Nazario Pardini
su Percezioni dell'invisibile
Elegante plaquette quella che mi è giunta
stamattina, otto marzo, per bontà di Pasquale Balestriere. Semplice, ma curata
per veste grafica, impaginatura, carta e composizione. Senza contare l’apporto
estetico non indifferente delle belle immagini fotografiche di Gabriella Maleti.
Impreziosiscono veramente il tutto. Sì!, perché è determinante la cura di un
testo per una buona poesia: invoglia a palpare, a sfogliare, a annusare, ad
ascoltare lo sfrigolìo delle pagine. A
sbirciare in qua e in là, per poi darsi, anima e corpo, ad una lettura attenta,
scrupolosa; volta a scoprire i messaggi, le allusioni, la corposità del verbo,
l’anima degli azzardi di questa antologia. Un’antologia contenuta, non tanto
per numero di pagine (72), quanto per il numero dei poeti a cui il curatore ha
vòlto la sua attenzione: Lucianna Argentino, Pasquale Balestriere, Floriana
Coppola, Giovanna Iorio, Ketti Martino, Cinzia Marulli Ramadori, Marco
Righetti. Poeti di tutto riguardo,
conosciuti in ambito nazionale e decisamente autonomi per caratteristiche
etimo-intellettive e per storia personale. Come, d’altronde, si può ben evincere
e dalla introduzione critica che precede la scelta testuale di ognuno, e dai
cenni biografici che ne seguono; alla fine altre due biografie: di Gabriella
Maleti e di Giuseppe Vetromile. E’ d’obbligo un complimento al curatore per l’operazione
oculata e per il saggio intervento. Anche
perché, da un panorama così promiscuo da un punto di vista stilistico e
metrico-semantico, spicca ancora di più la personalità culturale e
sperimentale, se si vuole, di ciascuno dei Nostri. Certamente poeti di notevole
caratura e che, soprattutto, ci offrono una giusta connotazione di quelle che
possono essere le diverse tendenze nel panorama letterario attuale. Una raggiera
di intenti emotivo-allusivi e etimo-verbali veramente articolata. Non è
azzardato parlare di minimalismo, di sperimentalismo, di forzatura sintattica
per abbrivi allusivi; ma, di classicismo, anche, fresco, robusto, rigenerato, ricco di sana
humanitas, innervata di rivoli culturali che non appesantiscono; ma, anzi, che si
attestano come sfumature di grande apertura immaginifica. E, con questo tipo di
classicismo, mi riferisco, soprattutto, a Pasquale Balestriere, che, con la sua
poesia, racconta una lunga storia di studi, di vita, e di amore per questa
antica arte che lo rende unico. La sua poesia è tutta lì: nel verbo, nella
parola conquistata col dolore, nelle sue dolci e tenui metafore, nel suo non
eccedere; ma soprattutto nel sapere intrecciare il tutto in una metrica mai
casuale, mai artificiosa, ma equilibrata e robusta che ne fa uno degli
interpreti più convincenti di questo repêchage umanistico. Sì!, umanistico. Di
un umanismo rivisitato, attualizzato, storicizzato, ma che contiene la solita
vèrve sostanziale. Di lui ebbi, già, a scrivere: “Le pergole di sole, i liuti
di vento, il mirabile colono, i languori d’autunno, i sacerdoti incantati, le
sudate zolle, i grappoli opulenti, i venti, i tramonti, le vigne dai pampini
dimessi: tutti tocchi e ingredienti mai a se stanti, ma frammenti
dell’essere e dell’esistere, corpi della gradualità del sentire,
concretizzazioni di vita interiore. Il dire elegiaco di Balestriere equivale ad
un racconto didascalico-allegorico, dove sotto ogni colore, ogni forma, ogni sfavillio
panico, è nascosto un brandello d’animo che ambisce a concretizzarsi in natura.
In ciò il suo panismo esistenziale. E l’autore, per dare più corpo al suo “poema”,
spesso chiama in aiuto i grandi della letteratura: da Omero ad Alceo, dal divo
Anacreonte ad Ovidio, da Orazio al
Magnifico, ed al Chiabrera…”. Efficace misura la sua.
Ho avuto occasione di occuparmi, anche, della poetessa Lucianna Argentino.
