Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

sabato 11 aprile 2015

Recensione di Antonio Devicienti su "La parola dell'occhio" di Marco Furia

Riportiamo la recensione  di Antonio Devicienti dedicata a La parola dell'occhio 

di Marco Furia 

Edizioni L'Arca Felice pubblicata

 su perigeion.wordpress.com

Ecco il link: https://perigeion.wordpress.com/2015/04/11/su-un-libro-di-marco-furia/

Su un libro di Marco Furia


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di Antonio Devicienti
(L’opera d’arte interrogata)
La parola dell’occhio di Marco Furia (Edizioni L’Arca Felice, Salerno, 2012) ha già e giustamente trovato una bella eco sulla Dimora del Tempo sospeso (qui l’intervento di Gabriele Gabbia e qui quello di Marco Ercolani )ma mi fa piacere scriverne anche in questo spazio, a tre anni dalla sua prima pubblicazione, per più motivi: penso sia importante che una rivista on line come Perìgeion si soffermi su libri che meritano di durare nel tempo, perché siamo consapevoli di quanto epidermica possa essere la lettura sul web, per cui Perìgeion ambisce a mettere a disposizione dei propri lettori una sorta di archivio-memoria sul quale ritornare a distanza di tempo e che possa costituire una sorta di “biblioteca permanente” (ed anche in questo caso la lezione ci deriva dallaDimora); l’opera in questione possiede caratteristiche in controtendenza rispetto all’editoria dominante; La parola dell’occhio propone una scrittura ed un rapporto tra le diverse arti non banali ed assai stimolanti.
Si tratta di un volumetto (formato 14,5 x 21 cm.) di 32 pagine che viene definito dallo stesso Editore “prodotto artigianale di alta qualità lavorato in Italia su carte pregiate”: ci si riferisce a carte riciclate scelte dall’artista Bruno Conte, impresse con un nitido inchiostro nero, per cui l’avventurarsi della mente attraverso la lettura è anche un piacere tattile e visivo, accresciuto dalle immagini in bianco e nero che aprono ogni capitoletto e dalla litografia a colori fuori testo. Ovviamente il bianch’e nero delle immagini spinge a cercare l’opera a colori, ad approfondire. Meriterebbe a sua volta approfondimento il tema di quell’editoria che, scegliendo tirature a numero limitato, dà fondamentale importanza anche all’oggetto-libro e al suo contenuto, coltivando il gusto per la bellezza intesa come ricerca e sperimentazione: ben fuori dalle mode letterarie e dalle correnti di gusto determinate da precise strategie di mercato, proposte come la presente incontrano lettori che hanno la volontà e il gusto di cercare libri come La parola dell’occhio, ma non in senso elitario né snobistico, bensì per praticare l’antichissima arte della lettura come miglioramento di se stessi. E infatti, sempre stando alle dichiarazioni editoriali accluse al volume, si legge: Questa collana intende riproporre la tradizione complessa e fascinosa della prosa d’arte: una scrittura “di confine”, magicamente sospesa tra il carattere concreto e diretto della prosa e le movenze elusive e cangianti della poesia (la collana editoriale cui ci si riferisce si chiama In limine). Ecco: proprio questa scrittura “di confine” e questa volontà di superare il confine tra i generi e tra le arti (non mi stanco mai, appena ne ho l’occasione, di fare riferimento ad almeno quattro libri in tal senso per me irrinunciabili: Da un’arte all’altra di Giuseppe Zuccarino, La vita dei dettagli di Antonella Anedda, La ciotola del pellegrino – Morandi – di Philippe Jaccottet e Il cacciatore di immagini di Charles Simic) mi sollecita a scrivere della Parola dell’occhio, a soffermarmi su questa proposta raffinata che ha anche il merito di rinnovare una nobile tradizione italiana, quella della prosa d’arte, appunto, che nella sua brevità ed eleganza stilistica sa focalizzare il particolare che ci mette in rapporto con la realtà.
