Libri di arte, poesia e filosofia

La parola verso proviene dal verbo latino vertere, cioè «capovolgere», in particolare la terra con un aratro. Il verso è allora un solco, una linea dritta in cui l’uomo col proprio lavoro pone i suoi semi che germoglieranno: nel verso, così, convergono la linearità naturale degli eventi e l’impegno fruttifero del pensiero umano.

domenica 22 aprile 2012

Questionario di poesia (40): Giorgio Bonacini




 Mario Fresa
Questionario di poesia (40)

Giorgio Bonacini






Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

Non c’è un segreto o un’intenzione volutamente nascosta, ma un desiderio di riuscire a scrivere poesia con parole che riescano a dire il vero che sta in un continuo senso iniziale e in una significazione finale forse sfiorabile, ma in sé irraggiungibile. E’ il mio tentativo. Forse in qualche poesia l’ho sentito vicino, ma non so se l’ho raggiunto. Vorrei che la scrittura fosse veramente la sostanza di un pensiero poetico che riempie di sé un mondo: che parte da questo in cui siamo ma arriva a dar forma a un altro. Come dice Joë Bousquet: Non una riga senza aver pensato o sentito ciò che essa scrive.


Come nasce, in te, una poesia?

In modi sempre diversi, anche all’interno di una stessa serie di poesie. Un’idea, un’immagine, una parola letta, ascoltata o detta, una lettura, una situazione che mi porta a pensare: in definitiva da tutto ciò che è la vita. Prendo appunti su foglietti e poi quando sento che è il momento comincio a scrivere. E inizio subito a definire se sarà una sola poesia o una sequenza o un poemetto: questo mi permette di sviluppare l’andamento del testo e a far sì che la sua scrittura sia quella che deve essere per quella struttura formale e sostanziale. E’ per questo ogni mio libro è diverso dall’altro; e anche perché io sono diverso da un libro all’altro.


Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Il poeta vorrebbe forse vivere realmente ciò che scrive, ma questo gli riesce solo in parte: ma quella parzialità (molto umana) è proprio la parte necessaria per dire e dare una voce al suo desiderio, che è un luogo pensante e tortuoso. Ma il mondo del poeta non è relegato in una dimensione personale: è un mondo che vorrebbe essere singolarmente collettivo. Così la poesia che il poeta consegna al lettore (anche a lui stesso quando è lettore di sé) ha un senso che appare indefinito perché è sempre in attesa di avvicinarsi a una compiutezza, una fra le tante, da chi sente di ricevere un dono inaspettato. Dunque il poeta, alla fine, parla di qualcosa che pensa ma non sa ancora. E credo che questo non sapere sia il motore del suo dire incessante, inattuale e costantemente in prova.


La poesia è salvazione?

La poesia è un fare, e mentre opera con il suo scrivere e dire ha cura del nostro naufragio. Non so se ci salvi, ma di certo ci aiuta a respirare e a considerare, anche nei patimenti, la possibilità di una conoscenza diversa, non comune. La poesia vive e costruisce la possibilità di un senso nella calma e nelle intemperie ed è lasciandosi andare alla sua corrente (Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori/carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia/mobile d'un rigagno…) che si riesce a trovare qualcosa e un poco a trovarsi.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Alla scatola di montaggio del meccano. Perché si dovevano cercare e trovare i pezzi (le parole), poi le viti, i bulloni, le corde, i ganci (la punteggiatura che dà pause e ritmi); unirli avvitando (la disposizione dei versi) e alla fine provare il funzionamento della gru o del montacarichi (la scrittura, il suono e l’accensione dei sensi devono essere quelli per quella particolare poesia e non altri).


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Dalla lettura e dalla scrittura dei testi poetici ho imparato a considerare l’esistenza di una riflessione sulla natura e sul divenire delle cose che non è solo quella che normalmente si chiama realtà. E che la ricerca di una lingua, che non sia solo oscurità o chiarezza, ma indicazione per una particolare disposizione del pensiero, è un luogo di esistenza che ha un suo corpo reale. E se anche questo può sembrare immaginario, in chi scrive e legge poesia questo mondo si materializza nel sentire e nel percepire l’intima dimensione del fare poetico. Scrivere versi mi ha portato anche a considerare non la verità, ma il vero: che non è una dimensione controllabile ed esauribile, ma una molteplice sfaccettatura materiale e mentale, di arricchimento costante e di riformulazione del già dato e conosciuto. Non si esce indenni dalla pratica poetica. Le categorie ordinarie si frantumano e ne esce un rimodellamento nuovo, anche quando questo è di difficile comprensione.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Credo che in poesia, e in generale quando si è in atto di scrittura, l’io del poeta riesca, concentrando i propri sensi e le proprie percezioni, a polverizzarsi e, apparentemente, a dimenticarsi e    a neutralizzarsi nell’opera. Ciò non significa che l’autore debba scomparire, ma, anche quando parla di sé, deve cercare di dire la voce e la parola che va detta : e non solo la sua voce e la sua parola. Si può chiamare finzione o mascheramento questo sgretolarsi e ricompattarsi in altro? Forse sì, ma solo se pensiamo che non sia la poesia a essere finzione o maschera per il poeta, ma il contrario: è il poeta a essere maschera/finzione della poesia. Un’astuzia della scrittura!


Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Adriano Spatola, per la sua coerenza poetica e intellettuale e per aver esplorato tutte le possibilità poetiche: quelle visive (Zeroglifici), quelle sonore (Aviation aviateur) quelle lineari (tutte le sue poesie), quelle editoriali (Tam Tam e Geiger) per arrivare a praticare quella Poesia totale di cui è stato teorico e che ha cercato di sistematizzare in un importante saggio. E tutto questo con il dono dell’amicizia.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Di continuare a leggere le poesie degli altri poeti, meditarne le parole come se fossero proprie e lasciarsi andare alla contemplazione delle proprie immagini: quelle che si vedono dopo aver letto. E di continuare a scrivere quando è necessario scrivere, nello stupore di ciò che si crea con la parola, sapendo che anche un solo lettore è un dono felicemente inesplicabile.


Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

A parte E il naufragar m’è dolce in questo mare, da cui tutti i poeti dovrebbero provare a partire e arrivare, cito questi due versi di Wallace Stevens: “There it was, word for word,/ The poem that took the place of a mountain.” (Era là, parola per parola,/la poesia che prese il posto di         un monte). Dove dice tutta la possibilità di dare forma, corpo e concretezza a un mondo con la poesia. Ma non un poetare astratto, bensì con la parola, fatta fonia e grafia, e sequenzialità e scelte concettuali che diventano, roccia, montagna. E non una montagna altra in un mondo a parte, ma un’invenzione diversa della montagna che c’è.










 



In alto, un dipinto di Carlo Carrà [1881-1966]















giovedì 19 aprile 2012

questionario dipoesia (39)




 Mario Fresa
Questionario di poesia (39)


Matteo Zattoni











Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


Ogni libro è un organismo. Il segreto non è nella progettualità razionale e a priori, ma nel suo respiro interno. Ogni libro vive di vita propria, tende a una coerenza interna e ha uno scopo comunicativo, affronta una tematica specifica, benché non preordinata. Nel mio libro d’esordio, Il nemico, proponevo fin dal titolo il rovesciamento della relazione d’amore in un’amorosa inimicizia, che prevede una calcolata strategia di reciproca conoscenza. Per quanto riguarda Il peso degli spazi, invece, l’esperienza dell’io ruotava intorno ai luoghi, claustrofobici o prediletti, onirici o metafisici: quello spazio finito dell’hic et nunc che è il limite umano al nostro desiderio di ubiquità. Ancora: L’estraneo bilanciato sviscerava il rapporto tra l’individuo e la società, vista in modo assai distante da quella “social catena” leopardiana che dovrebbe coalizzarci per uno scopo nobile; al contrario l’uomo è contenuto passivamente dalla società, svilito e marginalizzato, a volte persino braccato, come accade nelle guerre. Il prossimo lavoro, di cui Promesse vegetali costituisce una tappa importante, affronterà più scopertamente la tematica familiare: ho cercato documenti e interrogato i parenti per estrarre le mie radici, ricostruendo i passi di una privata e dolorosa genealogia. Naturalmente ogni libro mantiene un trait d’union col precedente e col successivo, poiché è situato all’interno del medesimo processo di comprensione del reale: si tratta di una interrelazione tra entità autonome, esattamente come accade tra le singole poesie e il libro a cui appartengono.



Come nasce, in te, una poesia?

