Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

mercoledì 30 maggio 2012




David Eloy Rodríguez


Il desiderio è un ospite




Traduzione 
di Lorenzo Mari

Dipinto fuori testo 
di Marco Vecchio

Edizioni L'Arca Felice






David Eloy Rodríguez, nato a Cáceres (Extremadura) nel 1976, vive a Siviglia. Poeta e operatore culturale, ha pubblicato i libri di poesia Chrauf (1996), Miedo de ser escarcha (2000, premio internazionale Surcos), Asombros (2006, con illustrazioni di Miki Leal), Los huidos (2008) e Para nombrar una ciudad (2010, premio internazionale Francisco Villaespesa) ed è co-autore, insieme a Miguel Ángel García Argüez e José María Gómez Valero, del libro di favole poetiche Este loco mundo. 17 cuentos (2010). Cura diversi progetti artistici in cui la poesia entra in relazione con la musica e con altre arti, dedicandosi in particolar modo al laboratorio di azione e creazione poetica La Palabra Itinerante.

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OSPITALITÀ

La risata profuma di radice e di cielo sereno,
conosce tutto quello che conoscono le lucciole.
La risata eleva in volo gli aquiloni pesanti
dei sogni senza vincoli, a voce alta.
La risata è una provincia senza governo,
una barca che ha l’oblio come equipaggio.
Esistono posti senza afflizioni. Lì
siamo i mozzi delle barchette di carta
che costruiamo da bambini.
Lì si fa vero il mondo
che ha le dimensioni dell’estate,
che ha lo stesso tatto della musica.
In una casa enorme con tutte
le porte aperte ebbe luogo
una pausa, una pace, una concordanza,
un aggroviglio di gioie unite.
In quel momento tutti fummo legno
dello stesso albero che nessuno,
mai, sarebbe riuscito a potare.


HOSPITALIDAD

La risa huele a raíz y a cielo despejado,
sabe todo lo que saben las luciérnagas.
La risa hace volar las cometas graves
del sueño en voz alta, desmandadas.
La risa es una comarca sin gobierno,
un barco cuya tripulación es el olvido.
Hay lugares sin daño. Allí
somos grumetes de barcos de papel
que construimos en la infancia.
Allí se verifica que el mundo
tiene dimensiones de verano,
el mismo tacto que la música.
En una casa enorme con todas
las puertas abiertas hubo
una pausa, una paz, un acuerdo,
un manojo de alegrías juntas.
Fuimos todos entonces madera
del mismo árbol que nadie,
nunca, conseguiría talar.






Lorenzo Mari, nato a Mantova nel 1984, vive e lavora a Bologna. Presente in alcune riviste e antologie poetiche, ha pubblicato le raccolte Pellegrinaggio senza Endimione (2007, premio Alessandro Tanzi) e Minuta di silenzio (L’Arcolaio, Forlì, 2009). Collabora con l’associazione culturale bolognese Malicuvata (www.malicuvata.it) e con la rivista di poesia di Pavia «Farepoesia».






John Taggart

John Taggart




Car Museum




John Taggart

Car Museum


Traduzione 
di Cristina Babino

Fotografia fuori testo 

di Jennifer Taggart





 John Taggart è nato in Iowa nel 1942 e vive in Pennsylvania. È una delle voci poetiche e critiche statunitensi contemporanee più importanti e influenti. Ha alle spalle una lunga carriera universitaria, culminata con l’incarico, terminato nel 2001, di Professor of English and Director of the Interdisciplinary Arts Program alla Shippensburg University. Poeta, critico e saggista, è stato curatore della prestigiosa rivista letteraria Maps. La sua opera, ampiamente antologizzata (inclusa anche in Best American Poetry 2002, a cura di Robert Creely), comprende, tra gli altri, i volumi: To Construct a Clock (1971), Peace On Earth (1981), Standing Wave (1993), When the Saints (1999), Pastorelles (2004), There are birds (2008) e recentemente l’antologia ricapitolativa della sua opera Is Music (2010).




