Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

giovedì 14 febbraio 2013


 Giuseppe Vetromile su "Transiti Poetici" dedica un'attenta analisi critica al libro Incipio di Rosemily Paticchio

http://transitipoetici.blogspot.it/2013/02/rosemily-paticchio-e-il-suo-incipio.html



Rosemily Paticchio e il suo "Incipio"


E' un amore primordiale quello che sembra muovere la penna ispirata di Rosemily Paticchio, una vera rivelazione poetica, a mio parere, di questi anni; ed è un ingresso prorompente e meritato, perché nella poesia di Rosemily si nota subito quella forza, quella determinazione e quell'afflato che alimenta di continuo il verso, in un susseguirsi cadenzato di dichiarazioni, di immagini, di emozioni. E' una poesia da "principio", dove la nostra poetessa vuole collocare il punto essenziale del mondo, scaturigine di tutte le cose: "Prima di tutto era la gioia di neve, l'improvviso stupore del ghiaccio...". Una genesi quasi biblica, che vede però perdersi l'umanità quando sarà il momento di separare il "Sogno" dalla cruda realtà fisica di un mondo in perenne evoluzione.
Proponiamo qui di seguito alcuni brani della silloge, intitolata appunto "Incipio", pubblicata da L'Arca Felice Edizioni; gli amici lettori che ci seguono potranno, come sempre, lasciare un loro gradito commento.
La foto di copertina è di Rossella Venezia.

***


Prima di tutto era la gioia di neve 
l’improvviso stupore del ghiaccio 
nel contatto gelido
era la corolla a invocare il bocciolo
il nettare a contemplare la sostanza. 
Prima di tutto era l’assenza straripante di colori
era l’insieme riassuntivo dei teoremi
la grazia nascente di un batterio 
nel primitivo pulsare di elementi. 
Prima di tutto era un nome
senza nome
l’impronunciabile antimateria 
che declinò in polvere 
autografata da uno zero. 
Prima di tutto era la fiamma
che bruciava lenta senza sapere
la matrice che coniò il primo stampo
Era la gestazione di un seme
un agguato teso alle sorgenti del sole 
un sogno dentro al sogno
una lotta sovrumana contro il tempo.

***


Poi venne... la Separazione dal Sogno

Qui vi è il margine di separazione
dal Sogno
che il silenzio oltrepassa sulle punte
e un librarsi d’ali spinge nel vento
come tempio sospeso tra nubi
con l’arcata che pende dal cielo
e arcobaleni finemente illustrati
quali nicchie di un abside esterno
che l’andar via sottile dei corpi
lo svestirsi degli abiti
in un soffio di voliera azzurra 
rende la gabbia possibilmente semichiusa
sulla zona d’ombra di un micro-universo
e gli uccelli in suoni convulsi
eseguono melodie incendiate
a ritmo crescente.
Potremmo salpare qui dove le sponde
di muschio bianco videro le gondole
migrarsi oltre l’Oceano della Scienza
perduto sulle scie d’incenso!

***

Incipio

Io non partecipo all’incipiere del giorno
non odo i trilli delle albe pungenti
ma dimoro soltanto
nei posti estesi prescelti dalla mente
tengo la rotta scura del crescersi diverso
ho bocche da  sfamare
come lupe d’inverno
espressioni aperte a colonizzare
le visioni di un insieme
orifizi tesi a cogliere il soliloquio
di un dialogo imperfetto
Imperfette Desinenze.
Nessun posto abitai per intero
ma gravitante fui tra i boschi
rigogliosi di un tempo
dove poggia il morbido piede
dorme il mio ventre allegro
                                        sulle Tracce 
dell’ombelico profondo
le andature distorco sul sentiero.
E se così pervenni alla nascita
a non sbavare i contorni
ciò che tremo in fondo è l’orlo
non  le cime più alte.

***

Eco di Fantasia

In questo vago dolce nutrimento
s’aggira inquieta una flotta di segni
d’incerti voleri dissolti
al brillare di sguardi lucenti
ogni presenza in barca ciondola
tenendo stretto tra denti di piombo
il suo sogno integerrimo.
L’acqua che proviene sublima
la superficie del vetro
sui ciottoli fragranti di passi.
Che sia  un’eco di Fantasia
o il frantume di schegge  taglienti
di per sé vuotoflesse
se sostare soffoca il fiato
se la salvezza di un lume è esigere
lEnigma esistente
sulla carrucola di sogni e desideri
Andiamo pure!
Un grande atrio spalanca l’emisfero
ricevendo il rosone dei viventi 
il cui esercizio dei poteri è immenso
nel contrappasso che genera l’ascesa
lo scioglimento del rosario ai vespri
50 grani fluorescenti al tocco intenso
di membrane e particelle
che in congiunzione cercano gli anelli.

