Mario Fresa
Questionario di poesia (19)
Mauro Germani
Qual è il segreto progetto a cui tende
la tua scrittura?
Ho
sempre pensato che si scrive ciò che non si può dire. Credo che nella scrittura
ci sia una tensione verso l’indicibile, che poi significa l’esistenza stessa,
in quanto sfugge alla parola. C’è sempre uno scarto tra parola ed esistenza e
tuttavia il mio tentativo è di ridurlo al minimo, tenendo sempre presente ciò
che sosteneva Edmond Jabès: dietro ad ogni parola ce n’è sempre un’altra ed è
proprio verso quest’ultima a cui tende la poesia. Non credo ci sia un progetto nella mia scrittura all’infuori di
questo, oppure se c’è è davvero segreto ed io non posso scoprirlo. Forse potrà
rivelarsi alla fine, quando non scriverò più, perché in fondo non è mai
completamente nostro il progetto di scrivere …
Come nasce, in te, una poesia?
Direi
che nasce da un’attesa, da un silenzio e da un ascolto. Attendo che giunga a me
la parola da custodire, da mettere sulla pagina. Ed è proprio facendo silenzio
che riesco ad ascoltarla. So che verrà dopo un’esperienza, una riflessione, un
dolore, oppure un desiderio. È la volontà di scrivere la vita ed il suo
mistero, di coglierne l’essenza, la sua parte nascosta, quella che è in noi,
nella nostra carne.
Il poeta parla di ciò che realmente vive
o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?
Entrambe
le cose. Ciò che si vive è anche ciò che ci manca, che non c’è. Per me non c’è
mai pienezza. E la realtà - la mia stessa realtà - è drammaticamente anche
scissione e a volte vuoto. Artaud
affermava che la poesia nasce non da ciò che c’è, ma da ciò che ci
manca. Io aggiungo che ciò che c’è è comunque mancanza. L’esistenza è conquista
e perdita insieme, come il corpo.
La poesia è salvazione?
No,
credo proprio di no, anzi … Non si può pensare di salvarsi scrivendo. Scrivere
non ha mai salvato nessuno. Dirò di più: spesso chi scrive non sa vivere e si
affida alla scrittura per accorgersi poi che anche questa è comunque un
fallimento, anche quando tocca vertici altissimi.
A quale gioco della tua infanzia
vorresti paragonare la tua poesia?
Più
che a un gioco, la paragonerei ad uno stato d’animo della mia infanzia. Ricordo
che mi svegliavo in piena notte e fissavo il buio intorno a me, nel silenzio,
rimanendo immobile nel mio letto. Quel buio mi affascinava e mi intimoriva allo
stesso tempo. Nascondeva un’altra realtà, forse più vera, ma ignota. Ecco, credo
che la mia poesia aspiri ad essere un corpo notturno, che sappia stare con la
notte, con il buio, ad occhi asciutti.
Che cosa ti ha insegnato la
frequentazione della scrittura poetica?
Forse
una certa umiltà, la consapevolezza di un esercizio lungo, che ha tempi tutti
suoi. Una specie di compito da eseguire, una forma di obbedienza all’ignoto che
è in me, che è nel mondo.
Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?
Prima
di tutto nei versi si deve sentire l’esistenza, il suo dramma, si deve sentire
la verità di una parola che tenta di incarnare tutto questo, altrimenti è solo
un gioco verbale, magari abile, ma fine a se stesso. Il poeta c’è e non c’è, ma
deve restare la parola, quella sì, a testimoniare quella spinta, quello
slancio, quella lacerazione da cui nasce. La cosa straordinaria è che anche la
finzione, anche il mascheramento possono assolvere questo compito. Anche la
finzione può essere dramma. Per quanto mi riguarda non so dire il grado di
mascheramento in ciò che scrivo. Dovrei sapere bene cosa c’è dietro l’eventuale
maschera …
Vorresti
citare un poeta da ricordare e da rivalutare?
Da
ricordare direi Giorgio Caproni, da rivalutare Bartolo Cattafi. Tra gli
stranieri vorrei citare Georg Trakl e poi Georges Bataille, pensatore e poeta
estremo.
Qual è il dono che augureresti a un
poeta, oggi?
Che
le sue parole siano capaci di restare, al di là di quanto di effimero è
presente nella nostra società, al di là delle letture pubbliche, delle
presentazioni, delle iniziative editoriali. Che le sue parole diventino
importanti per qualcuno oggi e nel futuro.
Puoi citare, spiegando perché, un verso
che ti è particolarmente caro?
L’inizio
della poesia La vertigine di Pascoli:
“Uomini, se in voi guardo, il mio spavento/ cresce nel cuore. Io senza voce e
moto/ voi vedo immersi nell’eterno vento”. Mi ha sempre colpito questo spavento
nei confronti degli uomini e della vita stessa. I pronomi personali “voi” ed
“io” rivelano tutta la solitudine del poeta, che vive una sorta di
sdoppiamento, in quanto è al contempo osservatore ed osservato: il destino
degli uomini barcollanti sull’ “aerea terra” è infatti anche il suo. È una
poesia che parla dell’assenza di gravità, di questo mancare dell’uomo a se
stesso. Per questo mi è molto cara.
In alto, Orange
Outline di Franz Kline [1910 – 1962]
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento