, ma che contiene la solita vèrve sostanziale. Di lui ebbi, già, a scrivere: “Le pergole di sole, i liuti di vento, il mirabile colono, i languori d’autunno, i sacerdoti incantati, le sudate zolle, i grappoli opulenti, i venti, i tramonti, le vigne dai pampini dimessi: tutti tocchi e ingredienti mai a se stanti, ma frammenti dell’essere  e dell’esistere,  corpi della gradualità del sentire, concretizzazioni di vita interiore. Il dire elegiaco di Balestriere equivale ad un racconto didascalico-allegorico, dove sotto ogni colore, ogni forma, ogni sfavillio panico, è nascosto un brandello d’animo che ambisce a concretizzarsi in natura. In ciò il suo panismo esistenziale. E l’autore, per dare più corpo al suo “poema”, spesso chiama in aiuto i grandi della letteratura: da Omero ad Alceo, dal divo Anacreonte ad Ovidio, da  Orazio al Magnifico, ed al Chiabrera…”. Efficace misura la sua.
             Ho avuto occasione di occuparmi, anche, della poetessa Lucianna Argentino. Ho letto il suo bel libro (L’ospite indocile) edito da Passigli, 2012. Un testo ricco di intenzioni novative sia a livello semantico che speculativo. A lei si addice a pieno il titolo di questa plaquette. Dato che l’autrice parte da una letteratura minimalista; dalle piccole cose di ogni giorno, dalla quotidianità, per staccarsene, però, ed avventurarsi al di là del concreto. Verso le percezioni dell’invisibile. Se per concreto s’intende ciò che vediamo, viviamo e che abbiamo davanti, lei è tutta volta a riscrivere la realtà per offrire un rifugio al tempo. Ecco uno stralcio della mia recensione: “… E come è impossibile tracciare linee geometriche oltre cui azzardare la nostra spinta emotivo-razionale, è egualmente impossibile fissare termini linguistici per espansioni che vadano al di là di tali orizzonti. Per questo la Nostra è impegnata in uno sforzo etimo-fonico di rara fattura. Risultato nuovo ed interessante in questa sua andatura singhiozzante, celiniana direi, per decriptare intensità vicissitudinali. Costrutti e tecniche architettonicamente esperiti che, pur spontanei, appaiono rivisitati, anche, da tocchi necessari a raggiungere pointes di alto equilibrio fra dire e sentire…”.
         Ma, devo aggiungere, anche, che gli eccessi sperimentali, come la storia ci insegna, passano facilmente nel dimenticatoio. Con ciò non è detto che non abbiano avuto la loro importanza. Fanno parte di una esperienza letteraria, che, anche solo per contrapposizione, creano stimoli per una nuova scrittura. D’altronde è proprio nel gioco delle contraddizioni che si forma la diacronica dialettica delle correnti. E in queste sue prose poetiche, purché liricamente interessanti, purché estremamente vicine ai suoi sforzi verbali, purché tese a scandagliare emozioni col dovuto distacco, vedo un’altra Argentino assai diversa da quella dell’Ospite indocile. Non mescoliamo le carte in tavola. E facciamo di tutto perché la poesia resti poesia e la prosa resti prosa.
Sugli altri autori – conoscendo poco le loro opere-  posso dire solo che è apprezzabile, veramente apprezzabile l’intento di fare una poesia tutta volta ad una spiccata analisi psicologica di un’umanità irrequieta; di un’umanità tesa a svincolarsi da un reticolato che a volte soffoca; per proiettarsi in fughe verso un irreale che tende a farsi nuova realtà. La parola è sempre tatuaggio di stati d’animo maturati su vicissitudini di sofferenza; sulla coscienza della precarietà dell’essere e dell’esistere. E affidarci alle note critiche che li introducono è l’unica cosa che possiamo fare. “In Floriana Coppola la poesia sembra aleggiare evanescente su un tessuto carneo sottostante, e sono versi dotati di grande abbrivio verso dimensioni altre, che esulano dalla materialità formale del nostro vivere quotidiano…” “Giovanna Iorio, più che percepire l’invisibile, certifica con la sua poesia il mondo che “pende” dalle nostre labbra, che non viene detto a nessuno, forse neanche a se stessi, per timore di schiudere visioni sconcertanti…”. Ketti Martino fa “Un dialogo con se stessa, con le proprie “ombre” di cui riconosce il verso, ma soprattutto una disposizione all’ascolto della natura e del mondo, di quella parte che si percepisce nelle segrete stanze del cuore, dove le luci e i suoni, a volte il silenzio, costituiscono le onde principali sulle quali affiora l’emozione…”. “La terra promessa ha sempre alimentato i cuori dei popoli. Cinzia Marulli Ramadori può essere una di queste figure viandanti, che illuminano la propria strada con la ricerca della felicità, pur riconoscendo le ombre e le tristezze del momento…”. “… Marco Righetti sintonizza il suo acume poetico, come spesso accade nelle sue composizioni, specialmente nelle più recenti, su fatti di cronaca che sommuovono lo spirito e spingono dall’interno con forza vulcanica ad esternare universalizzando quello che c’è da dire…”. D’altronde già il titolo ci dà un’idea di cosa accomuni questi poeti. Quella cosa che poi è il nocciolo della poesia stessa. Fughe e ritorni; vita e sogno; amore e timore; realtà e affrancamento. Ma soprattutto frazionamento della realtà, assorbimento del quotidiano da cui staccarsi, svincolarsi, anche con l’immaginario, per rendere percettibile l’invisibile. Andare oltre, chiedendo alla parola, al suo traslato potere, di combaciare quegli impulsi vitali che ci animano. E questi poeti sono un chiaro esempio di cosa può la poesia. Non esistendo verità, e da sempre l’uomo affannandosi per conquistarla, il canto è l’arma più semplice e più complicata per agguantarne la coda; per avvicinarsi il più possibile al suo nutrimento; al cuore pulsante dell’anima universale. Perché dovunque è armonia. C. Baudelaire afferma che il poeta è in possesso di quel sesto senso, con cui può percepire ciò che è nascosto al comune mortale. A questo le cose appaiono divise, incomunicabili. Al  poeta appaiono unite da un’armonia indefinita. Quella musicalità che può vibrare solo nel suo animo e che può traghettarlo al cuore delle Percezioni dell'Invisibile.



     

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