 

 Cristina Babino è nata ad Ancona nel 1976 e vive in Costa Azzurra. In poesia ha pubblicato L’abitudine del cielo (Blu di Prussia, 2003), La donna d’oro (peQuod, 2008) e la monografia critica La Ferita. Opere di Walter Angelici 1994 - 2009 (La Via Lattea, 2010). Suoi testi poetici sono inclusi in varie antologie italiane e straniere, tra cui Registro di poesia # 4 (D’If, 2011), Nodo Sottile 5 (Le Lettere, 2008), Poetry of the World /6 (Università di Coimbra, 2010), e sulle riviste «Nostro Lunedì», «Aesthetica», «Oficina de Poesia». Suoi scritti critici sono apparsi sulle riviste «Poesia», «Le voci della luna», «Stilos». Nel 2007 ha rappresentato l’Italia al VI Meeting Internazionale di Poesia Poetas organizzato dall’Università di Coimbra (Portogallo), ateneo presso il quale è stata ospitata, nel 2008, in qualità di European Poet in Residence.







martedì 29 maggio 2012

Questionario di poesia (43)





Mario Fresa
Questionario di poesia (43)



Rosa Pierno












Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

Raggiungere una forma valida. È la forma che reca il contenuto cogente. In questo senso credo che le due fasi: dell’impulso che veicola parole sul foglio e della correzione e valutazione, che dura ben più a lungo del momento aurorale, siano due momenti non disgiungibili dell’atto creativo. E inoltre, vorrei sottolineare il fatto che per me scrivere è fare. E’ creare un oggetto.


Come nasce, in te, una poesia?

Con una sorta di impulso in cui l’esistenza si esprime sotto voce altrui. Si potrebbe precisare che le componenti siano due:  l’angolo d’incidenza dell’individuo di cui parla Celan e l’angolo d’incidenza delle voci presenti nei libri letti. Ciò che mi accade di vivere e ciò che hanno elaborato altri nella loro vita sono, nel testo, conglobati in un nuovo oggetto.


Un poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Ciò che mi sfugge è tutto quello che hanno prodotto gli uomini. Leggo senza sosta per travasare il mare nel mio secchiello. Parlo sempre di ciò che vivo, ma spesso vivere è leggere. Non vedo soluzione di continuità.


La poesia è salvazione?

È una parola poco risonante per me. Non salva, ma è una risorsa irrinunciabile.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Alla roulette, a un tiro di dadi. Il caso non è mai escluso, il poeta non sa quale sarà il risultato nell’atto di scrivere, anche se l’intervallo è prefissato, ma interviene e modifica il prodotto che anche il caso ha contribuito a determinare.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Mi ha dato la più grande possibilità della mia vita: condividere le intelligenze, le passioni, le storie, gli errori, gli orrori, le scoperte, le sensazioni, l’immaginazione, l’amore di quelli che mi hanno preceduta. Mi ha fatto partecipare alla staffetta. Adoro raccogliere e passare il testimone.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

È la medesima risposta che ho dato a “come nasce, in te, un poesia?”. Io sono tutti gli altri che hanno scritto, quando scrivo. Mai sopporterei di dare voce a un’espressione relativa solo al mio singolo punto: al mio io. In me qualcosa nasce quando ha inglobato le voci altrui. L’autenticità coinciderebbe proprio con  l’inautentico. Che diviene il vero per tutti, nell’istante della lettura.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Gabriella Drudi, che considero un talento straordinario.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Al poeta si può augurare un maggior ascolto. Una società che utilizzi il suo dono.


Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?

Sarebbe come chiedermi di dire qual è il mio quadro preferito. E’ tutta l’arte, di nulla vorrei fare a meno.













In alto, un dipinto di Bartolomé Esteban Pérez Murillo [1618-1682]













venerdì 18 maggio 2012

Questionario di poesia (42) Marisa Papa Ruggiero


              
 Mario Fresa
Questionario di poesia (42)


Marisa Papa Ruggiero











Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?
                                                                                                              
Trasgredire il formulario verbale di ordinaria omologazione che pretende di parlare al posto nostro. Tentare di sedurre il demone, o la figura non prevista sulla carta,  che non conosco, ma so che c’è, e segnala a fior di pelle da un’area di sua creazione, da un remoto presente proiettato in un futuro già stato, o di là da venire… Individuare, tra frammenti e schegge di vissuto, il punto di uno scatto, l’urto istantaneo che si allunghi in una catena di animazioni sullo sguardo.    
Il segreto non è che la poesia stessa, la cui natura si sottrae alla nostra vista e ad ogni possibilità di definizione, sempre.



Come nasce, in te, una poesia?

Nasce da una visione, da un ritmo, da un indizio qualsiasi, che sia ricco di risonanze, che contenga il soffio forte della vita e  si annuncia come un dono che non ti aspetti.