La poesia è un’apocalisse, nel senso etimologico greco di “rivelazione, svelamento”. Ma la poesia è anche scrittura e riscrittura. Da un lato c’è un contenuto rivelato così, in modo fulmineo e cristallino, dall’altro c’è una lingua in cui va tradotto e riversato, badando bene che resti integro, intatto, vivo. Nulla deve andare perso o travisato, perché l’uno non può esistere senza l’altra. Perciò il risultato di un’ispirazione istantanea può richiedere giorni e persino mesi di lavoro lungo e meticoloso per venire alla luce.



Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

“Il poeta è un autotrasportatore, un autista di TIR” scriveva Ennio Cavalli in un libro provocatorio fin dal titolo: Il poeta è un camionista. L’accostamento tra il poeta, simbolo della purezza, e il camionista, stereotipo della durezza, era giustificato dalla loro medesima funzione: quella di portare attraverso, al di là, trasportare, secondo il significato etimologico di “metafora”. Che cosa trasporta il poeta? La realtà o il suo simulacro, gli aspetti invisibili nell’esistente o un ideale a cui tendere in modo incessante? Lo spettro della scelta è amplissimo e dipende dalla sensibilità del singolo poeta e dall’esigenza che lo muove. Ciò che veramente rileva è proprio il suo rapporto con l’oggetto che deve essere autentico, nel senso di “fatto da sé”.



La poesia è salvazione?

In Esperienza della poesia, una breve prosa del 1947, Vittorio Sereni dà un’indicazione molto evocativa sul rapporto tra poesia e salvezza: “Ci piace pensare al poeta come a un credente che aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta”.
Il poeta prepara se stesso come un terreno, si coltiva letteralmente, sviluppa un’attenzione al reale, attende un’ispirazione che non può programmare né nei tempi né nell’intensità. In questo sta la predestinazione: nel non sapere quando e con quanta forza scorrerà la nostra ispirazione; perché in noi e non in altri o viceversa. Eppure il poeta non può rifiutare la chiamata, anzi si adopera con il labor limae e con la disciplina e gli strumenti del proprio artigianato per rendere più chiari quei frutti, più simili alla visione originaria.
Qual è il premio per questo sforzo terribile e meraviglioso? Sereni ci dice che il compimento dell’ispirazione non è la grazia; forse nessuna opera umana lo è di per sé. Tuttavia, attraverso la propria opera – e io aggiungo: anche attraverso l’opera degli altri – il poeta o il lettore possono intravedere i segni di una grazia possibile, la ricomposizione di un κόσμος, linguistico e ontologico, laddove prima era solo χάος.



A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Paragonerei la mia poesia al gioco degli scacchi che, fin dalle elementari, mi ha appassionato più della dama. Ogni singola poesia è un pezzo sulla scacchiera: alcune sono il re e la regina, altre la torre, l’alfiere o il cavallo, altre infine sono semplici pedoni. Ogni pezzo ha una sua autonomia, può e deve compiere alcuni spostamenti e non altri. Ma è solo guardando all’insieme del movimento dei pezzi che si può intuire l’idea che anima il giocatore; la sua strategia è tanto più efficace quanto più tiene conto dello sviluppo effettivo del gioco. Qual è l’avversario? Come dispone i suoi pezzi? Che senso ha questa mossa?



