Si avverte, nella tua scrittura, un’incidenza forte, che vorrei definire di alta e sofferta acribia, del rapporto che lega e stringe la parola con il suono. Come definiresti il senso dell’elemento orale così incisivamente presente nella tua poesia?
Per me la poesia largheggia e s’incrementa anche nell’impasto sinfonico di una partitura musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l’apposizione degli accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa coerentemente si combina sotto l’egida del gioco elementare significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise, bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale.
Qual è il limite, nel tuo dire poetico, tra confessione e oggettività?
Quando dico parto sempre da ricordi, esperienze in svolgimento, passate o immaginate possibili. Posso anche ipostatizzare tutto un fervido contingente di fantasie ed inventato. Ma poiché ritengo che nel pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a fette fate, brume e mondi. Con un colpo di forbice non posso dimidiarmi in due aree, quella in cui più m’identifico, da quella che avverto a me estranea o lontana. Le parole mi fasciano interamente, mi forano le assi del respiro, m’assediano i secondi di bianco e di nero, di giusto e di sbagliato, di redenzioni e crolli. Ci sono comunque io in ciò che scrivo, e non col mimetismo criptico di
chi nei versi si nasconde o si confonde, ma nel senso autentico, che soppianta la finzione del messaggio.
Le forme e i discorsi del tuo gioco poetico pretendono una costante riflessione, un invito continuo a scalare una infinita vetta, piena di ostacoli, di grumi pluridirezionali, di enigmi e di sorprese; è giusto indicare come sempre ritrosa e sfuggente – cioè non direttamente e facilmente comunicativa - la tua lingua poetica?
“Ritrosa e sfuggente” è una diade aggettivale che mi appartiene e che credo appartenga a un certo tipo di poesia, oggi sicuramente minoritaria. Ho sempre pensato che la poesia risieda in un punto sommitale che non ci è dato cogliere del tutto, ma per brevi sigle o sipari luminosi. La poesia è come Dio, come l’inconoscibile: non si può spiegare e neppure ce lo chiede. La mia poesia non è facilmente comunicativa perché per me la poesia non ha da comunicare. La poesia può emozionare, indurci ad assegnare al nostro pensiero una direzione più libera e intelligente, ma resta pur sempre Arte Assoluta. Può trincerarsi dentro un silenzio sdegnoso, folgorante e inaccessibile: siamo noi, innamorati persi ed inarresi, a inseguirla anche quando ci evita, ci snobba, ci lega e ci maltratta.
Vi è abbandono e progettualità, nei tuoi versi; convivono, cioè, la geometria e il disordine, la meditazione e l’immediatezza, lo studio programmato e l’accensione impreveduta; ma qual è, nella tua scrittura, il punto di partenza, e qual è la finale mèta? L’ordine o il caos?
La finale meta è sempre l’ordine, sgretolare il caos, le omeomerie del nulla ed il frustràneo, sgominare i reparti del buio, del vuoto e del caduco, sovrapponendo alle fratture dell’addensato fenomenico una seconda ossatura che valorizzi e rivaluti l’esistente e lo reinterroghi senza posa, per scagliare le pietre definite alla bellezza, farne amuleti di conforto e riflessione quando serve.
una mia noticina...
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