Ma in fondo è debole la mensa 
e si resta in preghiera
nei nostri umili panni lisi.

martedì 12 febbraio 2013

su Adolescenza di Massimo Dagnino




Nell’ultimo lavoro di Massimo Dagnino, la plaquette Adolescenza uscita per le “Edizioni L’Arca Felice”, ci si può trovare davanti ad un’opera sfuggente, dalla doppia lettura; vera opera d’arte in tutto dai disegni che l’accompagnano fino alla rilegatura. Come scrive nell’introduzione Maurizio Cucchi, Dagnino muove il suo lavoro attraverso profonde ossessioni e la costante precisione e progettualità sia nel disegno che nella forma poetica. L’attività di Dagnino ha sempre viaggiato su due binari paralleli; lo stesso libro propone due varianti, due versioni previste di possibile Adolescenza. Quella dei disegni che riproducono in maniera perfetta dettagli e luoghi: campi da calcio, reti, vie cittadine, vegetazioni; e l’altra, la riproduzione più incostante, attraverso le parole, con la poesia, grande medium, che è portatrice anch’essa di immagini, di biografie altrui. La poesia come canale d’eccellenza per l’apertura verso il mondo, verso la vita, quindi passaggio obbligato, semplice traccia da non ricordare, come l’adolescenza stessa, il momento di intenso slancio verso l’età adulta, luogo di ribellione e seduzione: «Tuttavia soffriva di tendinite, di crampi./ Detestava l’educazione/ tecnica./ Gli ormoni, l’herpes,/ aumentavano i tic,/ non era neanche più/ anaffettivo./ Irretito dal giorno che involve fra binari/ in simbiosi con oleandri, osserva/ ombre proprie/ di corpi nell’agglomerato.»
La bravura di Dagnino consiste nel riuscire a riprodurre attraverso il disegno di poche foglie o rami un intero mondo, uno spazio riuscito. Come ogni buon disegnatore, sa costruire un universo di significati a partire dalla sola rappresentazione che l’occhio offre, dal continuo sprofondare dell’immagine attraverso la materia, i corpi, attraverso un paesaggio studiato, memorizzato, da riprodurre come continuo schermo di realtà scomposta in ossessioni, sentimenti e ansie. Le frazioni, gli sbalzi e la continua tensione dei frammenti in equilibrio audace rendono queste poesie testimonianza di precisione: «Alcune carte mentali/ corrispondono a quelle topografiche,/altre sono distorte (ma sempre utilizzabili)/ e alcune, infine, non hanno riscontro con la realtà.» Declinarsi in un passaggio così difficile come l’adolescenza, proiettare verso l’esterno sensazioni, regredire dallo status di adulto per ripiombare attraverso l’esperienza di altri nel proprio vissuto, è per Dagnino un isolarsi dal caso, dalla propria rappresentazione. Quindi nessuna maschera del quotidiano o teoria, in queste poesie il vissuto, il momento, vengono rintracciati e assimilati dall’esterno come spettatori eccessivi e convincenti. L’ispirazione viene dal soggetto, ma anche dall’oggetto guardato, spiato. Ogni poesia è spiare la realtà, renderla vera per pochi attimi: «Si chiedeva se l’avesse ancora/ pensato. Mi obbliga/ l’immagine eversiva in sogno./ Il volto inspessito dall’ombra./ Nella stessa notte, i giorni cerchiati/ sul calendario./ Aveva esitato.»
Nello stesso periodo Massimo Dagnino ha pubblicato, nell’ultimo numero di Nuovi Argomenti, Ipercinetismo, una parte di quello che dovrebbe essere l’intero progetto-libro di Adolescenza. In questa sezione i “protagonisti” vivono gli allenamenti, le partite di pallone, come stati d’ipnosi, in una confusione di riflessi e movimenti, come fossero immobilizzati nelle proprie visioni. Sicuramente tutto questo si può ricollegare ad una particolare poesia all’interno della plaquette: «La giornata si perde in mete./ Gli sarebbe piaciuto ricordarlo/ intatto il tiro a piattello / infossato nel verde./ Ma nella sua testa il “prato fierissimo”,/ la pressione del parlato/ lo distoglie.» La ricerca sia linguistica che formale del lavoro di Massimo Dagnino, tende alla compressione degli elementi, a particolari smossi, a realtà fuori scena che si sovrappongono: «Lo sciroppo/ di rose rappreso inutilmente sull’agenda/ compressa in conti/ che mi riguardano./ L’angolo della Bank of England si fa Tempio di Vesta;/ nelle sale d’aspetto immagini deformate/ dai vetri. Vivo all’interno/ di una separazione.»
Come non ricordare l’amore dell’autore per le “Architetture” fra metropoli e antichità o la realtà virtuale di cui era intriso il primo bellissimo libro di Dagnino Verso l’annichilirsi del disegno.

Vivere all’interno di una separazione non è la non comprensione di sé, la non unità e unicità ma l’essere fedeli a se stessi, vivere nella scomposizione, nelle diversità degli stili scelti, per esprimersi interamente fra disegni e poesie.