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Moltissimo. Per un periodo della mia vita mi faceva impressione pensare che i miei migliori amici, quelli che io consideravo tali, fossero tutti morti. Alcuni persino da secoli! Eppure la comprensione delle cose che puoi attingere da una poesia, attraverso la sapienza poetica che ci è stata tramandata, non trova un corrispettivo soddisfacente nelle forme del vivere sociale. Per la natura stessa degli argomenti trattati, la poesia rimane il veicolo privilegiato per accogliere la profondità, i silenzi, il paziente lavoro di scavo che ogni uomo compie dentro se stesso. Ciò che emerge sotto una forma ritmica o musicale è qualcosa che, altrimenti, si fatica ad ammettere anche nei rapporti più intimi ed autentici: la consapevolezza può essere dolorosa e persino spaventosa. Tuttavia la poesia insegna a non accontentarsi della prima risposta, a non voltare il capo, a stare eroicamente di fronte alla realtà, anche la più cruda e ingiusta.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Premetto che in ogni poeta è rintracciabile un diverso grado di mascheramento, che può dipendere tanto da una scelta consapevole, quanto da una predisposizione inconscia o persino da una necessità interiore, dunque qui si ragiona di un personalissimo dover essere della poesia. Non esiste un grado “giusto” di finzione o di autenticità, anche se ritengo che gli estremi siano da rigettare in entrambe le direzioni.
Da un lato, una finzione preponderante o addirittura totale difficilmente conserva in sé l’autenticità interna di cui ha bisogno la poesia per esplicare la propria forza; cosa diversa dal mascheramento è – invece – l’immedesimazione completa nella vita altrui, che deve però avere ragioni profonde quanto quelle dell’esperienza personale, nascendo da un sentimento a metà tra la pietas e l’empatia.
Dal lato opposto, però, l’opera di un poeta non dovrebbe mai essere fatta coincidere con la sua biografia. Sarebbe riduttivo o fuorviante sovrapporre l’io dell’autore all’autore stesso; e ciò vale per tutta la letteratura, talvolta persino per quella dichiaratamente autobiografica. Certamente la poesia è collegata a un’esperienza biologica poiché un certo modo di fare poesia è plausibile per tutti e in ogni tempo solo se proviene da quel corpo di quell’uomo che ha fatto una determinata esperienza in un dato momento storico. È un paradosso che porta a far convergere la massima particolarità e il massimo universalismo.
Tuttavia la distanza della poesia dal suo autore permane non diversamente da quanto accade nel rapporto genitoriale: il figlio potrà assomigliare al padre, recherà in sé molte sue caratteristiche, ma non sarà mai esattamente il padre. In questo condivido la posizione del Prof. Alberto Casadei quando scrive che “la forma poetica, di qualunque natura sia, costituisce comunque una separazione dal continuum biologico, dunque una creazione complessa, come può esserlo, materialmente, un qualunque essere pluricellulare”. Muovendo da questa visione organica dell’atto creativo, potrei concludere che l’io poetico non costituisce tanto una maschera dell’io biografico, quanto una selezione o una sintesi. Il vero io è, in realtà, un “noi”. Rimbaud direbbe che “JE est un autre”, aprendo alla trascendenza del poeta veggente.



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Come sostiene Magrelli in Didascalie per la lettura di un giornale: “Le poesie vanno sempre rilette, / lette, rilette, lette, messe in carica; / ogni lettura compie la ricarica, / sono apparecchi per caricare senso”. In un certo senso tutti i poeti che sono stati rigorosi e autentici andrebbero ricordati, poiché hanno svolto un’opera etica di costruzione e ricostruzione del reale. Per limitarmi alla mia zona, la Romagna, direi senz’altro Ferruccio Benzoni di Cesenatico, fra gli animatori della rivista “Sul porto” e poeta disperato. Ma voglio anche ricordare Tolmino Baldassari, scomparso nel 2010. Ho avuto il privilegio di incontrarlo nella sua casa tra i pini di Cannuzzo di Cervia, grazie al comune amico Stefano Maldini: nel 2001 aveva letto dei miei inediti su una rivista, si era fatto dare il mio numero e una sera mi telefonò per complimentarsi. Pur essendo autodidatta, si era costruito una cultura profonda, come testimoniava la sua biblioteca di circa tremila volumi. I suoi versi nel dialetto di Castiglione di Cervia salvano una storia fatta di neve, di rane, di una nonna che spigola e, di storni in volo, ma anche di grondaie e di ombre.



Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Mi viene in mente l’ammonimento di Auden: “Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre”. Dunque il dono che augurerei a un poeta è, innanzi tutto, quello di rimanere tale, di non inaridirsi o appiattirsi sui luoghi comuni sia del pensiero sia della lingua. Per mantenere questo senso di meraviglia e di stupore verso le cose è necessario rallentare ogni tanto, affinare o allargare lo sguardo a seconda del proprio oggetto, sapersi abbandonare a un’intuizione, scoprire l’universale laddove gli altri si fermano a un particolare.
Sono tanti i doni che servono, specialmente in un tempo in cui le occasioni di dispersione superano di gran lunga quelle di raccoglimento e la lingua subisce quotidianamente l’assalto dei mass media. L’impoverimento, l’omologazione e il depotenziamento delle parole vanno in parallelo con la perdita di senso del mondo che esse rappresentano. La poesia incarna una delle poche forme di resistenza al processo globale di mercificazione e di svalutazione della figura umana che celebra l’individualismo amorale e l’economia come fine ultimo. Pertanto ciò che auguro a un poeta, ma direi a ogni uomo, è di non accontentarsi dei surrogati, bensì di preservare e perseguire la propria vocazione più alta. Per citare ancora Auden: “Non vi occorre vedere che cosa uno fa / per sapere se quella è la sua vocazione, / avete solo da guardare i suoi occhi”.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Fra i tantissimi, scelgo il famoso finale di Traducendo Brecht di Fortini: “la poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”. Credo racchiuda l’essenza moderna della condizione del poeta: in primo luogo lo sgretolamento della sua funzione sociale, la sua apparente incapacità di incidere sulla realtà contemporanea che genera in lui frustrazione e un senso di impotenza. In secondo luogo la disperazione esistenziale in cui il poeta si trova a compiere una ricerca che è sempre in fieri, che non offre esiti indiscutibili e oggettivamente apprezzabili, ma è fatta di slittamenti di senso, conquiste provvisorie e spesso amare della coscienza.
A fronte di questo sforzo poco o nulla remunerato, che prevede gioie segrete, ma così interiori da chiedersi se siano davvero esistite, ci si aspetta che il poeta a un certo punto allenti la presa, faccia altro. Invece c’è un evento imprevisto con cui confrontarsi: il poeta scrive, continua a scrivere contro ogni logica sociale, contro ogni convenienza personale. Non tutti, certamente. L’imperativo di Fortini, “scrivi”, riassume proprio la sua fede nell’atto dello scrivere come testimonianza etica, la sua forza nel continuare a interrogare il mistero, nonostante le risposte incerte e l’indifferenza della società. Una gratuità eroica che nell’ampliamento della consapevolezza individuale trova il suo premio doloroso.







 
In alto, L’uomo che cammina di Alfredo Giacometti [1901-1966]










martedì 10 aprile 2012

Andrea Garbin








Andrea Garbin

Viaggio di un guerriero senz'arme

con all'interno Tanka a 4 mani con Manuela Dago

Disegni di Marco Vecchio

Edizioni L’Arca Felice



Edizione d'Arte stampata tipograficamente su carta realizzata a mano Flora Camoscio in 199 esemplari numerati ad personam, finemente rilegati con filo di rafia. Fuori testo, una litografia di Marco Vecchio. Il libro è composto da 21 Haiku  e 4 Tanka

 


Litografia fuori testo di Marco Vecchio, china su carta, 2012



Andrea Garbin

Costruiti sulla misura di un equilibrio sottile ed elegante, gli Haiku di Andrea Garbin mostrano, insieme, un tono raffinato e discreto e improvvisi squarci di scardinante energia visionaria, costituendo una singolare poesia mista di pudori e di slanci, di rigore e di fervore, di accortezza e di passione.



Andrea Garbin, nato a Castel Goffredo (MN), ha pubblicato le raccolte di poesia Il senso della musa (Aletti, 2007) e Lattice (Fara, 2009), e alcuni racconti su antologie. Ha curato l’edizione del romanzo La fonte del fabbro di Fabrizio Arrighi (Lampi di stampa, 2010) e la raccolta di poesie Anche ora che la luna di Beppe Costa (Multimedia Edizioni, 2010). Dirige gli incontri di poesia presso il Caffè Galeter di Montichiari (BS) dove ha creato il Movimento dal sottosuolo. In un incontro romano, Fernando Arrabal gli ha chiesto di tradurre in dialetto “castellano” alcuni suoi testi: nasce così Dialectos, progetto che include la traduzione, sempre in “castellano”, di altri poeti stranieri e italiani. Da Dave Lordan è tradotto e presentato in Irlanda con l’antologia POETRHEE new italian voices. Nel 2011 è uscita, negli Stati Uniti, una prima selezione dei Border Songs (Canti di confine) tradotti e prefati da Jack Hirshman. Si occupa di teatro.


 


questionario di poesia (38)







 Mario Fresa
Questionario di poesia (38)



Anna Ruotolo







 
Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?



Credo si avvicini al divenire. Scrivere, per me e per il momento, presuppone un’esplorazione di sé, del resto della specie, del reale e anche del fittizio. Il concetto di divenire forse stride col concetto di progetto - perché l’uno è mobile, l’altro ha le fattezze della programmazione, dello scopo dato, del risultato cercato - ma dà il senso di una durata, di un continuo. Per cui il progetto profondo si potrà capire solo camminando, solo procedendo. Dunque il progetto vero è il procedere. È, insieme, cammino e  risultato. 