Con la stessa perentoria necessità  della fame.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Al poeta interessa la creazione: rendere colma una mancanza, far accadere che la cosa parli da sé, che non sia parlata… Vi sono “zone” diverse dalle categorie ordinarie che trasmettono, attraverso la parola poetica, se veramente sentita, un’altra faccia del reale, non immaginaria o inventata di sana pianta, ma riformulata secondo un’ottica mai vista prima, qualcosa che solo la poesia può pronunciare. Al poeta interessa assaporare l’inaudita bellezza del tempo che sfugge, marcarne i suoni e le tinte, l’insolito profumo, con la consapevolezza che niente si può trattenere, e questo rende ogni istante prezioso.
Al poeta interessa il continuo divenire.  Traslare il reale in visione.
L’idea di confermare lo stesso immobile significato può essere doviziosa cura buona per l’archivio, ma appassiona poco il poeta.


La poesia è salvazione?

 La poesia è un dono. Un dono che bisogna meritare offrendosi interamente a lei. Accogliere il dono significa accogliere salvezza e perdizione, insieme. Né “salvavita”, tout court, caro a chi l’ intende come compenso e soccorso consolatorio, né “terapia intensiva”, come prescrive Adrienne Rich, ma un bene condivisibile, non per compiacersene tenendolo per sé, ma perchè venga inteso come ufficio di disciplina e di appassionata ricerca al fine di servire e di salvaguardare la lingua: l’unica vera libertà che ci è rimasta; contribuire a renderla più ricca e vitale, difenderla dalla corrosione e dall’inaridimento a cui sistematicamente è esposta.
Non credo rientri nei compiti della poesia salvare il poeta, mentre è innegabile che la poesia (ma l’intera sfera dell’arte!) sia, in ragione del suo vitalistico statuto di libertà e del suo potere di trasfigurazione, il solo vero principio salvifico per la nostra vita,  in grado di affrancarla dalla piatta brutalità dell’ordinario, e  nel contempo, sia forma di resistenza contro gl’infiniti tentacoli del nulla. Ecco la salvezza.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Ho amato, da bambina, giochi che sentivo magici.
Amavo tra l’altro “ricreare” coi miei disegni, le infinite favole di mia invenzione che mi piaceva poi regalare a piccole amiche, di scuola o di giochi. Spesso, la mancanza di giocattoli mi stimolava a comporre insieme a loro buffi ed elementari “quadretti scenici” in teatrini improvvisati nel cortile di casa. Si trattava, allora di un tipico meccanismo di immedesimazione, con le amate figurazioni delle fiabe o del mito, molto più che gioco, quasi sortilegio magico, mettere in azione il gesto scenico che inventa se stesso… un”vizio” che mi è rimasto.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Ha confermato in me molte cose già presenti a livello percettivo, e ha dato nuova definizione ad altre per quel che concerne il profilo critico, linguistico, speculativo, con la consapevolezza di modellare, con umiltà e pazienza, un organismo vivente in movimento e pronto a trasformarsi. Mi ha guidata a percorrere itinerari di ricerca e di studio, e a confrontarmi  di continuo con altri universi poetici.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento del poeta?

Ringrazio Mario che con questa domanda, non so se più provocatoria o deliziosamente  maliziosa, ci invita a passare attraverso specchi deformanti!

