Mario Fresa
Questionario di poesia (3)
Rita Pacilio
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
Vorrei tanto che la mia scrittura subisse, nel tempo futuro che mi è concesso, una ‘spoliazione’ dell’elemento amoroso-soggettivo-temporale per meglio interpretare nel gioco espressivo dell’epos, la storia dell’uomo come particella infinitesimale dello spazio/tempo che appartiene all’universo atemporale. Vorrei, quindi, arrivare segretamente nei meandri creativi dell’umanità geniale per sorprendere la mia commozione e trovarla impreparata a me stessa.
Come nasce, in te, una poesia?
La poesia è un atto di fede, è una gioia consumata, è un richiamo di suoni multipli e multiformi. Gli echi innumerevoli dei contrasti e del rischio di fare letteratura mi hanno sempre drammaticamente portato verso un tormento che qualcuno ha definito ‘umile destino’. Spesso ho creduto che l’aspirazione a ‘fare poesia’ fosse un atteggiamento instancabile tra dialoghi contrapposti: due voci dissonanti, una egocentrica, correttrice e creativa, l’altra schiava, protettrice e instancabilmente fragile. Il mio ‘fare’ versi è una necessità che nasce da una rivolta interiore. Mi piace riportare qui di seguito il mio sentire la ‘poesia’ dentro, perché non riesco a dire diversamente:
Così rievocavo le identità e gli irresistibili impeti sforzandomi di consolare il disincanto dell’apparenza della mia identità e dei ruoli degli altri.
Avevo sei anni, forse meno. Cominciai senza la penna in mano. Senza fogli.
Mi apparivano i doppi fondi delle cose e ne ero in balìa: non conoscevo ancora il modo per diventarne padrona.
Ancora adesso non lo conosco.
Sapevo di essere una dissonante intuizione ma quel ‘pensiero’ nascosto mi esplorava dall’alba di ogni giorno.
Mi confortava spiazzandomi tra paradossi e aforismi.
Mi faceva male a volte, mi possedeva da uomo.
Sentivo l’ingenua e pessima traduzione dell’oltre e cresceva.
Si dilatava.
Si moltiplicava.
Gli occhi spalancati hanno guardato gli eccessi dell’interiorità e sentivo che niente mi capitava invano. La responsabilità del controllo e del crollo del mio essere ha elevato i sensi.
Ogni cosa di me era in movimento.
Mi riparavo nelle rientranze della mano ma la sporgenza delle dita mi proiettava nell’aria in modo deciso e austero.
La trasgressione è diventata portatrice dell’ansia della banalità dei luoghi comuni. Così si è tracciata una strada che percorrevo da sola e pur sapendo di cancellare ogni passo, non tornavo mai indietro.
Sfumata, fluida, flessibile, spesso irresistibile, ambigua, appariscente.
Perversa e arresa.
Umile.
Persa.
Senza scampo.
Guardare nel buco dal buco qualcosa che non sapevo di avere.
Mi intrigava il fastidio, l’imbarazzo dell’etichettamento. Mi spiazzava l’indifferenza e rimuovevo il ‘tutto è possibile’. Sapeva che ero sua schiava: mi faceva indossare il velo e poi mi spogliava di fronte allo specchio.
Abitava negli aspetti essenziali della mia identità.
Dava vita a forme autentiche di reciprocità. Sapeva che non volevo la tolleranza, ma avevo bisogno di essere rispettata e compresa.
Accolta: una virtù come una forma di passaggio simmetrica scandalosa e pudica. L’immaginario fiabesco rappresentava la mia infanzia adattata al mutamento del personaggio che ero diventata.
Lei mi modellava.
Era quasi un incesto.
E non mi sentivo colpevole se mi stavo innamorando di lei e lei di me.
Un amore sparso nelle vene del polso destro, dove solo i segreti degli amanti possono mettere in scena l’affermazione del simbolismo del piacere.
Ho soddisfatto i bisogni della dipendenza per avere in cambio le poche cose che fanno stare bene.
Ho goduto il dolore presente nel ricordare la passione passata.
Ho lasciato mi violentasse il tormento irragionevole per assaporarne la saggezza solitaria. L’ho idealizzata.
L’ho battezzata dea.
Le ho lasciato il gusto di adottarmi come figlia.
Nessuno mi ha fatto domande diverse e non ero pronta al rifiuto: così la reazione di carne ha evitato i misteri ed ha accumulato giorno dopo giorno la testimonianza delle radici future.
Qualcuno mi ha chiamata ‘piantina di vetro’. Una luce di fuoco traspare. Lei lo sa.
Ha avuto il coraggio di promettermi che mi aspetta.’ (R.P. ‘Alle lumache di aprile’ – LietoColle 2010)
Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Credo che tutti gli autori scrivono per somiglianza o per differenza tentando un elaborato anomalo e innovativo per commuoversi e per commuovere mettendosi alla prova, spesso, in modo tortuoso e complicato e interpretando se stessi. Credo che la spinta propulsiva alla scrittura sia la disperata ricerca (come quella leopardiana) di una piena e totale e a volte inspiegabile felicità, ecco perché ogni abisso dolorante e angoscioso si trasforma in una forma espressiva, spesso impercettibile anche a chi scrive, oltre che a chi legge, che è la sostanza della poesia.
La poesia è salvazione?