Enzo Rega su 

Pigmenti di Antonietta Gnerre





Fiori di vetro. Restauri di solitudine è il titolo di una precedente raccolta di Antonietta Gnerre (Fara Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, Rimini 2007), ma è un’utile cifra per introdurre alla sua più recente plaquette intitolata Pigmenti (Edizioni L’Arca Felice, Salerno 2010).
Il titolo precedente dà l’idea infatti di una “fragilità” che non è debolezza ma “delicatezza” (quello che alcuni dizionari danno come infatti primo sinonimo), che è la caratteristica e del contenuto e della scrittura di questa poesia. Alessandro Ramberti, introducendo quella precedente raccolta, parlava infatti di haiku. E si può aggiungere che haiku erano “nascosti” anche in testi lunghi, nel senso che se ne potevano estrarre lacerti che avessero queste caratteristiche, e il testo stesso nell’insieme appariva come una collana di haiku.
Aspetti che senza dubbio ritroviamo anche in Pigmenti, ma con un irrobustimento nel dettato pur nella delicatezza (delicatezza ribadita anche nel comunicato che accompagna questa plaquette, comunicato anonimo ma attribuibile a Mario Fresa che dirige la collana de L’Arca Felice), una densità ulteriore che si fa icasticità. Citiamo, per ridare anche questo soffio delicato d’oriente: “la tua lacrima / avvolge gli ikebana / che dormono”.
Anche il sottotitolo del volume precedente può essere utile come sottotraccia per la lettura di questi nuovi versi: restauri di solitudine, ricordiamo. Cioè un’atmosfera intimista e di auto-interrogazione. Leggiamo infatti in Pigmenti: “Nel camminare mi guardo / dentro”. Ma il viaggio della vita, questo cammino pur personale, non è autoreferenziale. Il “restauro di solitudine” può anche intendersi, ambiguamente, come “restauro dalla solitudine” e quindi come apertura, ri-apertura all’altro: “Dall’aria di un sogno / viaggio in treno / sulla ferrovia / delle tue mani”. Il riferimento al sogno dà poi anche l’idea del carattere talvolta visionario di questa poesia. Un carattere visionario che non è astrazione (nel senso anche concettuale, filosofico) da questo mondo: “Eppure, sento, che non hanno riparo / queste mie pene. Nascono dalla / tua materia, per restare sul rigo / di un grande motore umano. / La mia carne”.
Un aspetto umano, troppo umano che si completa poi nell’afflato con la natura. Già la Poesia viene qui definita come “Un pensiero / che unisce / la mia voce / sul colore di una / foglia”, in una sintetica dichiarazione di poetica.
Natura intesa cosmicamente come universo, in una mistica unione con Dio (“c’era Dio nella goccia che accarezzava il tuo viso”): laddove il Dio del monoteismo del quale Antonietta si è occupata anche come studiosa, oltre che come credente, non è in contrasto con una qualche forma di panteismo, se poi anche per il cristianesimo Dio è in ogni luogo. Ma natura anche come luogo e luoghi geograficamente determinati, laddove però micro e macrocosmo pure si fondono: “Irpinia, mia sventura e mia sopravvivenza / terra del mio sangue, verde e cosmica / infinita fino a schiacciarmi”; così come nella raccolta precedente una poesia era dedicata a Prata, cioè a Prata di Principato Ultra, per l’appunto in Irpinia: “Prata ti porto nel cuore nel grano delle danze / future col diadema della mia alba percorro / i perimetri le cupole dei tuoi rami con l’illusione / d’amarti solo io”.
La terra è dunque la madre-terra, e alla madre è dedicata l’ultima poesia qui raccolta, un recupero memoriale del Natale da sottrarre alle “cianfrusaglie dell’apparenza”, e in Fiori di vetro, a suggellare più in profondità, e più a ritroso nei tempi, il legame con questa terra, compare anche la nonna, la Grande Madre come si direbbe in altre lingue, alla quale dice: “Oggi sei la sentinella che ci accompagna / nella terra della fede con i piedi fasciati / dalle tue preghiere ascoltiamo i messaggi dell’amore”. Le poesie dedicate più direttamente alla propria terra, alla natura nella sua concretezza, e alle madri da cui ventri si discende, si dilatano oltre le forme dell’haiku, espandendosi in versi più lunghi e numerosi, come se lo spirito volesse poi farsi carne e in essa, attraverso essa, riconoscersi. Che è il mistero cristiano nel quale profondamente Antonietta crede senza chiusure confessionali ma nella tensione di un discorso interreligioso e interculturale. Che significa poi sentirsi tutti rami di un unico albero, immagine fondamentale in questa poesia: e la riproduzione di un olio di Raffaele Della Fera, raffigurante un nodoso albero che sorge da un mosso mare d’erbe (che ha qualcosa – pur spoglio e diverso per realizzazione, del Pino nei pressi di Aix di Cezanne), accompagna questa plaquette coloristicamente, e essenzialmente, intitolata Pigmenti.
Ma qui mi taccio per non incrinare, con le parole spurie della critica, il nitore cristallino di questi versi di vetro.






lunedì 11 febbraio 2013





Una lettera di Silvia Comoglio dedicata 
al libro La parola dell'occhio di Marco Furia (Edizioni L'Arca Felice)




Marco carissimo,

splendido La  parola dell’occhio. O meglio, lasciamelo dire, la tua parola del tuo occhio. Una parola che abita profondità intime e feconde e che tu sai far affiorare con gradualità, perché tutta, interamente, possa dirsi. Un movimento che comincia da un ponte, due donne o una luce nebbiosa, da un’esperienza contemplativa, e che alimenta la coscienza, e l’esserci e la memoria, per farsi atto del conoscere e sapere. La tua sensibilità e la tua interiorità, con la loro ricchezza e la ricchezza delle impronte lasciate dal ricordo e dall’apprendimento,  guidano questo movimento. Nel luogo dove forse meno la si attendeva si coglie e accoglie la conoscenza. Un’epifania, o un piccolo miracolo se vuoi, possibile soltanto per la tua capacità di interiorizzare e elaborare, per la tua disponibilità e forza di guardare in te stesso e di accogliere tutte le potenzialità del tuo essere e esserci, e di saperle tradurre in atti conoscitivi dicibili e condivisibili. Vivi e respirabili.
Ho amato molto, Marco, seguirti nelle tue riflessioni. Vedere come tutte le gradazioni del colore e delle forme, e poi della parola e della conoscenza si dispiegano. Dato oggettivo, dubbio sul dato oggettivo ( Questa non è una pipa), fiaba ( è da lei che bambini cominciamo un viaggio che ci condurrà verso sistemi scientifici e filosofici decisamente molto più complessi), coscienza, essere e memoria. E naturalmente linguaggio. Gli oggetti sulla tela ci vengono restituiti, tu ce li restituisci, come parole e ne cerchi il loro valore e senso primario, la loro etica, la tensione che si fa grido, quel grido che, come tu giustamente dici, talvolta esprime più della grammatica.  E poi non voglio dimenticare un’altra conoscenza di cui ci parli, una conoscenza direi non  intellettiva ma biologica e della natura. Quel tipo di conoscenza che ci insegna  la quiete, l’armonia, il pericolo, lo stare all’erta.
La parola dell’occhio, posso dirlo Marco?, uguale a La parola dell’anima. Perché se il tuo occhio non si identificasse con la tua anima  non saprebbe certo interiorizzare così intensamente un dipinto. Poi ci sono le elaborazioni, le riflessioni, la trasmutazione di cui parla Mario Fresa, ma la dimensione di quanto contemplando hai interiorizzato e da cui ti sei mosso per guardare e far guardare lontano questa è solo intimamente tua. Tua, di te uomo e poeta.
Sai, avrei dovuto aspettarmelo questo tuo lavoro. E’ la naturale continuazione del tuo percorso. Poesia, poesia visiva, la parola dell’occhio. Un percorso che continuerà ancora, probabilmente tu sai già come, e che io sono qui in attesa di scoprire.
Marco, grazie per La parola dell’occhio, ora aspetto il nuovo lavoro che verrà, intanto un caro abbraccio sperando di poterci vedere presto.


