Pubblichiamo questa lettera di Giovanni
Infelíse dedicata a Marco Furia e a La parola dell'occhio.
Caro
Marco,
ho letto La
parola dell'occhio col piacere di chi ha sperimentato per conto proprio la
vicinanza quasi intima tra pittura e poesia, tra il linguaggio delle immagini e
quello delle passioni. Una vicinanza destinata a rimanere viva negli "scritti"
di chi non ha resistito al richiamo di un "canto" che è anche un "colore".
I tuoi
scritti sono volti a riscoprire il valore della parola "dipinta" attraverso
l'interrogazione, il cui obiettivo è cogliere l'essenziale e tutto ciò a cui esso
rimanda, unendo in un delicato sincronismo sguardo-pensiero-parola.
Una sorta di
esplicitazione dell'atto artistico (pittorico) attraverso l'immediatezza del
vedere (del visibile), il cui campo trascende il limite puramente fisico di ciò
che è osservato attirando l'attenzione del lettore con una minuziosa e fedele
introspezione/osservazione che incanta e fa rivivere l'opera medesima quasi
fosse poesia.
Si tratta di
una ricostruzione a posteriori che parte sì da un significato generalmente
accertato, storicamente noto, ma che si arricchisce di continuo con l'aggiunta
di un significato ulteriore e del tutto paradigmatico che riguarda non tanto la
valenza di un giudizio artistico in sé sufficientemente condiviso, quanto il
risultato di una riflessione itinerante affidata interamente all'"occhio
poetico".
Un'esperienza in cui sintesi e conoscenza costituiscono il
cardine di una coesistenza nell'arte di poesia e pittura. Cosa non nuova, certo,
ma di cui sei ben consapevole. Ne consegue, pur nella sua essenzialità, un
esercizio critico di tutto riguardo.
Ciò che in
particolare colpisce, in questi tuoi "quadri poetico-pittorici" è, insomma, la
loro capacità di condurre lo sguardo alla ricerca attenta di particolari, il cui
insieme rende quasi trasparente la natura più intima dell'opera di volta in
volta considerata.
Ne viene
fuori, quasi, un allestimento di "scenografie concettuali", il cui filo
conduttore è il frangersi della luce,
il suo ritrarsi in prossimità di oscurità incombenti, il suo confondersi, il suo
modularsi, il suo oltrepassare i confini stessi di forme e cose proprie di una realtà silenziosa e
immanente, di una sostanza cioè nascosta che non è dato cogliere al di là della
sua più profonda qualità o "anima": tutto è visibile dall'esterno, ma non ciò
che presiede all'esistenza dell'opera medesima (dell'oggetto rappresentato) che
a questo proposito acquista un valenza primaria rispetto all'oggetto in quanto
tale.
Da un punto
di vista teleologico, credo che il tuo tentativo, peraltro riuscito, sia stato
quello di ritagliarti un posto d'osservazione privilegiato in quel teatro
nascosto che è l'essenza stessa delle opere da te scelte. Parlando con lo "sguardo" più che con la "parola", di cui ti servi, a conti fatti, più per
rendicontare ciò che è percepibile che per rivelare volutamente e pienamente ciò
che, tu sai, non può avere residenza in un luogo diverso da quello in cui
naturalmente dimora, fosse anche la parola di un poeta il quale resta per ciò
stesso fedele al suo mandato di osservatore discreto, privilegiato sì, ma pur
sempre ospite.
Grazie per
questa lettura "improvvisa".
Un
affettuoso saluto
Giovanni
Infelíse
Nessun commento:
Posta un commento