Marco Furia sceglie così dodici dipinti e compone dodici testi dalla scrittura sobria, nitida e suggestiva, nutrita dal ritmo e dalla forza metaforica della poesia, dall’icasticità della riflessione filosofica, dal sottile affiorare della personale ricerca esistenziale.
Canaletto e il suo dipinto Il Tamigi verso il ponte di Westminster aprono la serie che prosegue con due opere di Cézanne, poi Corot, Derain, Tiepolo, Rousseau il Doganiere, tre realizzazioni di Turner, quindi Vermeer e Vlaminck. Quello di Furia con le opere è un vero e proprio dialogo, un indagare tramite l’occhio particolari e significati ed aperture di senso dei singoli dipinti che la parola s’incarica poi di esplicitare e di concatenare in testi ognuno di una pagina e mezzo, perfettamente conchiusi, una sorta di preludi di chopiniana memoria, risonanza e delicatezza. Ogni testo presenta la medesima struttura: un attacco molto simile da prosa a prosa (ad esempio Tra il 1900 e il 1902, Cézanne dipinse La montagna Sainte-Victoire – pag. 11, oppure Attorno al 1910, Rousseau il Doganiere dipinse Natura morta con stearica rosa – pag. 19, o ancora Negli anni 1660-1661, Vermeer dipinse Veduta di Delft – pag. 27 e via enumerando), segue una particolareggiata descrizione dell’opera in uno stile piano e chiaro, attento a cogliere, ma senza enfasi, elementi che potrebbero sfuggire all’osservazione frettolosa, indi hanno luogo riflessioni, ipotesi, riferimenti all’esperienza esistenziale di ognuno di noi, dal momento che per Marco Furia la contemplazione estetica non è fine a se stessa, ma implica sempre una nuova tappa nell’antica pratica della ricerca interiore e del perfezionamento di se stessi, inteso come itinerario ininterrotto che la mente compie a contatto continuo con il reale: l’opera d’arte e la parola che la cerca interrogandola è una porta d’accesso a tale ricerca, a tale itinerario. Questo rende, penso, il libro vivo e profondamente umano, capace di andare ben oltre il facile e narcisistico crogiolarsi nella contemplazione estetica. In tal senso un parallelismo si potrebbere riconoscere nella poesia più recente dell’autore genovese, tendente a catene di nessi nominali nei quali il verbo è assente e che si configura appunto come contemplazione del reale, come focalizzazioni di stati dell’essere e del pensiero; eccone un esempio tratto daPentagrammi (L’Arca Felice, 2009) (e un’interessante proposta dal medesimo libro si può trovare qui grazie a Stefano Guglielmin):
Turgidi globi minimi
caduche
non cromatiche stille
(qual colore
d’acquea ed aerea pioggia?)
dense nubi
enfi, plumbei coaguli
sì bui
atmosferici tratti
foschi, grevi
(solare ormai bisbiglio
fioco), tetro
iconico presagio
di boato
fratto segmento, lampo
sobrio, schiva
fulgida freccia, effimero
fugace
elettrico riverbero
baleno
oltraggio, squarcio, ingiuria
poi già tregua
lucenti veli, garbo
repentino
ricurva grazia, sprazzi
armonia chiara
policroma lucerna
iride, assolo
incanto, meraviglia
tenue gioia.
In questo tipo di poesia la contemplazione si configura, come ben nota Stefano Guglielmin, in contemplazione dell’effimero (effimero inteso in senso alto, ovviamente), la parola (il nome), spesso isolata anche in sede grafica, s’inserisce in una concatenazione nominale che solletica la reazione psicologica; nelle prose il discorso è ovviamente disteso e ritrova nel verbo uno dei suoi pilastri, ma anche in esse è la contemplazione il motore del pensiero-scrittura e mi sembra di rintracciare una dichiarazione d’intenti a pagina 10, dove Furia, a proposito di Casa in Provenza di Cézanne, scrive: Un’intensa sobrietà, ovunque diffusa, non esclude alcun singolo elemento che, individuato con chiarezza, trova nel dipinto la sua giusta collocazione.
Il mondo esiste come tale anche in virtù della maniera con cui ci si rapporta a esso, in cui lo si vive.
Cézanne, dopo aver visto ciò che tutti avremmo potuto vedere, anziché arrestare lo sguardo, lo ha spinto più nel profondo, nelle vivide trame di un rispettoso, non sempre agevole, coesistere.