(lettera del 10 - 2- 2013)










domenica 10 febbraio 2013

Rosa Pierno su Marco Furia








Un'intensa lettura de La parola dell'occhio di Marco Furia 
 da parte di Rosa Pierno sul blog Trasversale





















martedì 5 febbraio 2013

PERCEZIONI DELL’INVISIBILE a cura di Giuseppe Vetromile














PERCEZIONI

DELL’INVISIBILE


 
a cura di
Giuseppe Vetromile


impreziosito con fotografie di 
Gabriella Maleti

con una litografia fuori testo

Testi poetici di

Lucianna Argentino, Pasquale Balestriere,

Floriana Coppola, Giovanna Iorio,

Ketti Martino, Cinzia Marulli Ramadori,
Marco Righetti

  
Edizioni L’Arca Felice


Il tema caro ai simbolisti francesi del XIX Secolo, in particolare a Baudelaire, in base al quale la poesia non deve basarsi sulla realtà, e quindi deve prescindere dalle problematiche storiche e sociali, occupandosi invece dell'interpretazione dei segni della natura, delle emozioni, delle “in definizioni”, torna per una breve considerazione, anche se con qualche opportuna differenza o interpretazione, in questa Antologia dal titolo così sfumato, vago, e nello stesso tempo così accattivante e addirittura intrigante. L’invisibile è sempre stato un mondo relegato negli anfratti irrazionali della nostra quotidianità, a volte sinonimo di paura - perché l’ignoto, il non visibile e il non tangibile è automaticamente non misurabile e quindi non gestibile dal nostro raziocinio - a volte sinonimo di sogno, di evasione, di desiderio d’altro. Si tratta in quest’ultimo caso di proiettare le nostre aspettative esistenziali verso un orizzonte che sta sempre oltre il nostro occhio corporale e razionale, un orizzonte asintotico perché mai effettivamente raggiungibile, ed è proprio l’abbrivio, il moto verso, la nostra propulsione, la nostra spinta, più importante dello stesso eventuale raggiungimento finale: perché raggiungere la meta significherebbe fermarsi, non cercare più, stabilizzarsi. L’arte e in genere tutta l’attività creativa dell'uomo è invece sempre una progressione, tesa ad un cammino inarrestabile e mai regredibile, verso l’irrag-giungibile: è la ricerca che conta, molto più del “ritrovamento”. Diversamente dalla scienza, che nella sua progressione trova le spiegazioni ai fenomeni naturali, accatastandoli poi via via come obiettivi raggiunti e consolidati, l’arte e la poesia trovano in se stesse, lungo il loro cammino, la loro “ragion d’essere”, senza pretendere di essere giunte ad un punto fermo, ad una meta accertata e “incasellata”. Direi che la poesia accompagna e accompagnerà per sempre (per fortuna!) l’uomo in cammino verso la propria evoluzione – progressione -realizzazione.

E non può essere diversamente, giacché è proprio grazie alla poesia che l’uomo può scrutare l’imperscrutabile, mi si perdoni il bisticcio di parole. Mi piace a questo proposito citare un pensiero del Novalis, il quale affermava che la poesia ha molto in comune con il misticismo, in quanto rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente il non sensibile. Insomma, la poesia va certamente oltre la sfera dei cinque sensi, travalica la materialità, la corporeità e la quotidianità, per andare a scandagliare i subbugli ed i rovelli dell’anima, nel tentativo che di per sé è già felice e realizzante!, di trovare le classiche risposte ai fatidici interrogativi che l’uomo, fin dall’inizio della sua storia, si è sempre posto, circa il senso da dare alla sua esistenza. Naturalmente parliamo qui di una sostanziosa fetta dell’attività poetica, quella che si ispira alle problematiche filosofiche ed esistenziali: la poesia riflessiva e meditativa, la poesia del leopardiano “pastore errante”, tanto per intenderci, mentre sappiamo che esistono indubbiamente altri filoni, come quello sociale, o della memoria, o del sentimento, che impegnano tuttora tantissimi poeti. Ma non vogliamo qui fare dei distinguo, giacché ritengo che l’arte poetica, pur nelle sue differenziazioni di stili e contenuti, debba essere considerata nella sua unicità propositiva, un atto creativo a tutto tondo, prezioso e significativo già di per sé.

