Enzo Rega su
Pigmenti di Antonietta Gnerre
Fiori di vetro. Restauri di solitudine è il titolo di una
precedente raccolta di Antonietta Gnerre (Fara Editore, Sant’Arcangelo
di Romagna, Rimini 2007), ma è un’utile cifra per introdurre alla sua
più recente plaquette intitolata Pigmenti (Edizioni L’Arca Felice, Salerno 2010).
Il titolo precedente dà l’idea infatti di una “fragilità” che non è
debolezza ma “delicatezza” (quello che alcuni dizionari danno come
infatti primo sinonimo), che è la caratteristica e del contenuto e della
scrittura di questa poesia. Alessandro Ramberti, introducendo quella
precedente raccolta, parlava infatti di haiku. E si può aggiungere che haiku
erano “nascosti” anche in testi lunghi, nel senso che se ne potevano
estrarre lacerti che avessero queste caratteristiche, e il testo stesso
nell’insieme appariva come una collana di haiku.
Aspetti che senza dubbio ritroviamo anche in Pigmenti, ma
con un irrobustimento nel dettato pur nella delicatezza (delicatezza
ribadita anche nel comunicato che accompagna questa plaquette,
comunicato anonimo ma attribuibile a Mario Fresa che dirige la collana
de L’Arca Felice), una densità ulteriore che si fa icasticità. Citiamo,
per ridare anche questo soffio delicato d’oriente: “la tua lacrima /
avvolge gli ikebana / che dormono”.
Anche il sottotitolo del volume precedente può essere utile come sottotraccia per la lettura di questi nuovi versi: restauri di solitudine, ricordiamo. Cioè un’atmosfera intimista e di auto-interrogazione. Leggiamo infatti in Pigmenti:
“Nel camminare mi guardo / dentro”. Ma il viaggio della vita, questo
cammino pur personale, non è autoreferenziale. Il “restauro di
solitudine” può anche intendersi, ambiguamente, come “restauro dalla
solitudine” e quindi come apertura, ri-apertura all’altro: “Dall’aria di
un sogno / viaggio in treno / sulla ferrovia / delle tue mani”. Il
riferimento al sogno dà poi anche l’idea del carattere talvolta
visionario di questa poesia. Un carattere visionario che non è astrazione
(nel senso anche concettuale, filosofico) da questo mondo: “Eppure,
sento, che non hanno riparo / queste mie pene. Nascono dalla / tua
materia, per restare sul rigo / di un grande motore umano. / La mia
carne”.
Un aspetto umano, troppo umano che si completa poi nell’afflato con la natura. Già la Poesia
viene qui definita come “Un pensiero / che unisce / la mia voce / sul
colore di una / foglia”, in una sintetica dichiarazione di poetica.
Natura intesa cosmicamente come universo, in una mistica unione con
Dio (“c’era Dio nella goccia che accarezzava il tuo viso”): laddove il
Dio del monoteismo del quale Antonietta si è occupata anche come
studiosa, oltre che come credente, non è in contrasto con una qualche
forma di panteismo, se poi anche per il cristianesimo Dio è in ogni
luogo. Ma natura anche come luogo e luoghi geograficamente determinati,
laddove però micro e macrocosmo pure si fondono: “Irpinia, mia sventura e
mia sopravvivenza / terra del mio sangue, verde e cosmica / infinita
fino a schiacciarmi”; così come nella raccolta precedente una poesia era
dedicata a Prata, cioè a Prata di Principato Ultra, per
l’appunto in Irpinia: “Prata ti porto nel cuore nel grano delle danze /
future col diadema della mia alba percorro / i perimetri le cupole dei
tuoi rami con l’illusione / d’amarti solo io”.
La terra è dunque la madre-terra, e alla madre è dedicata l’ultima
poesia qui raccolta, un recupero memoriale del Natale da sottrarre alle
“cianfrusaglie dell’apparenza”, e in Fiori di vetro, a suggellare
più in profondità, e più a ritroso nei tempi, il legame con questa
terra, compare anche la nonna, la Grande Madre come si direbbe in altre
lingue, alla quale dice: “Oggi sei la sentinella che ci accompagna /
nella terra della fede con i piedi fasciati / dalle tue preghiere
ascoltiamo i messaggi dell’amore”. Le poesie dedicate più direttamente
alla propria terra, alla natura nella sua concretezza, e alle madri da
cui ventri si discende, si dilatano oltre le forme dell’haiku,
espandendosi in versi più lunghi e numerosi, come se lo spirito volesse
poi farsi carne e in essa, attraverso essa, riconoscersi. Che è il
mistero cristiano nel quale profondamente Antonietta crede senza
chiusure confessionali ma nella tensione di un discorso interreligioso e
interculturale. Che significa poi sentirsi tutti rami di un unico
albero, immagine fondamentale in questa poesia: e la riproduzione di un
olio di Raffaele Della Fera, raffigurante un nodoso albero che sorge da
un mosso mare d’erbe (che ha qualcosa – pur spoglio e diverso per
realizzazione, del Pino nei pressi di Aix di Cezanne), accompagna questa plaquette coloristicamente, e essenzialmente, intitolata Pigmenti.
Ma qui mi taccio per non incrinare, con le parole spurie della critica, il nitore cristallino di questi versi di vetro.
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