Se la poesia non si limita ad essere la ‘lode delle cose perdute’ o ‘l’assillante dialettica epistemologica tra l’uomo, Dio e la natura’, allora si può affermare che ha un potere salvifico, perché diventa comunicazione tra tempo e spazio fatto dagli uomini. La poesia è la più alta creazione artistica capace di dare un senso alla speranza comunicativa come crescita sociale.
A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho smesso di giocare a nove anni, quando è morto il mio papà, quando il sipario della mia vita ha cambiato colore. Nei ricordi lontanissimi del ‘gioco’ trovo le mie braccia sottilissime a farsi culla per l’ultima bambola. I miei versi sono accoglienza di sensi e di anima, insieme.
Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?
Confrontarmi con chi scrive poesia e di poesia è l’esperienza più significativa e formativa che abbia mai fatto. Ho imparato, attraverso l’interazione con le altre scritture, che non bisogna mai raggiungere una ‘occupazione’ ma bisogna guardare in modo fisso all’aspirazione’.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
La poesia, secondo me, dovrebbe toccare la verità universale, quindi dovrebbe tendere ad eliminare l’elemento ‘finzione’ interno a se stessa.
È vero, chi scrive spesso si rifugia in uno spirito dialettico ricercando l’attrito tra il vissuto personale e l’espressività fonetico/metrica, ma non credo che sia indispensabile cercare l’equilibrio tra la maschera e il volto: le due realtà vitali presenti nella poesia non si oppongono, ma l’una presuppone l’altra.
Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Dino Campana.
Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?
A tutti i poeti in vita auguro parole nuove, agli autori di oggi, numerosissimi, consiglio di leggere i poeti e di rileggerli, prima di ambire al ‘podio’.
Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?
Tu non puoi torturarmi con la tua incostanza, /
ne va della mia vita col tuo disdegno. (W. Shakespeare). Questo verso ha tutta la forza dell’impotenza del genere umano di fronte alla colloquialità spezzata: la poesia è comunicazione e qui si avverte l’amarezza di una interazione respinta e la necessità universale dell’uomo di partecipare, sempre e comunque, all’altro.
ne va della mia vita col tuo disdegno. (W. Shakespeare). Questo verso ha tutta la forza dell’impotenza del genere umano di fronte alla colloquialità spezzata: la poesia è comunicazione e qui si avverte l’amarezza di una interazione respinta e la necessità universale dell’uomo di partecipare, sempre e comunque, all’altro.
Cara Rita, faccio mio il tuo augurio/ invito a trovare parole nuove, perché poi è anche questo Poesia: una continua ricerca (e tu in questa intervista lo dici divinamente), di parole nuove, di sentieri e terre nuove da esplorare.
RispondiEliminaun sincero abbraccio
"Confrontarmi con chi scrive poesia e di poesia è l’esperienza più significativa e formativa che abbia mai fatto. Ho imparato, attraverso l’interazione con le altre scritture, che non bisogna mai raggiungere una ‘occupazione’ ma bisogna guardare in modo fisso all’aspirazione’."...
RispondiElimina...perchè sai benissimo Rita, che l'ispirazione deve e dovrà morire per rinascere ogni volta, essere intonata sempre anche se ripetuta mille volte, nuova, essenziale e sempre più potente della prima volta...per un'ispirazione che muore un'altra stagione fiorirà...
ecco perchè credo al tuo modo di far poesia: ogni poesia che nasce, la tua, è sempre l'ultima.
Nando
Condivido l'atteggiamento di Rita nei riguardi della Poesia. Il cercare un confronto costante con l'altro,il bisogno di rinunciare a finzioni perchè si possa davvero 'far Poesia',che non è un esercizio di stile,ma un dar voce al proprio Sentire. Ed è per questo che la Poesia necessita continuamente di nuove parole...perchè la Poesia cresce e si muove con noi,è in continuo divenire,allo stesso modo in cui noi siamo in perenne metamorfosi.
RispondiEliminaogni poesia che nasce,in realtà,non è mai l'ultima...ma è solo un verso sospeso su quelli a venire..
La citazione di Shakespeare poi...In quelle parole c'è il senso di tutto ciò che agita la mia 'penna'..la mia vita.
Sylvia*
Ho letto con piacere queste riflessioni sulla poesia di Rita Pacilio e mi sento sulla sua stessa lunghezza d'onda. E' evidente l'amore e la competenza di Rita nello scrivere e frequentare questo particolarissimo mondo che ci accomuna e che ci rende più consapevoli dei segreti palpiti che muovono l'universo e la storia dell'uomo.
RispondiEliminaI miei complimenti a Rita, che spero di incontrare personalmente in una prossima occasione letteraria, ed a Mario che sa così magistralmente cogliere le voci più interessanti del nostro panorama poetico attuale!
Giuseppe Vetromile
Grazie a voi tutti che vi siete fermati qui, che avete con pazienza e amore carezzato i toni triangolari delle mie parole. E a voi che avete letto e che per motivi reconditi non avete commentato pubblicamente, ma che mi avete lasciato in posta saluti e complimenti affettuosi. Spero di ritrovarvi, tutti, comunque e ovunque. Un grazie speciale a Mario Fresa e all' 'Arca Felice' che mi ha accolta con entusiasmo e benevolenza in questo spazio virtuale prestigioso e preziosissimo. Un augurio, quindi, di collaborazioni prossime e di lunga vita in poesia, sempre! Rita
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