Ho letto il suo bel libro (L’ospite
indocile) edito da Passigli, 2012. Un testo ricco di intenzioni novative
sia a livello semantico che speculativo. A lei si addice a pieno il titolo di
questa plaquette. Dato che l’autrice parte da una letteratura minimalista; dalle
piccole cose di ogni giorno, dalla quotidianità, per staccarsene, però, ed
avventurarsi al di là del concreto. Verso le percezioni dell’invisibile. Se per
concreto s’intende ciò che vediamo, viviamo e che abbiamo davanti, lei è tutta
volta a riscrivere la realtà per offrire un rifugio al tempo. Ecco uno stralcio
della mia recensione: “… E come è impossibile tracciare linee geometriche oltre
cui azzardare la nostra spinta emotivo-razionale, è egualmente impossibile
fissare termini linguistici per espansioni che vadano al di là di tali
orizzonti. Per questo la Nostra è impegnata in uno sforzo etimo-fonico di rara
fattura. Risultato nuovo ed interessante in questa sua andatura singhiozzante,
celiniana direi, per decriptare intensità vicissitudinali. Costrutti e tecniche
architettonicamente esperiti che, pur spontanei, appaiono rivisitati, anche, da
tocchi necessari a raggiungere pointes di alto equilibrio fra dire e sentire…”.
Ma,
devo aggiungere, anche, che gli eccessi sperimentali, come la storia ci
insegna, passano facilmente nel dimenticatoio. Con ciò non è detto che non
abbiano avuto la loro importanza. Fanno parte di una esperienza letteraria,
che, anche solo per contrapposizione, creano stimoli per una nuova scrittura.
D’altronde è proprio nel gioco delle contraddizioni che si forma la diacronica
dialettica delle correnti. E in queste sue prose poetiche, purché liricamente interessanti,
purché estremamente vicine ai suoi sforzi verbali, purché tese a scandagliare
emozioni col dovuto distacco, vedo un’altra Argentino assai diversa da quella dell’Ospite indocile. Non mescoliamo le carte
in tavola. E facciamo di tutto perché la poesia resti poesia e la prosa resti prosa.
Sugli altri autori – conoscendo poco le loro opere- posso dire solo che è apprezzabile, veramente
apprezzabile l’intento di fare una poesia tutta volta ad una spiccata analisi
psicologica di un’umanità irrequieta; di un’umanità tesa a svincolarsi da un
reticolato che a volte soffoca; per proiettarsi in fughe verso un irreale che
tende a farsi nuova realtà. La parola è sempre tatuaggio di stati d’animo
maturati su vicissitudini di sofferenza; sulla coscienza della precarietà
dell’essere e dell’esistere. E affidarci alle note critiche che li introducono
è l’unica cosa che possiamo fare. “In Floriana Coppola la poesia sembra
aleggiare evanescente su un tessuto carneo sottostante, e sono versi dotati di
grande abbrivio verso dimensioni altre, che esulano dalla materialità formale
del nostro vivere quotidiano…” “Giovanna Iorio, più che percepire l’invisibile,
certifica con la sua poesia il mondo che “pende” dalle nostre labbra, che non
viene detto a nessuno, forse neanche a se stessi, per timore di schiudere
visioni sconcertanti…”. Ketti Martino fa “Un dialogo con se stessa, con le
proprie “ombre” di cui riconosce il verso, ma soprattutto una disposizione
all’ascolto della natura e del mondo, di quella parte che si percepisce nelle
segrete stanze del cuore, dove le luci e i suoni, a volte il silenzio,
costituiscono le onde principali sulle quali affiora l’emozione…”. “La terra
promessa ha sempre alimentato i cuori dei popoli. Cinzia Marulli Ramadori può
essere una di queste figure viandanti, che illuminano la propria strada con la
ricerca della felicità, pur riconoscendo le ombre e le tristezze del momento…”.
“… Marco Righetti sintonizza il suo acume poetico, come spesso accade nelle sue
composizioni, specialmente nelle più recenti, su fatti di cronaca che
sommuovono lo spirito e spingono dall’interno con forza vulcanica ad esternare
universalizzando quello che c’è da dire…”. D’altronde già il titolo ci dà
un’idea di cosa accomuni questi poeti. Quella cosa che poi è il nocciolo della
poesia stessa. Fughe e ritorni; vita e sogno; amore e timore; realtà e
affrancamento. Ma soprattutto frazionamento della realtà, assorbimento del
quotidiano da cui staccarsi, svincolarsi, anche con l’immaginario, per rendere
percettibile l’invisibile. Andare oltre, chiedendo alla parola, al suo traslato
potere, di combaciare quegli impulsi vitali che ci animano. E questi poeti sono
un chiaro esempio di cosa può la poesia. Non esistendo verità, e da sempre
l’uomo affannandosi per conquistarla, il canto è l’arma più semplice e più
complicata per agguantarne la coda; per avvicinarsi il più possibile al suo nutrimento;
al cuore pulsante dell’anima universale. Perché dovunque è armonia. C.
Baudelaire afferma che il poeta è in possesso di quel sesto senso, con cui può
percepire ciò che è nascosto al comune mortale. A questo le cose appaiono
divise, incomunicabili. Al poeta appaiono
unite da un’armonia indefinita. Quella musicalità che può vibrare solo nel suo
animo e che può traghettarlo al cuore delle Percezioni dell'Invisibile.
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