Sappiamo bene che la verità dell’arte sta tutta, inevitabilmente, nel suo potere di trasmutazione. “Non c’è altra verità - lo dice il poeta - che quella che si trasfigura in arte” (Brodsky) .
Il vero dell’arte non coincide col vero naturale, ma si modula  secondo proprie legislazioni  i cui termini dovranno essere di volta in volta inventati, e in distinta autonomia che non è né falsa, né vera: è altra, ed è più complessa di quella che ci circonda: precisamente quella che l’arte richiede. A scrivere, (come a dipingere) si è inevitabilmente in due. Il detto, appena formulato, si distacca dallo spazio mentale per riformularsi in altra forma sulla pagina. Occorre tutta la sincerità del poeta, ovvero, la sostanziale integrità dell’essere per sostenere con sguardo fermo, la tremenda dualità della Maschera. L’artista fa suo questo volto portatore di estremi, vive per metterli in tensione, talvolta per farli esplodere… dov’è la finzione? Si è comunque veri, e diversi, nel viaggio, fatalmente diversi in quanto portatori di infinite contraddizioni, vere o illusorie che siano, ma tutte legittime perché appartenenti all’umano e alle sue tensioni. Fermo restando che ci sarà sempre nel fondo un nucleo di sincera adesione ad una interiore verità, come ad un  ancoraggio inestirpabile che si chiama: vero e autentico sentire, il fulcro, cioè di quel che si intende per creazione. Niente si crea se non c’è vero e autentico sentire, ed è quello che, a ben vedere, produce verità in arte. In assenza di vero sentire, dovremmo parlare non di poesia, ma di qualcos’altro che non le somiglia,  e non riesce a convincerci.
Converrebbe, piuttosto, domandarsi in che modo riescono ad integrarsi l’esigenza di verità del poeta con le esigenze proprie dell’arte. Tendenzialmente, le due sfere aspirerebbero ad amalgamarsi nell’atto creativo: l’una, nella sostanza dell’altra, arricchendola e trasformandola. Al poeta, il compito che non venga tradita la peculiarità dell’arte in nome di un angusto concetto di  verosimiglianza; il che non significa affatto “mascherare” il vero, come spesso si è portati a credere in ossequio a codificati convincimenti moraleggianti del tutto estranei all’arte.
Solo l’artista (il poeta) saprà discernere il senso corretto di ciò che viene detta “simulazione” in arte, e sarà Picasso ad indicarcelo in uno sfolgorante aforisma: “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità”.
Una bugia che Blanchot non esita a definire, per ciò che attiene la letteratura, “frutto di fede e di onestà da parte dello scrittore”.
E c’è Adorno che asserisce l’identica cosa (dell’enunciato picassiano) rovesciandone arditamente i termini per restituirci un’equazione dinamica di potente efficacia: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.
A me sembra che, in entrambi i casi, i termini di bugia e verità  riflettano due speculari “proiezioni” mentali che si caricano di significazione etica nella magia dell’arte.

Altra cosa è la falsità di fronte a se stessi, e di fronte all’arte, quella che si regge sulla formula spettacolistica della propria simulazione fine a se stessa e non produce altro che straniamento;  o quella che ama dichiarare le più edificanti intenzioni senza mai passare col proprio corpo attraverso il “cerchio di fuoco”, o attraverso gli specchi, né lasciarsi contaminare dalla stregata, smagliante verità della Maschera.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Lorenzo Calogero, formidabile voce del profondo sud italico, ucciso dall’indifferenza dei suoi contemporanei… La sua lettera di molte pagine indirizzata a un potente dell’editoria, come ci viene riferito, non ebbe mai alcun esito! E l’aspetto che più rattrista è che quel potente dell’editoria era anche un (fin troppo) celebrato poeta…
Un poeta, Calogero, mai celebrato, nemmeno da morto, (ricorre quest’anno il cinquantenario della morte)  stranamente rimosso, salvo alcuni sporadici ma significativi interventi critici.


Qual è il dono che augureresti a un poeta oggi?

Come ho già detto, si deve un riguardo particolare  al dono, già grande, della poesia.
Lo si onori come meglio sente, studiando, studiando, e anche, perché no? ponendo nuove insolubili domande alla Sfinge…


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

(…)
E l’ultimo giorno
- io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
(…)

Pensare soltanto di aggiungere un commento a questo tremendo urlo delle parole non nate, sarebbe per me profanarlo! In esso è contenuta tutta l’indicibile solitudine di un’anima.  Anche per Antonia Pozzi, la sua poesia, splendida e autentica, ha trovato sempre, dinanzi a sé  Una porta che si chiude, come è il titolo di questa poesia.
La poesia di Antonia è stata la rarità del Dono che si concede agli eletti, ai predestinati, la cui voce, limpidissima, mai fu intesa dai suoi contemporanei, a cominciare dai suoi stessi parenti, che per ottusità e ipocrisia, vollero parzialmente distruggere e alterare l’integrità non solo di tanti suoi testi, ma anche dell’ultimo suo scritto a loro dedicato prima di darsi volontariamente la morte. E a soli 26 anni!
Sono occorsi molti decenni perchè la poesia di Antonia, che in vita non riuscì mai a pubblicare, finalmente raggiungesse  significativa rivalutazione e venisse riconosciuta come una delle voci più vive e intense del Novecento.







