Mario
Fresa
Questionario
di poesia
(62)
Paolo Rabissi
Albert Ohelen, Ziggy
Stargast (2001)
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua
scrittura?
Non è più
segreto da qualche anno in qua, da quando ho definitivamente portato a
coscienza che il mio scrivere versi
(pre)tende a qualcosa che assomiglia alla poesia epica. In realtà era
già matura negli anni settanta. Un mio poemetto dattiloscritto girava nel
movimento a Milano e aveva una sua identità epico-lirica che un po’
ingenuamente ritenevo potesse vivere solo in quella dimensione di movimento
antagonista, quando questo si è disperso in mille rivoli su percorsi che non condividevo
ho smesso di scrivere per riprendere solo vent’anni dopo. Oggi (nei ‘miei’ anni
settanta) recupero il progetto perché è
la modalità di scrivere che sento mia e perché le origini e i contenuti stessi
di quei movimenti degli anni sessanta e settanta offrono un materiale
inesauribile alla memoria. Necessariamente ciò mi impone anche lo sforzo critico di chiarire cosa intendo per
poesia epica, in che modo può essere attuale (qualche recente tentativo non è
stato in grado di attivarla davvero), in cosa può paragonarsi all’epica
tradizionale e in cosa se ne deve per forza differenziare. Da un paio d’anni ho
aperto un blog con Franco Romanò, in esso affrontiamo appunto questi problemi:
www.diepicanuova.blogspot.it
Come nasce, in te, una poesia?
Ascolto e
registro emozioni e riflessioni. Poi arriva il momento della parola scritta.
Non amo
giocare con le parole, tendo a semplificare il più possibile il mio linguaggio
tuttavia il suo comporsi slitta su modi suoi di cui non governo la fonte ma che
mi attrae con assoluta necessità: in quel momento – che magari succede solo in
un verso – avverto che l’emozione iniziale si è perfettamente fusa con la
riflessione che l’accompagna. Un verso può portare solo carico emotivo e un
altro solo il mandato del presente o della memoria ma insieme prima o poi
devono fare corona a un verso in cui carico emotivo e mandato narrativo
precipitano in una dimensione unitaria originale che in qualche modo li
trascende.
Un poeta parla di ciò che realmente
vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Credo che
il poeta non faccia che parlare di ciò che realmente vive, lo fa anche se
scrive di Orfeo e Euridice, dal suo linguaggio si può sempre risalire a lui
stesso e al suo presente ma è vero anche che dice come diversamente le cose
potevano andare . Quello è il momento dei propri sogni e delle proprie visioni
, delle realtà fantasmatiche, delle utopie domestiche e/o universali che lui
racconta anzitutto a se stesso ma che restano sempre in attesa di un
riconoscimento universale e infinito.
A
quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho scritto recentemente
un capitolo della mia infanzia in un lavoro lungo e complesso che non so quando
finirà, nel capitolo descrivo il tipo di ‘gioco’ che maggiormente interessava la
piccola banda di cui ero parte, io triestino sfollato nel dopoguerra da Trieste
in un paesino vicino a Bari:
"Quando
le ore di libertà scattavano per tutti insieme allora la lotta era l’obiettivo
più frequente. Il corpo a corpo era il metodo più sicuro per capire di che
pasta eravamo fatti, era un modo apparentemente neutro per misurarci ma
stabiliva gerarchie e leadership. Alto e magro com’ero, oltre ad essere
straniero, attiravo attenzione più di quanto i locali fossero disposti ad
accettare, per cui in un modo o nell’altro dovetti imparare alla svelta a
menare le mani. Ero abbastanza forte e mi succedeva di vincere qualche
combattimento con il leader riconosciuto del momento, solo che del ruolo di
capobanda non sapevo proprio cosa fare e me ne sottraevo ottenendo consensi. Il
teatro più importante per i nostri corpo a corpo era La Rotonda. Uno
stabilimento balneare che d’inverno era chiuso ma che noi espugnavamo
facilmente. Sull’ampia terrazza conquistata era il momento. Battevano le
tempie, qualche labbro sanguinava, un ginocchio. L’afrore del sudore,
l’insistenza del ventre a schiacciare quello avversario. Gli assalti tra noi si
ripetevano all’infinito finché cadevamo sfiniti, allora intonavamo qualche
nenia di vittoria perché eravamo tutti vittoriosi.