Detto questo, veniamo al tema trattato, che pure interessa, ha interessato e credo interesserà ancora numerosi “addetti ai lavori”, poeti che vanno indagando gli aspetti profondi della vita, dell’uomo e dell’esistenza, dell’intera natura anche, portando alla luce, con il loro bagaglio di esperienze poetiche, ciò che la quotidianità e la razionalità della vita limitano o adombrano con un sottile velo di indifferenza se non addirittura di voluta ignoranza. E non parliamo dello spirituale, che pur influenzando la penna di tanti poeti rimane comunque un argomento, un tema abbastanza “rientrante” nella sfera della quotidiana esistenza; parliamo invece di quel qualcosa di più profondo, di più vasto, di più intrigante e misterioso, che è poi alla base del nostro senso dell’esistenza, o perlomeno di quello che noi intendiamo come verità ultima e normalmente, usualmente imperscrutabile, appunto, se non con gli adatti strumenti della filosofia, e poi dell’arte e della poesia!

Ad esporre i loro progetti poetici su questa tematica dell’imper-scrutabile, dell’invisibile, o almeno a tentare nello spazio di un numero alquanto limitato di versi per ovvii motivi tipografici, sono chiamati sette Poeti che con la poesia hanno una frequentazione assidua e molto impegnata. I poeti qui proposti hanno stili e approcci diversi l’uno dall’altro, ma sono certamente, ciascuno per conto suo, rappresentativi dello stato attuale della “ricerca” in poesia. E forse non è un caso che, su sette, ben cinque siano donne, le quali, al di là di meri formalismi o riferimenti a “quote rosa” o a quant’altro voglia operare delle suddivisioni a tutti i costi e in tutti i campi pur di recuperare a favore del sesso debole quei diritti di rappresentanza e di compartecipazione che dovrebbero essere comunque riconosciuti a tutti indistintamente, hanno indubbiamente e naturalmente una “marcia in più” quando si parla di intuizione, di percezione, di scandaglio dell’invisibile e di “sesto senso”. Non me ne abbiano a male Pasquale Balestriere e Marco Righetti, poeti di prim’ordine e di comprovata esperienza nella produzione di ottimi lavori poetici, ma la poesia italiana ha nomi illustri anche e soprattutto tra le donne, e molte di loro, come quelle presenti in questa interessante antologia, si distaccano certamente dalla generale, anche se a volte apprezzabile, vena poetica prevalentemente sentimentale e sdolcinata, inneggiante alla natura, all’amore, al partner. Qui le voci sono serie, acute, intelligenti, e scavano in profondità nel tessuto dell’“invisibile”, attente a raccogliere anche i più segreti sussurri, le più celate ispirazioni suscitate dal mondo interiore che non sempre è manifesto e manifestabile, o vogliamo dire “comunicabile”, con i normali superficiali e immediati mezzi a nostra disposizione, ma perfettamente raffigurabile ed esprimibile con la Poesia!

E sono voci naturalmente diverse tra di loro, come dicevo, ognuna dotata di un proprio “Dna” poetico ben preciso, originale e unico, ma tutte tese a ricostruire, almeno in parte, come in un grande mosaico, i brani del profondo e invisibile mondo che sta sotto la nostra quotidiana superficie materiale e temporale, non soggetta quindi a nessun degrado ma che si lascia ben percepire dai sensi affinati dei poeti esperti, come i sette qui proposti in questa raccolta e che andremo singolarmente a presentare.



Giuseppe Vetromile

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Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Sue poesie sono presenti in diverse importanti antologie. È coautrice con Vincenzo Morra del libro Alessio Niceforo, il poeta della bontà (Viemme, 1990). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Gli argini del tempo (ed. Totem, 1991); Biografia a margine (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci; Mutamento (Fermenti Editrice, 1999) con la prefazione di Mariella Bettarini; Verso Penuel (Edizioni dell’Oleandro, 2003), con la prefazione di Dante Maffia; Diario inverso (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi. Nel 2009 ha pubblicato la plaquette Favola (LietoColle), con acquerelli di Marco Sebastiani. Ha realizzato due e-book, uno nel 2008 con Pagina - Zero tratto dalla raccolta inedita Le stanze inquiete e nel 2011 Nomi con il blog Le vie poetiche. Il suo lavoro La vita in dissolvenza (quattro poemetti - monologhi) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e, dal marzo 2011, presentato in vari teatri e associazioni culturali.

Gli occhi del padre s’erano fatti più grandi e più piccolo il cuore di lei quando lui le chiedeva «dammi da bere» o «aiutami a voltarmi» - accidente cerebrovascolare quello che s’era portato via la parte sinistra del suo corpo. E lei «aiutami a cercarmi che nel tuo dolore si ossida la mia vita». Ma non lo diceva. Annuiva senza pensare, semplice il sangue al consenso verso ciò che dentro era mormorio continuo e montava in lei la rabbia dei mammiferi.

(Adesso la sua morte è un sottofondo lungo tutto il sistema nervoso e linfatico, lungo la planimetria aerobica dell’anima. Ora che ancora sussulta per la strada quando le sembra di vederlo, lui là in piedi com’era prima, ma è solo uno che da lontano gli somiglia. Ora che non riesce, di notte più spesso, a scacciarlo il pensiero di lui là sotto, nell’impen-sabile solitudine di ammoniaca e vorrebbe trarlo dal buio, dal freddo, da quella lontananza che il ricordo non basta... È la sua assenza che dentro decompone – la postura innaturale delle cose).

