Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

martedì 12 marzo 2013

Marziale tradotto da Mario Fresa





Mario Fresa



Una recensione di Enzo Rega dedicata agli Epigrammi di Marziale nella versione di Mario Fresa 
(Edizioni L'Arca Felice, collana "Hermes", 
2011, con disegni di Carlo Villa) è qui.






















  


Nazario Pardini
su Percezioni dell'invisibile






Elegante plaquette quella che mi è giunta stamattina, otto marzo, per bontà di Pasquale Balestriere. Semplice, ma curata per veste grafica, impaginatura, carta e composizione. Senza contare l’apporto estetico non indifferente delle belle immagini fotografiche di Gabriella Maleti. Impreziosiscono veramente il tutto. Sì!, perché è determinante la cura di un testo per una buona poesia: invoglia a palpare, a sfogliare, a annusare, ad ascoltare lo sfrigolìo  delle pagine. A sbirciare in qua e in là, per poi darsi, anima e corpo, ad una lettura attenta, scrupolosa; volta a scoprire i messaggi, le allusioni, la corposità del verbo, l’anima degli azzardi di questa antologia. Un’antologia contenuta, non tanto per numero di pagine (72), quanto per il numero dei poeti a cui il curatore ha vòlto la sua attenzione: Lucianna Argentino, Pasquale Balestriere, Floriana Coppola, Giovanna Iorio, Ketti Martino, Cinzia Marulli Ramadori, Marco Righetti.  Poeti di tutto riguardo, conosciuti in ambito nazionale e decisamente autonomi per caratteristiche etimo-intellettive e per storia personale. Come, d’altronde, si può ben evincere e dalla introduzione critica che precede la scelta testuale di ognuno, e dai cenni biografici che ne seguono; alla fine altre due biografie: di Gabriella Maleti e di Giuseppe Vetromile. E’ d’obbligo un complimento al curatore per l’operazione oculata e  per il saggio intervento. Anche perché, da un panorama così promiscuo da un punto di vista stilistico e metrico-semantico, spicca ancora di più la personalità culturale e sperimentale, se si vuole, di ciascuno dei Nostri. Certamente poeti di notevole caratura e che, soprattutto, ci offrono una giusta connotazione di quelle che possono essere le diverse tendenze nel panorama letterario attuale. Una raggiera di intenti emotivo-allusivi e etimo-verbali veramente articolata. Non è azzardato parlare di minimalismo, di sperimentalismo, di forzatura sintattica per abbrivi allusivi; ma, di classicismo, anche,  fresco, robusto, rigenerato, ricco di sana humanitas, innervata di rivoli culturali che non appesantiscono; ma, anzi, che si attestano come sfumature di grande apertura immaginifica. E, con questo tipo di classicismo, mi riferisco, soprattutto, a Pasquale Balestriere, che, con la sua poesia, racconta una lunga storia di studi, di vita, e di amore per questa antica arte che lo rende unico. La sua poesia è tutta lì: nel verbo, nella parola conquistata col dolore, nelle sue dolci e tenui metafore, nel suo non eccedere; ma soprattutto nel sapere intrecciare il tutto in una metrica mai casuale, mai artificiosa, ma equilibrata e robusta che ne fa uno degli interpreti più convincenti di questo repêchage umanistico. Sì!, umanistico. Di un umanismo rivisitato, attualizzato, storicizzato, ma che contiene la solita vèrve sostanziale. Di lui ebbi, già, a scrivere: “Le pergole di sole, i liuti di vento, il mirabile colono, i languori d’autunno, i sacerdoti incantati, le sudate zolle, i grappoli opulenti, i venti, i tramonti, le vigne dai pampini dimessi: tutti tocchi e ingredienti mai a se stanti, ma frammenti dell’essere  e dell’esistere,  corpi della gradualità del sentire, concretizzazioni di vita interiore. Il dire elegiaco di Balestriere equivale ad un racconto didascalico-allegorico, dove sotto ogni colore, ogni forma, ogni sfavillio panico, è nascosto un brandello d’animo che ambisce a concretizzarsi in natura. In ciò il suo panismo esistenziale. E l’autore, per dare più corpo al suo “poema”, spesso chiama in aiuto i grandi della letteratura: da Omero ad Alceo, dal divo Anacreonte ad Ovidio, da  Orazio al Magnifico, ed al Chiabrera…”. Efficace misura la sua.
