Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

lunedì 3 aprile 2017

Questionario di poesia n. 62: Paolo Rabissi




  

Mario Fresa

Questionario di poesia

(62)

Paolo Rabissi

 
Albert Ohelen, Ziggy Stargast (2001)





Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

Non è più segreto da qualche anno in qua, da quando ho definitivamente portato a coscienza che il mio scrivere versi  (pre)tende a qualcosa che assomiglia alla poesia epica. In realtà era già matura negli anni settanta. Un mio poemetto dattiloscritto girava nel movimento a Milano e aveva una sua identità epico-lirica che un po’ ingenuamente ritenevo potesse vivere solo in quella dimensione di movimento antagonista, quando questo si è disperso in mille rivoli su percorsi che non condividevo ho smesso di scrivere per riprendere solo vent’anni dopo. Oggi (nei ‘miei’ anni settanta)  recupero il progetto perché è la modalità di scrivere che sento mia e perché le origini e i contenuti stessi di quei movimenti degli anni sessanta e settanta offrono un materiale inesauribile alla memoria. Necessariamente ciò mi impone anche lo  sforzo critico di chiarire cosa intendo per poesia epica, in che modo può essere attuale (qualche recente tentativo non è stato in grado di attivarla davvero), in cosa può paragonarsi all’epica tradizionale e in cosa se ne deve per forza differenziare. Da un paio d’anni ho aperto un blog con Franco Romanò, in esso affrontiamo appunto questi problemi: www.diepicanuova.blogspot.it


Come nasce, in te, una poesia?

Ascolto e registro emozioni e riflessioni. Poi arriva il momento della parola scritta.
Non amo giocare con le parole, tendo a semplificare il più possibile il mio linguaggio tuttavia il suo comporsi slitta su modi suoi di cui non governo la fonte ma che mi attrae con assoluta necessità: in quel momento – che magari succede solo in un verso – avverto che l’emozione iniziale si è perfettamente fusa con la riflessione che l’accompagna. Un verso può portare solo carico emotivo e un altro solo il mandato del presente o della memoria ma insieme prima o poi devono fare corona a un verso in cui carico emotivo e mandato narrativo precipitano in una dimensione unitaria originale che in qualche modo li trascende.


Un poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Credo che il poeta non faccia che parlare di ciò che realmente vive, lo fa anche se scrive di Orfeo e Euridice, dal suo linguaggio si può sempre risalire a lui stesso e al suo presente ma è vero anche che dice come diversamente le cose potevano andare . Quello è il momento dei propri sogni e delle proprie visioni , delle realtà fantasmatiche, delle utopie domestiche e/o universali che lui racconta anzitutto a se stesso ma che restano sempre in attesa di un riconoscimento universale e infinito.