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Pasquale Balestriere (Barano d’Ischia, 1945) è docente in pensione. Studioso di dialetto, usi e costumi della sua isola, scrittore e poeta. Oltre a numerosi articoli e saggi di argomento letterario pubblicati su giornali e riviste, ha scritto racconti e ha dato alle stampe varie raccolte di liriche: E il dolore con noi (Avellino, 1979); Effemeridi pitecusane (Ischia, 1994); Prove d’amore e di poesia (Roma, 2007); Del padre, del vino (Pisa, 2009); Quando passaggi di comete (Torino, 2010); Il sogno della luce (Castel di Judica, CT, 2011).

Si sono interessati della sua poesia: Marica Razza, Luigi Pumpo, Guido Massarelli, Claudia Turrà-Rizzuto, Alberto Mario Moriconi, Walter Ciapetti, Giorgio Bárberi Squarotti, Raffaele Urraro, Nazario Pardini, Luigi Maino, Paolo Ruffilli, Pasquale Matrone, Umberto Vicaretti, Giuseppe Vetromile, Carla Baroni, Gian Paolo Marchi, Elio Andriuoli, Lorenza Rocco, Antonio V. Nazzaro, Luciano Nanni.

Ha ottenuto il primo premio in numerosi concorsi di poesia. Partecipa ad attività culturali in forme e modi diversi (conferenze, dibattiti, recensioni, prefazioni, partecipazione a commissioni giudicatrici in premi letterari, collaborazioni di vario tipo con giornali e riviste, blog ecc.).

 
Alba

Àlbica, il giorno pecora s’avvita
appena nato al primo
clacson di bus, a gorgogli di suoni,
a fiati di caffè,
a soffi di fonemi. Incarnazioni
umane del tempo, cifre cangianti
e caduche, s’affrottano, diffusa
plebe fortuita, al rombo di corriere,
alla viltà dell’ovvio caldo e certo.

Ma l’infula dei monti
verderobusta a noi dispiega sogni,
ci guida all’attentato d’ogni iperbole
fanatica, di volgari consumi,
c’invita al lauto pranzo d’erba, ai vivi
affetti, al dolce canto, all’avventura.

Così tra segni d’ignavia vivremo
e impeti di cuore ove s’addensa
questo mesto lucore.

(Anche il sole canuto ci riporta
Elena diademata,
madre di battaglie, a danno di Troia.)
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Floriana Coppola vive a Napoli, dove insegna materie letterarie negli istituti statali  superiori. Scrittrice, poeta e collagista, specializzata in Analisi Transazionale, perfezionata in Didattica e Cultura di genere e in Scrittura autobiografica, socia dell’Associazione Etica Pubblica e della Società Italiana delle Letterate, ha scritto racconti, romanzi e sillogi poetiche incentrate soprattutto sull’emersione dei problemi e dei linguaggi femminili. Nel 2004 ha pubblicato il romanzo Donna Creola e gli angeli del cortile ( Guida Lettere Italiane) e nel 2005 la silloge poetica Il trono dei mirti (Melagrana onlus editore). Le è stato conferito nel 2009 il premio giornalistico e letterario “Marzani” organizzato dall’Associazione Campania Europa Mediterraneo. Nel 2010 ha pubblicato la silloge Sono nata donna (Boopen Led). Nel 2011 ha curato i due quaderni antologici di poesia Alchimie e linguaggi di donne (Boopen Led/Photocity), nati all’interno del Festival di Letteratura Filosofia e Poesia di Narni  organizzato da Ester Basile e l’antologia poetica con Ketti Martino La poesia è una città (Boopen Led/Pho-tocity). Nel 2012 ha pubblicato il romanzo Vico Ultimo della Sorgente (Homo Scrivens). La sua ultima silloge poetica è uscita a settembre: Mancina nello sguardo (edizioni La Vita Felice). I suoi testi poetici e i suoi collages di poesia verbovisiva sono in molte antologie letterarie e in cataloghi artistici. 