Come nasce, in te, una poesia?



C’è un momento appena prima di usare la penna o una tastiera o una matita che si sente come uno stato di sollevamento e, poi, di radar accesi verso l’esterno. C’è quasi un momento di comunione con gli stimoli che vengono da fuori. Tradurre questi e farli aderire al proprio laboratorio interiore è il successivo scrivere versi. 





Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?



Riprendo l’immagine dell’esplorazione. Se scrivere equivale ad esplorare, certamente succede di trasferire nelle poesie il proprio bagaglio: questo sarà di consistenza varia e di sfumature diverse. A me è capitato anche di fare della poesia che qualcuno ha definito “bianca” per la sua possibilità di essere applicata e riferita a un campione più ampio. Mi spiego: nel mio libro d’esordio, per esempio, esiste un fortissimo rimando al binomio spazio-tempo declinato in vari modi, non ultimi il tempo che sfugge e un posto che non si ha. Il tutto, però, si ricompone in uno “spazio di mezzo”, una “durata” che risolve, almeno negli intenti, i contrasti. È un ricomporre le fratture, correggere i contrattempi e riavvicinare le geografie. Quindi le due cose, il “vivere” e “ciò che si vorrebbe vivere” si presuppongono a vicenda. L’uno tiene l’altro e l’uno misura l’altro. Bisogna fare i conti con entrambi, credo. 





La poesia è salvazione?



Quando ho letto “salvazione” mi sono venute in mente quattro cose: il verso dantesco “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, il capitolo Il canto di Ulisse in Se questo è un uomo di Primo Levi, la poesia di Erri De Luca Classifica del fuoco, una cosa detta da Mario Luzi: “Noi siamo quello che ricordiamo. Il racconto è ricordo. E il ricordo è vivere”. Vorrei poter spiegare tutto e bene, nonostante abbia riportato esempi molto chiari, pienissimi di senso e che non hanno bisogno di una mia maldestra esegesi. Ci provo. Certo, la poesia è salvazione, ma lo è se porta con sé dei meccanismi: coscienza profonda di sé, discesa nel pensiero, consapevolezza dell’umano (inteso in senso generico e generale), fermezza nel ricordo. Tutto ciò diventa consolazione e, poi, vigore. Oggi, checché se ne dica e molto più che altre materie, la poesia sembra conservare e portare un altissimo insegnamento di tenacia, resistenza. Queste cose certamente hanno basi profonde e vengono da lontano, lampeggiano negli esempi citati. Ma se eccettuiamo, solo ed esclusivamente per un fatto temporale, la citazione per eccellenza (quella di Dante), possiamo comunque vedere che il resto dei rimandi più su fatti è tutto moderno, figlio di un percorso che non si è concluso nel passato (e che non potrebbe concludersi, pur volendo) e quindi ci riguarda proprio da vicino.

Il poema di Dante è tutto imperniato sulla dimostrazione di una salita che non risparmia il dolore e l’incertezza. Ma quel verso, proprio quello, ha la consistenza del respiro dopo il soffocamento. Ha il guadagno del bene e del bello dopo la caduta e l’angoscia, quale che essa sia. Non è un caso l’analisi della Commedia fatta da Levi. Ricordare con l’internato Jean, durante il cammino per prelevare la zuppa nel campo di Auschwitz, cosa significasse quel magnifico verso “fatti non foste a viver come bruti…” è una piccola salita verso il recupero dell’umanità, della ragione, del sentimento, della conoscenza contro l’abbrutimento inflitto dal sistema concentrazionario, dal meccanismo-lavoro e, in definitiva, dall’appiattimento delle personalità e delle coscienze. Un ideale, compartecipato cammino, oltre i secoli, verso la salvezza che diventa reale.