             Ho avuto occasione di occuparmi, anche, della poetessa Lucianna Argentino. Ho letto il suo bel libro (L’ospite indocile) edito da Passigli, 2012. Un testo ricco di intenzioni novative sia a livello semantico che speculativo. A lei si addice a pieno il titolo di questa plaquette. Dato che l’autrice parte da una letteratura minimalista; dalle piccole cose di ogni giorno, dalla quotidianità, per staccarsene, però, ed avventurarsi al di là del concreto. Verso le percezioni dell’invisibile. Se per concreto s’intende ciò che vediamo, viviamo e che abbiamo davanti, lei è tutta volta a riscrivere la realtà per offrire un rifugio al tempo. Ecco uno stralcio della mia recensione: “… E come è impossibile tracciare linee geometriche oltre cui azzardare la nostra spinta emotivo-razionale, è egualmente impossibile fissare termini linguistici per espansioni che vadano al di là di tali orizzonti. Per questo la Nostra è impegnata in uno sforzo etimo-fonico di rara fattura. Risultato nuovo ed interessante in questa sua andatura singhiozzante, celiniana direi, per decriptare intensità vicissitudinali. Costrutti e tecniche architettonicamente esperiti che, pur spontanei, appaiono rivisitati, anche, da tocchi necessari a raggiungere pointes di alto equilibrio fra dire e sentire…”.
         Ma, devo aggiungere, anche, che gli eccessi sperimentali, come la storia ci insegna, passano facilmente nel dimenticatoio. Con ciò non è detto che non abbiano avuto la loro importanza. Fanno parte di una esperienza letteraria, che, anche solo per contrapposizione, creano stimoli per una nuova scrittura. D’altronde è proprio nel gioco delle contraddizioni che si forma la diacronica dialettica delle correnti. E in queste sue prose poetiche, purché liricamente interessanti, purché estremamente vicine ai suoi sforzi verbali, purché tese a scandagliare emozioni col dovuto distacco, vedo un’altra Argentino assai diversa da quella dell’Ospite indocile. Non mescoliamo le carte in tavola. E facciamo di tutto perché la poesia resti poesia e la prosa resti prosa.
Sugli altri autori – conoscendo poco le loro opere-  posso dire solo che è apprezzabile, veramente apprezzabile l’intento di fare una poesia tutta volta ad una spiccata analisi psicologica di un’umanità irrequieta; di un’umanità tesa a svincolarsi da un reticolato che a volte soffoca; per proiettarsi in fughe verso un irreale che tende a farsi nuova realtà. La parola è sempre tatuaggio di stati d’animo maturati su vicissitudini di sofferenza; sulla coscienza della precarietà dell’essere e dell’esistere. E affidarci alle note critiche che li introducono è l’unica cosa che possiamo fare. “In Floriana Coppola la poesia sembra aleggiare evanescente su un tessuto carneo sottostante, e sono versi dotati di grande abbrivio verso dimensioni altre, che esulano dalla materialità formale del nostro vivere quotidiano…” “Giovanna Iorio, più che percepire l’invisibile, certifica con la sua poesia il mondo che “pende” dalle nostre labbra, che non viene detto a nessuno, forse neanche a se stessi, per timore di schiudere visioni sconcertanti…”. Ketti Martino fa “Un dialogo con se stessa, con le proprie “ombre” di cui riconosce il verso, ma soprattutto una disposizione all’ascolto della natura e del mondo, di quella parte che si percepisce nelle segrete stanze del cuore, dove le luci e i suoni, a volte il silenzio, costituiscono le onde principali sulle quali affiora l’emozione…”. “La terra promessa ha sempre alimentato i cuori dei popoli. Cinzia Marulli Ramadori può essere una di queste figure viandanti, che illuminano la propria strada con la ricerca della felicità, pur riconoscendo le ombre e le tristezze del momento…”. “… Marco Righetti sintonizza il suo acume poetico, come spesso accade nelle sue composizioni, specialmente nelle più recenti, su fatti di cronaca che sommuovono lo spirito e spingono dall’interno con forza vulcanica ad esternare universalizzando quello che c’è da dire…”. D’altronde già il titolo ci dà un’idea di cosa accomuni questi poeti. Quella cosa che poi è il nocciolo della poesia stessa. Fughe e ritorni; vita e sogno; amore e timore; realtà e affrancamento. Ma soprattutto frazionamento della realtà, assorbimento del quotidiano da cui staccarsi, svincolarsi, anche con l’immaginario, per rendere percettibile l’invisibile. Andare oltre, chiedendo alla parola, al suo traslato potere, di combaciare quegli impulsi vitali che ci animano. E questi poeti sono un chiaro esempio di cosa può la poesia. Non esistendo verità, e da sempre l’uomo affannandosi per conquistarla, il canto è l’arma più semplice e più complicata per agguantarne la coda; per avvicinarsi il più possibile al suo nutrimento; al cuore pulsante dell’anima universale. Perché dovunque è armonia. C. Baudelaire afferma che il poeta è in possesso di quel sesto senso, con cui può percepire ciò che è nascosto al comune mortale. A questo le cose appaiono divise, incomunicabili. Al  poeta appaiono unite da un’armonia indefinita. Quella musicalità che può vibrare solo nel suo animo e che può traghettarlo al cuore delle Percezioni dell'Invisibile.