A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho scritto recentemente un capitolo della mia infanzia in un lavoro lungo e complesso che non so quando finirà, nel capitolo descrivo il tipo di ‘gioco’ che maggiormente interessava la piccola banda di cui ero parte, io triestino sfollato nel dopoguerra da Trieste in un paesino vicino a Bari:
"Quando le ore di libertà scattavano per tutti insieme allora la lotta era l’obiettivo più frequente. Il corpo a corpo era il metodo più sicuro per capire di che pasta eravamo fatti, era un modo apparentemente neutro per misurarci ma stabiliva gerarchie e leadership. Alto e magro com’ero, oltre ad essere straniero, attiravo attenzione più di quanto i locali fossero disposti ad accettare, per cui in un modo o nell’altro dovetti imparare alla svelta a menare le mani. Ero abbastanza forte e mi succedeva di vincere qualche combattimento con il leader riconosciuto del momento, solo che del ruolo di capobanda non sapevo proprio cosa fare e me ne sottraevo ottenendo consensi. Il teatro più importante per i nostri corpo a corpo era La Rotonda. Uno stabilimento balneare che d’inverno era chiuso ma che noi espugnavamo facilmente. Sull’ampia terrazza conquistata era il momento. Battevano le tempie, qualche labbro sanguinava, un ginocchio. L’afrore del sudore, l’insistenza del ventre a schiacciare quello avversario. Gli assalti tra noi si ripetevano all’infinito finché cadevamo sfiniti, allora intonavamo qualche nenia di vittoria perché eravamo tutti vittoriosi.
Eros governava felicemente le ore, la sospensione del tempo, il godimento dell’energia dei muscoli di braccia e gambe, la destrezza dello sguardo per anticipare la mossa, l’uso addestrato del gomito per spingere, del grugnito per spaventare. Nessuno colpiva mai i genitali. Qualcuno ogni tanto orinava nel mare sottostante e poi si ributtava nella mischia. Se i miei compagni di lotta avevano, come è verosimile, erezioni durante gli scontri alla Rotonda non lo so, io non ricordo di averne avuti né di averli notati negli altri ma non ero addestrato fin lì ad averne consapevolezza. Che quei corpo a corpo fossero un esorcismo inconsapevole contro l’omosessualità o un esercizio per misurarla non so, ricordo che stavo bene in quelle occasioni, godevamo tutti di una dura tenerezza non sentimentale calda di sudore. Ma subliminalmente c’era dell’altro. E’ indubbio che alla fine della giornata una gerarchia tra i più e i meno forti si era resa automaticamente visibile e più stabile".
Insomma un paragone improponibile. Impossibile trovare una Rotonda dove misurarsi a colpi di versi all’infinito fino a cadere sfiniti tutti vittoriosi (!).  Più verososimile semmai pensare a quella che Leopardi chiamava ‘società stretta’ e che lui auspicava  a Bologna quando faceva il direttore di una delle collane dell’editore Stella di Milano. Partecipò alle riunioni di una sorta di concilio di poeti, vi lesse un poemetto (quello dedicato a Pepoli) che fu accolto gelidamente e così lui poi se ne scappò via. Ma in qualche modo ci credeva a un consesso di uomini e donne, letterati e scienziati che stringessero un sodalizio per godere di arti e scienze.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Che apre una strada diversa al riconoscimento di sé e che la poesia è anche, soprattutto per me, memoria e Storia. Il mio amore per la poesia e quello per la Storia (ho avuto formazione universitaria di storico anche se sono rimato solo un insegnante di storia) negli ultimi lustri hanno trovato modo finalmente di intrecciarsi. Fino ad allora i miei versi calcavano e/o inseguivano i canoni novecenteschi. Da quando ho deciso di pubblicare (all’età di sessanta anni) ho fatto velocemente i conti con me stesso. Già le mie prime pubblicazioni avevano una dimensione epico-lirica legata alla memoria del quotidiano e quindi più individuale (così in Città alta, La ruggine, il sale e I contorni delle cose). Poi con La solitudine di Schenk (che fa parte del poemetto Inverno a Colonia ancora da pubblicare) ho definitivamente scoperto che storia e poesia potevano stare insieme. Da allora mi sento finalmente a casa.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Credo che sia il critico ad avere questo compito, quello di rilevare dove e quanto il poeta finge e si maschera, se questa operazione è consapevole o meno, se essa è necessaria, se ha come esito la riuscita poetica. Dante e Petrarca fingono, assumono maschere e sia per l’uno che per l’altro era operazione consapevole. Ma le loro finzioni e maschere hanno solo contribuito al capolavoro non sono il capolavoro, il quale invece si sostanzia di linguaggio, stile e contenuti. Credo che ogni poeta debba tenere d’occhio costantemente il proprio grado di finzione, credo che lo debba  fare perché non occorre essere un lettore particolarmente smagato per rendersi conto se lui sta imbrogliando le carte e quanto doveva essere solo un mezzo è divenuto un fine. Ho conosciuto sedicenti poeti del genere che le carte le imbrogliano, perlopiù sono condannati alla mediocrità anche se sanno sedurre e conquistare, soprattutto perché sanno dire bene il non senso. Non sempre il lettore è abbastanza smagato per prenderne le distanze, qui appunto il lavoro del critico libero – difficile – dovrebbe avere ascolto. Anche se penso che ormai si è affermata la necessità che ogni scrittore di versi sia anche portatore di un proprio discorso critico.

Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Ugo Foscolo  
(e magari anche Carducci)


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Che riesca con i suoi versi a farsi testimone efficace del suo tempo. Nell’era della diffusione globale dei mezzi di comunicazione e della loro decadenza, nell’era della guerra civile mondiale, la poesia può divenire fonte non compromessa di storia, di umanità e di postumanità, di scienza, di informazione stessa.


Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?


Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all'ombra del Duomo.

E.Pagliarani, La ragazza Carla








© RIPRODUZIONE RISERVATA