Il suo occhio si è fatto attento strumento di una coscienza che ha superato certi limiti, ha accresciuto le sue dimensioni e, arricchita, ha saputo coincidere con un intensissimo gesto pittorico, divenendo, così, immagine.
Immagine di una semplice casa di campagna, di un terreno coltivato, di un bosco, di un albero isolato e di una parete di roccia, immagine che difficilmente potremo dimenticare.
Penso sia innegabile che il metodo individuato nel modus operandi del pittore francese sia molto, molto simile al metodo applicato da Marco Furia stesso nell’escussione dei dipinti, con un’implicazione etica fondamentale: sobrietà, attenzione, cura, presenza nel mondo nutrendo un rispetto totale per il mondo, giustezza dell’agire nel senso che René Char attribuisce a Georges De La Tour, cioè non cedere alla tentazione di “remplacer les ténèbres par le jour et leur éclair nourri par un terme inconstant”, ma la sollecitazione è “d’entrer dans le cercle de la bougie, de s’y tenir”, cioè accedere alla luce della candela e rimanervi fedele, il che significa avere coscienza della tenebra circostante, non esorcizzarla con accorgimenti illusori, ma saperla presente ed affrontarla con la fiammella traballante eppure capace di rischiarare di una candela. E la candela (labougie di La Tour e Char) illumina e guida l’occhio. Leggiamo a pagina 12:L’espressione, per sua stessa indole, non è solipsistica, è rivolta ad altri.
(…)
La coscienza di un uomo può raggiungere dimensioni davvero immense e il gesto cosciente non soltanto rappresenta, soprattutto è.
Lungi dal seguire la direzione che conduce al soggettivismo, Cézanne si è incamminato lungo la feconda via che porta all’apertura: un’apertura che, nel suo caso, consiste in una non scomposta passione, in un vigile affetto nei confronti del mondo.
Cézanne e la Montagne Sainte Victoire dipinta innumerevoli volte possono costituire il termine di riferimento per una diuturna ricerca artistico-esistenziale, la concretizzazione in forma di opera d’arte dell’attività del guardare come consapevolezza di stare al mondo e prendersene cura.
Dipingere un quotidiano, elegante, episodio di serenità campestre, renderlo, così, osservabile e, vorrei dire, respirabile: questo è il felice esito del lavoro di un grande artista che non si accontenta di un’opera ben eseguita dal punto di vista tecnico, ma vuole che i suoi tocchi aggiungano qualcosa all’esistenza degli osservatori, che le sue tinte lascino in loro non superficiali tracce, che, tramite lo sguardo, l’immagine penetri nell’altrui interiorità, suscitando sensazioni, emozioni, pensieri.
(…)
L’arte, quella vera, non si dimentica mai degli altri (pag. 18) è infatti l’epilogo del saggio dedicato in particolare ad un affresco (La passeggiata nella “Stanza delle scene campestri”) di Giandomenico Tiepolo a Villa Valmarana. La parola dell’occhio si configura così come non solipsistica riflessione sulla propria esperienza psicologica e conoscitiva, sul proprio “stare al mondo” e “in mezzo agli altri”: Marco Furia, tramite l’oggettivazione che gli deriva dalla contemplazione delle opere d’arte, fa silenzio dentro e intorno a sé per riflettere sull’esperienza esistenziale nella quale (e questo trovo particolarmente interessante) il momento estetico non è fine a se stesso, ma è un preciso atto di conoscenza e di etica. Ed infatti scrive l’autore alcune pagine più in là:
Il mondo esiste anche perché qualcuno lo sa guardare, come, per esempio, quell’artista inglese che, affacciato, poco dopo l’alba, sul Mediterraneo, è riuscito ad essere l’occhio dell’umanità intera e ha compiuto, con partecipe sapienza, l’inconfondibile, consapevole gesto tipico della grande pittura, ossia il gesto del tocco di luce che è sguardo e parola, pupilla e pensiero nello stesso tempo, immagine esistente,intimamente viva.
Grazie, Turner (pag. 26).