Erri De Luca ha spesso raccontato del poeta e amico fraterno Izet Sarajlic che nei freddi inverni di guerra a Sarajevo si scaldava bruciando il contenuto prezioso della sua biblioteca e ne ha fatto poesia su una classifica del fuoco di libri da sacrificare per farsi caldo, per trovare ristoro. Il primo inverno bruciarono i filosofi, il secondo i romanzieri, il terzo il teatro. Il quarto inverno toccava alla poesia finire nelle fiamme, ma la guerra terminò e la risparmiò. “Ultima destinata la poesia, in guerra la più urgente”, recita la chiusa. Mi è sempre piaciuto riflettere su questo, sulla necessità di un apporto salvifico della poesia in un momento tanto estremo, drammatico. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che più che salvezza siamo di fronte ad una cura consolatoria, un palliativo. Ma non credo sia così semplice, così scontato. E spiego adesso perché, parlando dell’ultima - ma non in importanza - corda/salvagente lanciata dalla poesia: il ricordo. Anzi, la durata del ricordo. La mappa del tempo ci serve, non potremmo farne a meno. Serve a dare un senso a innumerevoli vedute nuove. Più che la storia (che si ripete e nella quale si ripetono gli stessi errori - si sa, si dice sempre) la poesia non svilisce il già accaduto. Semplicemente lo rende sempre valido, sempre lampante. È uno specchio, ci rimanda a noi stessi. Un uomo o una donna davanti ad una poesia riflettono: come soggetti e come oggetti. Nel primo senso riflettono perché sono portati a spiegarsi un certo sentire che ha del divino, dell’eterno, nel secondo senso perché sono messi, appunto, di fronte ad uno specchio che riproduce la stessa immagine che si incarna. Nulla di diverso. Non così di fronte alla storia che è, piuttosto, un vetro oltre il quale si può (se si vuole) guardare ma che può rivelarsi ombrato, parziale. E comunque è un osservare praticato da spettatori, a debita distanza. L’uomo verso il fatto storico è reattivo ma in modo passivo, sente l’ineluttabilità del già accaduto e del continuo ritorno; egli rinuncia, perciò, alla sua partecipazione attiva all’avvenimento. La poesia porta l’umano, il suo carico sentimentale: qui l’uomo deve sforzarsi di fare la sua parte, prenderla per gradi, interpretarla, riviverla, patirla e sentirla tutta perché essa parla sostanzialmente di lui e per lui. L’uomo si sente fabbro del proprio destino, libero di forgiarlo, perché la poesia dà un sentore di verità irrinunciabile, accende più di un sentiero, predispone analogie che vanno a segno. Così per tutti coloro che vi si accostano è necessario un cammino di ricomposizione e questo è fatica ma anche compartecipazione al mondo, sempre, in modo costante. È il cammino della “salvezza”, poiché è un ritrovarsi. Cito un passo della filosofa Marìa Zambrano in Per una Storia della Pietà: “Novella e poesia hanno riflettuto, meglio della conoscenza storica, la verità del passato, la verità delle cose che accadono agli uomini e i loro sentimenti più intimi” (potremmo allora ritornare a Primo Levi e alla funzione della letteratura - e della poesia, in particolare - dopo Auschwitz, mezzo privilegiato - forse l’unico possibile - per raccontare una storia che non poteva prescindere da materie poco classificabili come i sentimenti. Unico modo per riprendersi la propria dignità, il proprio destino. Anche se, come sappiamo, il cammino di Levi si interruppe in una caduta nella tromba delle scale…). La poesia non insegna ma mette sotto il naso un senso. Non moralizza, non si mette dalla parte dei vincitori, non biasima i vinti. È la nostra codificazione spirituale e sempre valida perché somiglia a noi, alle nostre coscienze prima che agli eventi e alle azioni. La poesia ci salva, sempre. L’ha fatto sempre, nel tempo, perché ci mette di fronte a noi stessi in una maniera universale e, in questo tutto, ci avvicina agli altri abitanti dello spazio totale. Dunque se parla di sofferenza è nostra sofferenza e quella di tutti. Così anche se ci parla di un sentimento alto, un’evidenza, una prova, una ragione di vita. La poesia ci salva perché dice silenziosamente di noi a noi stessi, aspetta che siamo noi a recuperare quel che ci suggerisce. Non grida, non si affretta. Attende, paziente, che diventiamo i salvatori di noi stessi per mezzo del suo strumentario.





A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?