In alto, un dipinto di Marc Chagall [1887-1985] 










martedì 8 maggio 2012

Questionario di poesia (41)











 Mario Fresa
Questionario di poesia (41)

Patrizia Cremona








Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


La mia scrittura mira a una specie di musica silenziosa.


Come nasce, in te, una poesia?

Guardando il cielo.


Un poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere,
e che sempre gli sfugge?

Il poeta vive una forma inadeguata del suo tempo, e spesso cerca di sfuggire a quest’ultimo, “cancellandosi” attraverso l’esercizio della scrittura.



La poesia è salvazione ?

Sì: la poesia è vita, e perciò ti fa continuamente perdere e ritrovare (e dunque “salvare”).


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Ricordo che da piccola amavo molto giocare alle costruzioni. Mi divertivo seduta a terra con calma a costruire case, elicotteri, mezzi di trasporto, ecc. La poesia è proprio così: significa togliere, aggiungere, incastonare, legare.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Credo che il grado di “finzione” nella scrittura poetica sia molto alto. Si tratta di un mascheramento proficuo e non disonesto: l’emergere della poesia rinnova la tua identità e la stravolge, permettendoti di scoprire una parte di te che non pensavi di avere.


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Gabriele d’Annunzio. Rileggiamolo, ad esempio quando scriveva: «Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto ».



Qual è il dono che augureresti  a un poeta, oggi?

Scrivere, dimenticando di essere “poeta”.


Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?

Scelgo questi versi di Alda Merini: «Bacio che sopporti il peso/della mia anima breve/in te il mondo del mio discorso/diventa suono e paura /».








In alto, un dipinto di Marcel Duchamp [1887-1968]








lunedì 7 maggio 2012


Nota di Pasquale Tempesta pubblicata su La Gazzetta del Mezzogiorno del 07.05.2012
A che servono le rose del salentino Vincenzo Gasparro
Già maggio: A che servono le rose? Una domanda, una provocazione? Forse. Per intanto, è il titolo di un piccolo, prezioso libro di poesie. Con versi ,però, un po’ ”diversi”. L’autore: Vincenzo Gasparro che i colori del maggio e della incipiente primavera avrà certo cantato in precedenti sue pubblicazioni(Melagrane scarlatte, more nere, Grazie per i balconi fioriti,Barchette arancio e limone), ispirandosi alla luce sfolgorante del suo e del nostro Salento (Gasparro è nato a Ceglie Messapica).
   Qualcuno ha già detto-lo ricorda Vincenzo Di Oronzo in prefazione-che il poeta <è colui che guarisce con la luce>. E questa non si esprime soltanto nelle dorate esplosioni dell’alba o nel caleidoscopico dei fiori rugiadosi del mattino, bensì anche nel bianco della calce che accende le cuspidi dei trulli e i sassi dei muretti a secco delle nostre contrade. Ma la <luce> è anche-e forse soprattutto-sentimento, passione, sofferenza, nostalgia.Quali ritrovi, tutti, in un lungo soliloquio dell’autore: nei versi senza titolo delle prime pagine e nell’intensa prosa conclusiva di un <epilogo con paradosso> che riassume il suo intimo sentire.
   E’ difficile distinguere fra i due momenti espressivi:stesso ardore lirico,stessa musicalità del linguaggio. Eccone un saggio: “Ogni tua parola è un canto/solo tu nuoti nei triangoli d’acqua/ e ti perdi nei suoni muti del clarino/ respiri tutti i profumi/ assapori i limoni e la menta /accarezzi le amphorae perse nel tempo/ e il sortilegio immortale di Kailia (che è l’antico nome di Ceglie Messapica).“Amore mio la luce del mattino s’è levata/ ma tu non vedi la tristezza del passero// nel giardino,né la rugiada sull’ultima rosa…”.
   Altrettanta armoniosa sonorità della parola e ricchezza espressiva nel componimento in prosa: “Ho dormito nella frescura del gravido negramaro nei giorni delle lingue di fuoco berrò tutto il tuo sole a piena gola per l’arsura coronata dei pampini e d’edera volteggi con zefiro stasera. Annegherò nell’uva al sapore avido nel nettare del tuo fiore…”.
   In sintonia con la fantasia e l’eleganza del racconto poetico di Gasparro, le composizioni grafiche di Sofia Rondelli che impreziosiscono le pagine del raffinato  volumetto, stampato per le Edizioni L’Arca Felice.

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