Tracce



Non sono tracce visibili

ma rimangono

sì, rimangono

fisse nella notte inaugurale

della giovinezza che passa



sorridi



sono caduta tra le tue braccia

memorabili sedici anni

bruciati via come

sedicimila ettari di ginepri

in un furore di vento



sono muri di pietra

queste rughe che solcano il viso



la tua scrittura su di me

tempo, mi erodi ma non diventerò sabbia

dove adagiarsi e dormire

ma cenere liquida e linfa

sule stoppie del tuo giardino

il mirto fiorirà intatto

pochi conosceranno intera la disfatta della carne

della mia carne

il tuo silenzio è rumore

senza stordimento umano

vivo palpitante, incerto

indietro rimane l’adolescenza dolente

con il suo luccichio di squame



pensavo di afferrarla

eppure è sfuggita tra le dita

e l’ho persa

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Giovanna Iorio vive e lavora a Roma. Ha tradotto dall’inglese diversi testi di poesia e di narrativa. Per le edizioni Via del Vento ha curato e tradotto i volumetti: Eavan Boland, Falene; Medbh McGuckian, Scene da un bordello. Per Trauben Edizioni Testo di Seta, poesie di Eilean Ni Chuilleanain (Torino, 2004). Nel 2012 come autrice ha pubblicato i seguenti racconti: 100 storie prima che sia troppo tardi (AA.VV. Feltrinelli); Roma per Roma (Edizioni Progetto Cultura); Rosso da camera (AA.VV. Perrone Editore, 2012); La mamma è la mamma (Mondadori, 2012). I suoi libri di poesia sono: La memoria dell’acqua (Ghaleb Editore); Mare Nostrum (Retrobottega 2, a cura di Gianmario Lucini, 2012); Il libro degli oggetti smarriti nell’antologia La forza delle parole (Fara editore). È in uscita a cura di Delta 3 Edizioni la raccolta In-chiostro (primo premio Concorso “L’Inedito” 2012). Come autrice di narrativa breve per Storiebrevi.it, il sito della Feltrinelli che pubblica racconti da leggere sullo smartphone, ha appena pubblicato i racconti L’avambraccio e Carlo il Calvo. Ha un blog dedicato al piacere della lettura: amicidiletture.blogspot.com 

L’altalena del satiro



Continua a dondolare

sul soffitto



niente vento

niente bambino

niente mano

niente bocca



che ride e ride e ride e dice

più forte...

al mio verso non chiedo altro



continua a dondolare

sul prato

come l’altalena del satiro.


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Ketti Martino, nata a Napoli, laureata in filosofia, ha insegnato nella scuola pubblica e si è occupata di promozione teatrale e musicale. 

È presente con testi poetici in diverse e importanti antologie. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica I poeti hanno unghie luride (Boopen Led edizioni). Ha curato, assieme alla poetessa Floriana Coppola, l’antologia poetica La poesia è una città (Boopen Led edizioni, 2011). Per la narrativa è presente ne Le parole del mistero. Il perturbante nel quotidiano (a cura di Gloria Gaetano, Neverland edizioni). È fra i compilatori dell’Enciclopedia degli scrittori inesistenti, a cura di Giancarlo Marino e Aldo Putignano (Boopen Led edizione, 2009, e edizione 2012 edita presso Homoscrivens). Molti suoi racconti sono in rete su siti letterari, su quotidiani e antologie a tema. 

Ha preso parte a numerosi reading ed eventi letterari.


 
III cornice



Vivranno parole, o echi di voci sussurrate,

anche quando credi che la domenica sia passo indenne

e il ronzio delle giunture smarrisca la memoria.



Ombra pallida, impalpabile distanza che fa luce

di notte sopra ai libri e ogni cosa, cuci gli angoli

e i miei spigoli malconci. Spargi acqua e neve

dov’è amarezza; avvicina le distanze nostre.



Non serve un nome da pensare, ormai,

un cerchio in cui agitarsi brancolando nella

vertigine.



Nutrirsi delle onde può bastare,

ché non ti perdo se ti ascolto attenta

e, in dissolvenza, come pagina che fluttua

senza corpo, scrivo.


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Cinzia Marulli nasce a Roma nel 1965, dove vive e lavora. Ha sempre coltivato la passione per la poesia e la letteratura, ampliandone la ricerca anche attraverso forme di sperimentazione che l’hanno portata a creare connubi con altre arti come la musica, la pittura e la video-arte. Ha collaborato con alcune case editrici, e, per le Edizioni Progetto Cultura cura la collezione di quaderni di poesia «Le gemme». È redattrice nella rivista letteraria «Polimnia», per la quale cura la rubrica «Opere prime». Organizza incontri tra poeti allo scopo di diffondere e divulgare la poesia. Nel 2011 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Agave (LietoColle), con l’introduzione di Maria Grazia Calandrone e una nota critica di Plinio Perilli.



 
Monologo di un poeta



Ditemi, ombre

dove posso trovare una zappa

per dissodare il mio terreno?

Non voglio che le zolle diventino aride.

Indicatemi la sorgente dell’acqua

dove immergere le mie radici.

Berrò a sazietà, berrò con ingordigia

succhierò dalle profondità l’umido

come un cactus in un deserto desolato.

Ditemi, ombre

a che ora fa giorno?

quando potrò dischiudere i miei petali

alla luce e respirare nella clorofilla della follia?



Lasciatemi ora, lasciatemi riposare

in un sonno rigenerante di vigore e di quiete:

all’alba sorgerò per dissodare il mio terreno.

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Ex avvocato penalista, iscritto a Lettere – Italianistica, Marco Righetti ha vinto numerosi premi letterari per poesia e narrativa (da ultimo è segnalato all’edizione 2012 del premio Montano con un racconto inedito). Ha pubblicato la raccolta poetica Dirette (LietoColle), “Premio opera prima” all’Astrolabio 2007. Nel novembre 2010 è uscito il secondo libro di poesia, Il seguito mancante (Puntoacapo edizioni). Esce a settembre prossimo, per i tipi di Leone editore, il romanzo SOLE NERO.

Con testi e recensioni collabora a «ClanDestino» e, on-line, a «Senecio» (di E. Piccolo e L. Lanza) dove è apparso, in particolare, il poemetto Riscritture. È collaboratore del bimestrale di scambio culturale Italia - Kazakhstan «Aksainews». È presente in vari blog letterari. Suoi inediti sono stati pubblicati sui numeri 34, 39 e 40 di «Gradiva», e sul n. 25 di «La Mosca di Milano».

Nel 2009 è finalista al premio Nicola Martucci nella sezione Attore, per la quale interpreta il monologo centrale di Edipo da La serata a Colono di E. Morante. Ha pubblicato l’atto unico Il posto sul numero 10/2011 di «Teatro contemporaneo e cinema». 