C’è una cosa che feci, una volta. Non proprio un gioco ma comunque un modo di passare il tempo in modo creativo. Avevo ricevuto da mia madre una scatola bianca di una bomboniera. Il coperchio, mobile, si fermava al resto della struttura con un nastrino e dentro aveva un fondo di stoffa in raso bianco lucido. Mangiai i confetti, presi l’involucro di merletto argentato e lo poggiai dentro. Sopra collocai cinque biglie cangianti di colore blu, dorato, argento e verde. Poi dipinsi il fondo del coperchio di blu e disegnai delle stelline con un pennarello argento. Quella diventò la mia scatola di cose celesti, belle e particolari. Non ci giocavo mai perché, una volta assemblata così, passavo del tempo solamente ad ammirarla. Sembrava un piccolo cielo in scatola. E poi la tenevo al riparo dalle sorelle, mamma, altri bambini. Era il mio segreto da svelare, quando sarebbe arrivato il tempo, solo a poche persone. Ricostruire, senza presunzione di riuscirci perfettamente, l’architettura della bellezza e dell’armonia nell’umano con le cose povere che hai attorno: fare poesia un po’ somiglia a questo.





Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?



La pazienza, soprattutto. C’è una testimonianza della Achmatova che mi vale come regola: I versi affluiscono senza sosta ma, come sempre, li caccio, finché non ne ascolto uno autentico.”
 




Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?



Penso sia quello necessario affinché le cose personalissime e troppo contingenti vengano filtrate dal mezzo espressivo per diventare comuni, plurali, somiglianti al maggior numero possibile di lettori. Non voglio pensare ad un’altra opzione di finzione o mascheramento. Non sarebbe corretto, forse nemmeno lecito. Ma ognuno, alla fine, applica le sue regole e le sue convinzioni. Io non posso giudicare.





Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?



Alfonso Gatto. Per avere una sua raccolta organica e vederlo tolto da un certo silenzio abbiamo dovuto aspettare trent’anni circa dalla sua morte, fino a quando non è uscito il lavoro “Tutte le poesie” per i tipi di Mondadori (Oscar Grandi Classici, Milano 2005) a cura di Silvio Ramat. E da molti A. Gatto è ancora considerato un poeta minore. Non è così. Non è così.





Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?



La costanza nella (proprio in, dentro…) pazienza.





Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?



Dalla poesia Anni dopo di Vittorio Sereni: “Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta e difendici amicizia.” proprio perché racchiude un po’ il discorso fatto sopra sulla storia, i sentimenti, l’umano. Solo in poesia si poteva chiedere a due entità che patiamo, cresciamo dentro e hanno equilibri altissimi, quelle che sorpassano la necessità e si mettono anche da parte se serve (nell’errata convinzione tutta umana - non loro - che qualcuno possa prescinderle), quelle stesse entità che ci congiungono l’uno all’altro (e di questo non possiamo farne a meno), di starci accanto sempre. Come se Sereni, dopo aver parlato di tutto ciò che riteneva urgente, avesse condensato in questi due versi tutto il necessario, la soluzione. Tutto ciò che resta immutato, ciò che conta. Un’eredità eterna.



















In alto, Santa Cecilia e l’Angelo di Carlo Saraceni [1579-1620]

















martedì 3 aprile 2012

questionario di poesia (37)






 Mario Fresa

Questionario di poesia (37)



Flavio Ermini








Come nasce, in te, una poesia?

Guardando all’Apeiron nominato da Anassimandro: all’indistinto da cui tutto ha origine. Ovvero alla pre-storia che come sottosuolo continua a vivere nella storia e nella nostra quotidianità.




Il poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Chi scrive resta faticosamente in scena per dirci che i mortali non possiedono esclusivamente la realtà esterna, ovvero il campo della loro azione, ma possiedono anche il campo dei loro sogni, delle vite che apparentemente non hanno vissuto.



La poesia è salvazione?

Non credo. Se lo fosse, costituirebbe l’ennesima illusione.


A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?

Il puzzle, per la sua possibilità di continua scomposizione e ricomposizione delle immagini. Per questo suo riandare ogni volta ai princìpi, alle archai.



Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Niente, mi pare.



Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Nei confronti del testo il grado dovrebbe essere prossimo allo zero.



Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Giacomo Bergamini (1945-2004), per le sue poesie in prosa.


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Scoprire di chiamarsi Scardanelli e vivere sulle rive del fiume Neckar.



Puoi citare, spiegando perché, un verso che ti è particolarmente caro?

Chi scrive ribadisce la possibilità di tenere insieme gli opposti che assillano la nostra esistenza. La soglia tra le due metà del dire diventa pensiero del “tra”, il pensiero di quella particolare forma di legame che, pur mantenendo separati i differenti, mantiene tra di loro un rapporto. Ecco perché Bonnefoy può asserire: «Non è vero amica mia / che esiste una sola parola per designare / nella lingua chiamata poesia / il sole del mattino e quello della sera?».







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