Gabriele Gabbia
su
La parola dell'occhio di Marco Furia
(Edizioni L'Arca Felice)
«Il ricordo è soltanto uno dei lineamenti del nostro
esistere, sicché continuiamo a essere anche ciò che, in senso stretto, non rammentiamo.
Ciò che ci ha modificato persiste in noi in forma d’impronta che si aggiunge
a infinite altre e di cui, talvolta, nemmeno ci accorgiamo: l’avere avuto un intenso
contatto con un’opera d’arte, per esempio, lascia un segno di cui potremmo anche essere, nell’immediatezza di un
gesto, di una parola, non consapevoli.
Nondimeno quel segno ci ha accompagnato,
ci accompagna e ci accompagnerà non determinando le nostre azioni, ma illuminandole, rendendole ancora più vive e opportune».
Non dunque di sola estetica tratta l’ultima raffinata
plaquette in prosa di Marco Furia, La parola dell’occhio , edita dalle Edizioni L’Arca Felice nel dicembre 2012,
con – in allegato – una litografia fuori testo.
Il libro, materiato da una selezione di
riproduzioni di dipinti che vanno da Veermer a Canaletto, passando per
Giandomenico Tiepolo e Turner, Corot e Cézanne, sino a Derain ed Henry Rosseau, è accompagnato da un’interpretazione critica
per ogni singola opera.
In realtà, ogni volta è in oggetto una sorta di vero e proprio
postulato in cui Furia – anzitutto poeta – rileva – come annota Mario Fresa
nella significativa introduzione –, «con vigorosa intensità le rivelazioni e le corrispondenze
registrate dal pittore, e ne amplifica i segni, ne propaga e ne estende le
peculiari tensioni espressive»; non descrivendo, dunque, soltanto «ciò che gli è offerto sottoforma di immagine», ma dilatando e
sviluppando «le specifiche sue richieste di approdare a
una possibile comunicabilità del fondo essenziale degli eventi».
Ebbene, questo «fondo essenziale» è elegantemente messo a giorno dal poeta mediante l’utilizzo della parola;
parola che sciorina qui una coscienza analitica di non ordinaria levatura; e
viene in mente – a questo proposito – ciò che di magno annota il filosofo Lucio Saviani intorno alla «filigrana del discorso»: «In effetti, più che con le parole, la trasparenza ha a che
vedere con l’occhio: guardare in controluce ponendo la superficie tra l’occhio e, nel fondo, la
sorgente di luce».
Ecco la parola dell’occhio; ecco l’impresa che Furia compie con questo libro: egli scende solo e muto all’interno delle tele,
avvinto soltanto alla propria percezione, al proprio sguardo, ai propri occhi – come nel caso della scrittura di un testo poetico –, e risale in
superficie con le parole necessarie per far luce e chiarezza a partire dal fondodelle cose (in questo caso, dei dipinti).
Ne è testimonianza fattiva la pagina avvincente
che – tra le altre – lo scrittore dedica all’opera panoramica Il Ponte di Westminster di Derain, sospesa com’è fra filosofia e poesia – critica al cui interno spira un potente afflato sociologico ed etico, giacché «L’arte, quella vera, non si dimentica mai degli altri»: «Il mondo è questo e non resta che accettarlo: nessuna fuga è possibile. Un assetto si mostra. Un
assetto che dunque, sussiste, ma che è precario, privo di solide basi. Può sorprendere, di certo non convincere. Comporre il dissidio tra moderna
civiltà e ambiente naturale è il fine cui tendere, ma l’impresa è ardua» (…); «il nostro procedere è esposto a continue contraddizioni.
Nondimeno, proseguiamo un cammino per certi aspetti più distruttivo, per altri più consapevole, di un tempo» (…): «dobbiamo senza sosta impegnarci per
rendere più stabile un incerto equilibrio».
La particolarità di questo testo – occorre a questo punto appalesarlo – sta nel riuscito
connubio che Furia invera partendo dall’analisi di opere pittoriche servendosi di
intuizioni del tutto personali, per sfociare poi in una critica della società – oltre che dell’arte –, della bellezza,
del tempo e della vita, dei suoi misteri e dei suoi inganni, dei «suoni contrastanti» (direbbe Ermini) che da essa si desumono;
ed ecco, allora – con Tiepolo –, il «raggiungimento di stati di coscienza nuovi eppure antichi, radicati in
quello che siamo e che siamo stati».
E del resto «ogni artista partecipa di questo intento, poiché esso non fa parte dell’arte, lo è già», come attesta «la precipua preoccupazione di manifestare
la propria coscienza, ossia di rendere evidente quel distacco in assenza del
quale l’immagine non riesce a emergere e, nello stesso tempo, quell’intenso attaccamento alle
cose del mondo che è vivida trama interiore».
Trama interiore che l’autore da sé traccia ‘discorrendo’ – ad esempio – con Cézanne e l’ossessione ficcante
della sua montagna Sainte – Victoire, entrambi alla ricerca
ostinata (insieme agli altri pittori testé menzionati) di una passione tuttavia «non opposta, a priori, all’equilibrio». «Questo, a mio avviso, il fecondo messaggio» che Furia con questo libro ci lascia.
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