Come una Madre









(a margine dell’attentato alla scuola di Brindisi, il 19 maggio 2012, e alla morte di Melissa Bassi)





Ma ora con un tratto di penna ho tolto la distanza



l’affetto Madre non è mai figlio di un dio minore



ho terminato il mio faccia a faccia

con giorni che fuggono muoiono



la mia assenza attacca la tua pelle

siamo intime e lontanissime

come se ora una di noi fosse inventata

e solo l’altra vera



mi è stata accordata questa pagina

metto alcuni pensieri nei tuoi occhi

perché anche tu possa frantumare

il marmo dello spavento



ti scrivo da una ferita che non ha più sangue



ferma nel secondo che l’ha aperta

a un passo dai banchi di scuola



gli sms ad Andrea i baci rubati

anni avari di certezze



ho regalato la mia giovinezza a una ragazza sconosciuta

sperando che la viva con maggior fortuna



ma anche lei dovrà accettare gli imbuti di silenzio

quando tutto sembra precipitare

e gli occhi hanno già il pianto del mondo



ho regalato i miei desideri più vasti del Tavoliere

più discreti di un velo di rugiada



la rugiada mi copre il viso

sorge il sole tu mi togli il velo

e chiami, Melissa!

e mi scopri deturpata

la rugiada si scioglie

e porta via la certezza del mio corpo

dov’è Melissa?



È un rimbombo che gioca a moltiplicarsi

una porta verso l’Altro

un fremere di oceani

tolgo sabbia e terraferma io sono il mare



si fa d’acqua ogni sole passato

si è sciolto nel suo silenzio



dal mare emergono le mie cose

accanto a te la mia borsetta imitava

il verso degli adulti

l’occorrente per un ballo di eleganza

sfogliavo riviste cercavo un matrimonio al volo

fra me e una felicità sperata



quel tuffo di un colore vivo

l’entrarmi di un piccolo infinito



un filo di perle una calza di seta

e il balbettio di una serata diversa

io per un attimo all’altezza dell’immagine amata



ragazza fuori dal cielo di una città stretta



non sapevo nulla del buio



nulla di questa luce sfolgorante

da principio d’infanzia

da cantilena di eterni

da concerto di albe conficcate in un cristallo



l’inizio di una rincorsa verso Dio



l’esplosione mi ha dispersa

bruciando ben oltre le labbra degli occhi

ho raggiunto l’orifizio da cui uscii



riavvolgendomi indietro

sono risalita alla fiera di germi e cellule

tue microperiferie che si addensarono a formarmi



lo strappo ha scremato le aurore



ma così mi ha spalancato il cuore

lo ha appeso all’azzurro come lampada infuocata

adesso nulla più mi sfugge



sono il tuo foglio scrivi qualunque cosa

e la ricorderò fino alla consunzione

del tuo tempo di carne



ma prima ti chiedo di non maledire più l’orrore

a combatterlo ci penserà la giustizia

e l’opera della coscienza



non voglio più catini di lacrime

absidi di compiete e guance dilavate



trasformata in ricordo

ho temuto che andasse tutto perso

gli anni che avevo impiegato a raggiungermi



ma nell’affanno del dopo ho trovato

anche quello che non avevo mai cercato



Madre prendi tu la Melissa che si celava

nel suo guscio di timidezza

vi leggerai parole di apertura a tutti

e l’immagine dell’assassino



un puntino nero fumigante desolazione



è qui che ti chiedo attenzione

è troppo facile per te incidere

rabbia e angoscia non voglio

che lui continui a generare sofferenza

condannalo invece a cercare luce



c’è un microfono di stagioni

pronto a essere sollevato

come la cornetta del telefono

gli parleranno



mi ha sottratto a voi al sorriso del mondo

al dono che ero a me stessa

ma la sua vita vale più del male che ha fatto



mi sento così libera

guardo me stessa e ritrovo te



metto le mani nel tuo cuore

scelgo cosa deve restare e cosa va tolto



non ho più limiti all’amore

mi dilata un assoluto



mentre tu mi ricordi come un giro

finito troppo presto

il profumo di una gioia che pure è stata vostra



fino allo smarrimento dei contatti

alla sospensione da tutto

quando sono stata per un attimo carne di pietra



la mia morte è la fine di una consuetudine

durata sedici anni sedici giri di sole

intorno ai volti che mi hanno preceduto nell’amore



avevamo l’alfabeto per usare la stessa faccia

e scambiarci il felice peccato di essere



parole piane da portare come un natale in pancia

ce le dicevamo senza parlare



dopo quel baratro il volo è ripreso

anche se tu Madre non riesci a percepirlo



il mio grembo feconda da qui agli ultimi fasci di stelle



ho ali di misericordia e brezze di pace



la memoria ha guanti perfetti

è neve e pupilla lusso e sipario



da oggi sono il calice che racchiude il tuo fiore

le mani giunte che ti tengono

come un’impennata di dolcezza



la mia è stata una breve parabola

reggila oltre i cancelli della nostra vicenda



ti è entrato l’uragano nell’iride

ora la tua terra è in cerca d’adozione



sarò nel tuo futuro

dolore e speranza non hanno un passato



non ho mai amato tanto la vita come adesso

intendo la tua

ogni grano di impegno

che pianterai nel tuo campo



fino a farlo biondeggiare nel vento

dove anch’io mi nascondo quando

abbandono il mio nome e sogno



da oggi vivo in te come arco naturale

folla in attesa

pioggia che non cade più

viaggio d’indizi



non sciupare nessuna immagine

che risale dal pozzo del ventre



conterò anche i tuoi respiri:



come una Madre.





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