Eros
governava felicemente le ore, la sospensione del tempo, il godimento
dell’energia dei muscoli di braccia e gambe, la destrezza dello sguardo per
anticipare la mossa, l’uso addestrato del gomito per spingere, del grugnito per
spaventare. Nessuno colpiva mai i genitali. Qualcuno ogni tanto orinava nel
mare sottostante e poi si ributtava nella mischia. Se i miei compagni di lotta
avevano, come è verosimile, erezioni durante gli scontri alla Rotonda non lo
so, io non ricordo di averne avuti né di averli notati negli altri ma non ero
addestrato fin lì ad averne consapevolezza. Che quei corpo a corpo fossero un
esorcismo inconsapevole contro l’omosessualità o un esercizio per misurarla non
so, ricordo che stavo bene in quelle occasioni, godevamo tutti di una dura
tenerezza non sentimentale calda di sudore. Ma subliminalmente c’era
dell’altro. E’ indubbio che alla fine della giornata una gerarchia tra i più e
i meno forti si era resa automaticamente visibile e più stabile".
Insomma un
paragone improponibile. Impossibile trovare una Rotonda dove misurarsi a colpi
di versi all’infinito fino a cadere sfiniti tutti vittoriosi (!). Più verososimile semmai pensare a quella che
Leopardi chiamava ‘società stretta’ e che lui auspicava a Bologna quando faceva il direttore di una
delle collane dell’editore Stella di Milano. Partecipò alle riunioni di una
sorta di concilio di poeti, vi lesse un poemetto (quello dedicato a Pepoli) che
fu accolto gelidamente e così lui poi se ne scappò via. Ma in qualche modo ci
credeva a un consesso di uomini e donne, letterati e scienziati che
stringessero un sodalizio per godere di arti e scienze.
Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della
scrittura poetica?
Che apre una
strada diversa al riconoscimento di sé e che la poesia è anche, soprattutto per
me, memoria e Storia. Il mio amore per la poesia e quello per la Storia (ho
avuto formazione universitaria di storico anche se sono rimato solo un
insegnante di storia) negli ultimi lustri hanno trovato modo finalmente di
intrecciarsi. Fino ad allora i miei versi calcavano e/o inseguivano i canoni
novecenteschi. Da quando ho deciso di pubblicare (all’età di sessanta anni) ho
fatto velocemente i conti con me stesso. Già le mie prime pubblicazioni avevano
una dimensione epico-lirica legata alla memoria del quotidiano e quindi più
individuale (così in Città alta, La ruggine, il sale e I contorni delle cose). Poi con La solitudine di Schenk (che fa parte
del poemetto Inverno a Colonia ancora
da pubblicare) ho definitivamente scoperto che storia e poesia potevano stare
insieme. Da allora mi sento finalmente a casa.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un
poeta?
Credo che sia il
critico ad avere questo compito, quello di rilevare dove e quanto il poeta
finge e si maschera, se questa operazione è consapevole o meno, se essa è
necessaria, se ha come esito la riuscita poetica. Dante e Petrarca fingono,
assumono maschere e sia per l’uno che per l’altro era operazione consapevole.
Ma le loro finzioni e maschere hanno solo contribuito al capolavoro non sono il
capolavoro, il quale invece si sostanzia di linguaggio, stile e contenuti.
Credo che ogni poeta debba tenere d’occhio costantemente il proprio grado di
finzione, credo che lo debba fare perché
non occorre essere un lettore particolarmente smagato per rendersi conto se lui
sta imbrogliando le carte e quanto doveva essere solo un mezzo è divenuto un
fine. Ho conosciuto sedicenti poeti del genere che le carte le imbrogliano,
perlopiù sono condannati alla mediocrità anche se sanno sedurre e conquistare,
soprattutto perché sanno dire bene il non senso. Non sempre il lettore è
abbastanza smagato per prenderne le distanze, qui appunto il lavoro del critico
libero – difficile – dovrebbe avere ascolto. Anche se penso che ormai si è
affermata la necessità che ogni scrittore di versi sia anche portatore di un
proprio discorso critico.
Vorresti citare un poeta da ricordare e da
rivalutare?
Ugo Foscolo
(e magari anche
Carducci)
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
Che
riesca con i suoi versi a farsi testimone efficace del suo tempo. Nell’era
della diffusione globale dei mezzi di comunicazione e della loro decadenza,
nell’era della guerra civile mondiale, la poesia può divenire fonte non
compromessa di storia, di umanità e di postumanità, di scienza, di informazione
stessa.
Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?
Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego
stenodattilo
all'ombra del Duomo.
E.Pagliarani, La ragazza Carla