La triplice occorrenza di Turner ha un significato preciso, ne segnala l’affinità artistica ed esistenziale che Furia evidentemente avverte con il pittore inglese; il poeta genovese usa la bellissima espressione ritmico coinvolgimento, ed anche presenza vivida eeccezionale sensibilità (pag. 24) a proposito del Turner di Bonneville, Savoia – tutti elementi che a ragione si possono riconoscere anche a Marco Furia autore di questo libro.
La vita propria dell’opera d’arte non è mai fine a se stessa, poiché si offre al rapporto con l’altro, allo scambio.
La mancanza di parola non deve ingannare, poiché ci sono forme di (profonda) comunicazione tali da non seguire le vie del comune linguaggio, eppure capaci di raggiungere quel nucleo persistente e privo di prefissati confini che è emozione, passione, interesse e, alla fine, spiccata attitudine alla conoscenza.
Se la conoscenza è il destino dell’uomo, l’arte sarà sempre sua preziosa alleata: così a pagina 22, a proposito di Passo del San Gottardo dal centro del Ponte del Diavolosempre di William Turner. E quel sintagma (Se la conoscenza è il destino dell’uomo) non può non risvegliare in noi il ricordo dell’Ulisse dantesco, non riproporre in anni d’impoverimento culturale e psicologico che affligge larghi strati della popolazione un senso alto dell’esistere. Ed è quanto Furia afferma commentando la celeberrima Veduta di Delft: La fiducia in se stessi e negli altri non può mancare in luoghi in cui i gesti, non affrettati, sono sicuri, decisi e in cui l’elegante pacatezza di una città non suggerisce inerzia, bensì operosa attesa.
Il messaggio possiede straordinarie qualità estetiche ed elevata caratura etica, poiché l’immagine cattura il nostro sguardo, ci affascina e, anche, ci insegna a vivere: chi, dopo aver apprezzato la bellezza del dipinto, non vorrebbe abitare nella Delft di Vermeer? (pag. 28)
La città olandese gli si offre infatti come spazio della contemplazione e dell’armonia, realizzazione visibile dell’abitare umano dentro il mondo. È forse questo che si viene a cercare in un libro, magari anche in uno spazio come Perìgeion: un luogo d’incontro nel quale interrogare la bellezza è un atto di opposizione e di resistenza, una riaffermazione di umanità e di cultura. Le pagine di Marco Furia dedicate alla Veduta abitano lo spazio di Delft così come la dipinge Vermeer: se la scrittura ha un senso (rifletto) esso potrebbe risiedere nella contemplazione di uno spazio apparecchiato dalla mente e, fermandosi per alcuni minuti nella gratuità di quella contemplazione, sottrarsi alla mercificata e monetizzata frenesia del fare (id est: produrre, oppure comperare). Potrebbe essere proprio la gratuità, allora, un atto eretico e di resistenza. Scrivere, essere letti, leggere a propria volta: Delft si dispiega innanzi all’occhio grazie alla mano del pittore che ce la consegna, spazio contemplato. In quale degli edifici lo studio del pittore? Sotto il mare di tetti dove la stanza dalle eccelse geometrie? Stentava a sopravvivere con l’arte sua e la maggior parte di noi, a sua volta, si guadagna il pane con mestieri che, in subordine, ci permettono di dedicarci alla scrittura. Tanto più necessaria la (forse illusoria) libertà di contemplare Delft che, tra le mani del pittore, si trasfigura in spazio della mente e, per noi, in luogo della contemplazione. La scrittura è allora un atto possibile in cui addensare bellezza, la medesima che viene negata alla gran parte delle persone. Sia allora cercare e riaffermare bellezza un atto politico: l’accesso alla bellezza significa accesso a stadi non degradati e non asserviti della mente, mentre la sottrazione della bellezza coincide con la penuria di vita intellettuale in cui vien fatta versare gran parte delle persone.
In conclusione segnalo la sapiente, partecipata introduzione di Mario Fresa.

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