Andrea Bonanno per Vincenzo Gasparro
Avvince subito della silloge
poetica dal titolo “A che servono le rose” di Vincenzo Gasparro, edita di
recente da L’Arca Felice di Salerno
con uno scritto introduttivo di Vincenzo Di Oronzo e dipinti di Sofia Rondelli,
l’alto input di immagini poetiche che si libera da una struttura di base che
favorisce riflessioni e proiezioni del sentimento su impellenti problematiche
metafisiche.
Immagini intense legate a
folgorazioni dell’attimo solcano incessanti la coscienza del poeta, rivelando
un aspetto duale ed oppositivo di uno stesso oggetto in senso metaforico e
simbolico, sullo sfondo dei segni di una malinconia impietosa che sembra
impietrire la realtà, ma che si attenua fino ad essere sommersa dall’incalzare
delle mille voci della bellezza e dell’incanto della natura, anche se l’io del
poeta rivive in ogni istante la drammaticità del trascorrere eracliteo di essi,
disponendosi a quell’eterna interrogazione sui dilemmi “tempo-eternità”, “mutabilità-assoluto”,
sentendone lo sbigottimento, come enigmi dell’arcano e dell’invisibile.
La cristallizzazione
dell’esistente accumula così nell’anima del poeta un’acuta tensione che lo sollecita
a ricercare e a svelare della condizione umana qualche barlume della sua
essenza spirituale e della sua verità metatemporale. Nel venire scongiurato il
tempo registrato meccanicamente, la coscienza è chiamata a scandire il tempo e
lo spazio di ciò che proviene dall’esterno e dal profondo dell’io in una
interrelazione sincronica e commisurativa che possa rivelare qualche barbaglio
di luce e di verità. La staticità petrosa del reale origina così, in una
vissuta durata dell’evento esistenziale, un nuovo reale, le cui fascinazioni fugaci della bellezza stridono
contrapponendosi alle voci che riverberano i segni della morte. Sullo sfondo di
una Messapia, assunta dall’immaginazione e coscienza del poeta con
l’interrelarsi dei suoi eventi passati e presenti, delle sue piante e fiori, e
delle figure ed affetti rimemorati, il poeta, con la sofferenza di ogni uomo di
oggi, segnato dai turbamenti della schisi e dalla ricorrente paura della morte,
ricerca una risposta ai cruciali enigmi dell’esistenza.
Di fronte alla consapevole
ambivalenza dell’esistente, aleggiano nel libro le molteplici suggestioni
sentimentali tese al ripristino di un’infanzia innocente, le allusioni e i
sogni di un’altra vita, i vari prodigi di una natura estasiante, le cui voci
sembrano comunicare il loro inappagato desiderio di poter sfuggire alla desolazione
della morte, e, soprattutto, la speranza della prospettazione di una vita
spirituale più vera nel presente. La
poesia del Gasparro, densa di confessate amarezze e di un intenso amore verso
la vita, registra solitudini e dolori, in contrapposizione al tripudio dei
colori del suo “quieto paese” (p. 13), gli spensierati e ignari volteggi del
merlo sulla “torre orlata”, il nocchiero che abbandona la nave e l’inutilità di
un monocorde orologio incapace di “scrutare lontano” e di rivelare un’esile
goccia di verità.
Nel darsi ossimorico
dell’esistenza, i ricordi dell’avvenenza di lei e “La chioma del faggio sfavillante”,
nella luce del mattino, dilatano attimi di malinconia per la loro apparizione
subito dissoltasi, mentre la riflessione prolunga i suoi momenti analitici sul
destino o, a “pensare e ripensare il tempo logoro consumato”, che ha fatto
svanire per sempre i momenti più belli di “quell’amore disperso tra/ i profumi
delle arance e i fiori del gelso” (p. 14). Suggestiva e densa di
un’irrefrenabile angoscia è la poesia di pagina 15, che denuncia l’imperante
alienazione della società attuale, che vive ormai di realtà virtuali dominate
dalla menzogna e dalla simulazione: “… In piazza Duomo De Dominicis / nella
frenesia ha deposto le ossa ci attende / lo sterminio simbolico della mostruosa
/ Calamita Cosmica ma tutto scorre infelice / nell’apparenza del piacere sulle
guglie / s’è arroccato il dolore del mondo”1. Un dolore che continua
a palpitare insistentemente nell’anima fino a originare nel sonno dei terribili
incubi, con il ritrovarsi “sul dorso della collina / fra scheletri nel querceto
e un cielo / dolente / La poesia, mi dissi, è il racconto che ci portiamo
dentro della morte” (p. 16). Toccante, per l’elevata sensibilità di un
autentico poeta, è la poesia sulla morte, che “arriva dall’ombra” di pagina 19,
in cui alla vitalità gioiosa delle rondini, che nel cielo “disegnano /
geometrie di vento e aria”, si contrappone quell’urlo e quello sguardo “posato
sullo specchio rotto”.
Versi intensi sono inoltre
dedicati alla Poesia che ci “svela i segreti” e che “si fa figura delle contraddizioni”,
ma che può “cantare il fascino / della notte e la calda calma del mare blu /
aizzando la mente ai sogni e al caso” (p. 23) e che fa parlare perfino il
silenzio notturno, che “scopre la verità” e fa incontrare l’io con se stesso e,
soprattutto, fa sentire gli sguardi
degli innocenti morti a causa della nostra indifferenza disumana. Altre
suggestive e soavi immagini poetiche si riscontrano in molte liriche che
tendono al voler delucidare aspetti e disarmonie della condizione umana e, nel
contempo, i sogni più intimi ed impellenti riguardanti la prospettazione di una
più elevata spiritualità dell’identità umana.