     

domenica 10 marzo 2013



Una felice eredità

di Marco Ercolani




Vivere un’immagine affinché altri, anche a distanza di secoli, la vivano a loro volta: ecco un dono che non ha prezzo”. In questa frase di Marco Furia, tratta dalla sua plaquette La parola dell’occhio (Edizioni L’Arca Felice, collana “In Limine”, Salerno 2012), è racchiuso il senso di questo prezioso libriccino, dove l’autore commenta dodici dipinti di pittori classici e contemporanei, viaggiatore innamorato di immagini lasciate a noi in eredità da artisti amici e affini. “Se la conoscenza è il destino dell’uomo, l’arte sarà sempre sua preziosa alleata”. Furia elenca ponti, passi, castelli, vedute, nature morte, come fossero appena visti e subito ricreati dall’innocenza della sua parola, che li descrive e li evoca con elegante stupore: “la parola dell’occhio”. Ripercorre un mondo composito e multiforme dove inventare immagini è atto vitale fertile e inesauribile, che non smette mai di creare, nel presente e nel futuro, gli spettatori di quei dipinti. “Il suo scopo non è quello di approntare una ‘valutazione’ delle loro qualità stilistiche o della loro costituzione formale; il proponimento mira invece a far da coro, potremmo dire, alle medesime vibrazioni avvertite dai pittori nel momento della stessa creazione artistica” (Mario Fresa). Ormai lontano dalle prose acuminate e lancinanti degli esordi, Furia inventa, per sé e per noi, un piacevole e consolante illuminismo che lo rende wanderer, a suo modo walseriano, di capolavori dell’arte visiva, descrivendo la densità dei colori, la percezione dei chiaroscuri, i ritmi delle immagini. “È spesso compito degli artisti” – scrive il poeta genovese – “illuminare aspetti di cui con difficoltà si ammette l’esistenza, rendere palesi lineamenti che di solito si preferisce tenere nell’ombra”. Da Natura morta con stearica rosa di Henri Rousseau a Passo del S. Gottardo dal centro del Ponte del Diavolo di William Turner, da Casa in Provenza di Paul Cézanne al Ponte di Charing Cross di André Derain, da Veduta di Delft di Johannes Vermeer a Scampagnata di Maurice Vlaminck, il poeta descrive con dolcezza assorta le cose dipinte ma scava dentro ogni opera l’”ineludibile esigenza di un’ininterrotta tensione etica ed estetica”. La plaquette si chiude infatti così: “Il grido, talvolta, esprime più della grammatica”.
La verità di questa frase illumina a ritroso l’intero testo. Ci insegna che le immagini del pittore, se sono la gioia che ci nutre, gli “stati di coscienza, nuovi eppure antichi” profondamente radicati dentro di noi anche durante i secoli, sono anche la forma che ci commuove ogni volta come qualcosa di intenso e di nuovo, evento “sublime” ma disponibile, offerto ai nostri occhi attenti e alla nostra coscienza poetica. Furia sfida, in questa breve plaquette, l’egoismo e l’opportunismo dell’artista contemporaneo, e afferma: “L’arte, quella vera, non si dimentica degli altri”. L’arte, infatti, ci percorre sempre, come un vento di cui siamo alleati. E il poeta, il pittore, “ringraziano” chi li ha preceduti e chi li seguirà, in un’ideale comunità di esseri che non appartengono a nessuna legge stabilita, a nessuna ideologia prefissata, e si fanno cenni, con dipinti e parole, da mondi lontani nel tempo ma vicini nell’emozione (“gli artisti sanno guardare lontano”): cenni di amicizia, intimi e universali, che hanno come scopo soltanto la bellezza comune delle opere e del loro crearle: “La coscienza di un uomo può raggiungere dimensioni davvero immense e il gesto cosciente non soltanto rappresenta, soprattutto è”.    