E’ una poesia, quella del
Gasparro, mostrante una soave grazia ed un’alta intensità poetica, che sfugge
alle fatue suggestioni del canto contemplativo, ai sortilegi-trappola degli
“eterni ritorni” in un passato mitico improponibile in quanto nega all’io di
poter agire nel presente2, e agli usurati rapporti intercorrenti fra
l’io e il reale, per via di quelle potenzialità
commisurative dell’ io precario (che è quello ormai di tutti), che non vive più di sensazioni irrelate, ma
che si rivela attivo nella molteplicità simultanea della vita interiore, per il
suo intuitivo verificarsi ai dati esistenziali, senza schemi preordinati.
In tale senso, la poesia
gasparriana, aderendo ad una poetica del “caos in travaglio” e della “durata
reale”, diviene un inventario di interrelazioni e di acquisizioni miranti allo
svelamento di spazi e sollecitazioni nuove connesse alla fondazione di una
inedita formulazione di una più spirituale identità dell’uomo. Ciò che è
essenziale della poesia del Gasparro è quel tono innovativo del guardare e
dell’essere guardati3, cioè quel commisurare aspetti delle cosalità
reali con i suoi sentimenti e le sue visioni proiettive, che ritornano dal “son
double”, come delle commisurazioni che interrogano l’io del poeta. E’ quell’
“Indomabile sguardo che cerca / altri mondi in questo”, per dirla con Cesare Viviani,
è quel valore attribuito ad inesausta commisurazione della sua anima e del suo
sentimento che ricercano gli spiragli per un altrove di purezza e di candore.
Tutto è perfetto nel suo limite,
afferma il poeta, in quanto la vita, seppure condizionata a livello biologico
dal male e dalla morte, pur tuttavia lascia indeterminabile la volontà
dell’uomo di poter aspirare alla prospettazione di nuove forme di vita
spirituale e ad una nuova identità4, intenzionando il mondo delle
essenze (le forme ideali o nuovi valori). Per questa ragione, il poeta non può
dire altro che “tutto ci rimanda alla perfezione più grande” (p. 25), quando
“l’anima precipita per ogni dove / e i quadranti temporali sono sghembi” (p.
26). Una silloge avvincente, dunque, che respira di una soave grazia e di
un’intensità poetica notevole, nel cantare l’amore per la vita e il sogno di
una palingenesi spirituale dell’anima dell’uomo, identificabile forse nel
tentativo di sublimare l’io soggettivo di ognuno in un grande Sé di tanti io fraternizzati
e solidali, miranti a espletare inediti e più alti valori umani e poetici.
Andrea BONANNO
Note –
1.
Gino De Dominicis,
nato ad Ancona nel 1947 e morto a Roma nel 1998, fra le tante opere è autore di
uno smisurato scheletro umano di ben 24 metri, largo 9 e alto quasi 4, disteso
sul suolo, caratterizzato da un lungo naso e da un’asta dorata puntata sul dito
indice della mano destra, punto in cui confluisce l’energia del corpo da
indirizzare ed accordare a quella siderale,
dal titolo “Calamita Cosmica”(Gesso, polistirolo, resina sintetica,
anima in ferro e collante vinilico). L’opera, composta nel 1989, espressa nel
linguaggio artistico della presentazione metonimica e mostrante la terribilità della dissoluzione
del corpo operata dalla morte, neutralizzando le dimensioni spazio-temporali,
mira all’affermazione dell’immortalità del corpo. L’artista con quest’opera
presenta l’ipotetica possibilità di far interagire l’energia psichica del corpo
con i segni dell’eterno, ma ribatte Nicolas Bourriaud che “la spiritualità di
De Dominicis non si dà mai veramente come una trascendenza, anche se ne prende
a prestito le forme” (in Flash Art,
n. 156, giugno-luglio 1990, p. 115). E, continua con il dire che “De Dominicis
ci offre lo spettacolo tragico della nostra impossibilità di afferrare i segni
dell’immortalità” (p. 117). Di certo l’opera riesce ad accendere una esile
fiammella di spiritualità: quella consistente nel “tentativo eroico”, a detta
di I. Tomassoni, ma non mistico secondo noi, a detta di altri critici, di voler
uscire dai letali effetti e dalle negatività (i mali e la corruttibilità del
corpo) della vita e da un feroce apparato tecnologico alienante per la
salvaguardia dell’unitarietà della coscienza e del medesimo destino dell’uomo.
2.
In tal senso,
afferma il poeta, che “…dobbiamo perdere la memoria / e il desiderio del
ritorno all’isola di pietra” (p. 23).
3.
Si noti che nella
poesia di pagina 24, viene espresso il tema degli sguardi degli altri che
interrogano la nostra anima: “Ci fissano gli sguardi e interrogano / la nostra
crudeltà”.
4.
Lo stesso poeta
scrive, a pagina 11, che “L’io è frantumato e rivendica una teologia nuova. Il
poeta, oggi, più che mai, deve ripartire dalla storia, a cominciare dalla
propria biografia per approdare a un senso altro”.
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