La parola dell'occhio



venerdì 8 marzo 2013

Una lettera di Giovanni Infelíse





Pubblichiamo questa lettera di  Giovanni Infelíse dedicata a Marco Furia e a La parola dell'occhio.






Caro Marco,

ho letto La parola dell'occhio col piacere di chi ha sperimentato per conto proprio la vicinanza quasi intima tra pittura e poesia, tra il linguaggio delle immagini e quello delle passioni. Una vicinanza destinata a rimanere viva negli "scritti" di chi non ha resistito al richiamo di un "canto" che è anche un "colore".
I tuoi scritti sono volti a riscoprire il valore della parola "dipinta" attraverso l'interrogazione, il cui obiettivo è cogliere l'essenziale e tutto ciò a cui esso rimanda, unendo in un delicato sincronismo sguardo-pensiero-parola.
Una sorta di esplicitazione dell'atto artistico (pittorico) attraverso l'immediatezza del vedere (del visibile), il cui campo trascende il limite puramente fisico di ciò che è osservato attirando l'attenzione del lettore con una minuziosa e fedele introspezione/osservazione che incanta e fa rivivere l'opera medesima quasi fosse poesia.
Si tratta di una ricostruzione a posteriori che parte sì da un significato generalmente accertato, storicamente noto, ma che si arricchisce di continuo con l'aggiunta di un significato ulteriore e del tutto paradigmatico che riguarda non tanto la valenza di un giudizio artistico in sé sufficientemente condiviso, quanto il risultato di una riflessione itinerante affidata interamente all'"occhio poetico".
Un'esperienza in cui sintesi e conoscenza costituiscono il cardine di una coesistenza nell'arte di poesia e pittura. Cosa non nuova, certo, ma di cui sei ben consapevole. Ne consegue, pur nella sua essenzialità, un esercizio critico di tutto riguardo.
Ciò che in particolare colpisce, in questi tuoi "quadri poetico-pittorici" è, insomma, la loro capacità di condurre lo sguardo alla ricerca attenta di particolari, il cui insieme rende quasi trasparente la natura più intima dell'opera di volta in volta considerata.
Ne viene fuori, quasi, un allestimento di "scenografie concettuali", il cui filo conduttore è il frangersi della luce, il suo ritrarsi in prossimità di oscurità incombenti, il suo confondersi, il suo modularsi, il suo oltrepassare i confini stessi di forme e cose proprie di una realtà silenziosa e immanente, di una sostanza cioè nascosta che non è dato cogliere al di là della sua più profonda qualità o "anima": tutto è visibile dall'esterno, ma non ciò che presiede all'esistenza dell'opera medesima (dell'oggetto rappresentato) che a questo proposito acquista un valenza primaria rispetto all'oggetto in quanto tale.
Da un punto di vista teleologico, credo che il tuo tentativo, peraltro riuscito, sia stato quello di ritagliarti un posto d'osservazione privilegiato in quel teatro nascosto che è l'essenza stessa delle opere da te scelte. Parlando con lo "sguardo" più che con la "parola", di cui ti servi, a conti fatti, più per rendicontare ciò che è percepibile che per rivelare volutamente e pienamente ciò che, tu sai, non può avere residenza in un luogo diverso da quello in cui naturalmente dimora, fosse anche la parola di un poeta il quale resta per ciò stesso fedele al suo mandato di osservatore discreto, privilegiato sì, ma pur sempre ospite.
Grazie per questa lettura "improvvisa".

Un affettuoso saluto
Giovanni Infelíse




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